Paolo Di Paolo, Mandami tanta vita
Narratori Feltrinelli (2013), pp. 158, euro 13
Leda Fonti
“Mandami tanta vita” è quanto chiede Piero in una delle sue
lettere alla giovane moglie lontana. Infatti è la forza vitale che vien meno
ogni giorno di più a Piero Gobetti, personaggio storico, giovane giornalista,
intellettuale e politico antifascista, costretto all’esilio in Francia ed
afflitto da problemi di salute.
Siamo negli anni ’20, Piero è una mente brillante, ha fondato e
dirige delle riviste letterarie, è colto e intelligente. Esile e delicato, una
figura quasi evanescente, un nugolo di biondi capelli ricciuti e un paio di
occhialini tondi sulla punta del naso. Occhialini che vengono ripetutamente
spezzati dalla mano pesante dei picchiatori fascisti. Alla fine, per continuare
la sua attività di editore, si risolve a lasciare una Torino fredda, umida e
distaccata, con quella sua aria regale appesantita dall’atmosfera plumbea del
regime. E a lasciare l’amatissima moglie Ada e il neonato figlio Paolo. Piero
è un uomo fisicamente fragile, la sua salute cagionevole peggiora nel suo
esilio parigino, ma è un combattente che crede fermamente nel “volere è
potere”, tanto da convincersi che ritornerà in forze solo perché lo vuole
fortemente.
Moraldo incontra Piero per la prima volta in un’aula universitaria
e la sua prima reazione è di antipatia per questo ragazzo un po’ troppo sicuro
e pieno di sé.
Ma poi rimane affascinato al limite dell’ossessione dal
carisma di Piero, gli invidia il successo e la fama, tenta ripetutamente e invano di conoscerlo personalmente, nella speranza di poter
collaborare con lui o forse solo di venire magicamente contagiato dalla
sua ricchezza intellettuale e spirituale. Moraldo infatti vorrebbe primeggiare,
ha una grande passione per la letteratura e la filosofia e si diletta nel
disegnare caricature; ma è uno studente universitario mediocre, non
particolarmente dotato e nemmeno troppo perseverante. Ha un carattere pigro e
indolente, è un timido provinciale che si sente estraneo e fuori posto in
città. Proviene da una famiglia modesta e non riesce ad affrancarsi dal senso
di inferiorità causato dalle umili origini. Moraldo è dunque uomo pavido e
timoroso, che si atteggia ad intellettuale ma che nei fatti si dimostra
piuttosto prosaico e di ridotta apertura mentale. E’ un perdente, o almeno
sembra destinato ad essere tale. Solo quando nella sua vita capita per caso una
donna, Carlotta, una fotografa girovaga e disinibita, spronato da un
amico, mostra finalmente un po’ di coraggio e di spirito di iniziativa provando
a rincorrerla oltre confine.
Moraldo è sì personaggio debole, ma anche così umano, con i suoi
fastidiosi difetti più comuni di quanto si vorrebbe. E’ umano quando si lascia
vincere dalla vergogna, dalla timidezza, dalla pigrizia. Ed è umano soprattutto
quando incontra Carlotta e ne rimane inebriato, è poco esperto ed impacciato ai
limiti dell’irritabilità, eppure proprio per questo strappa un sorriso di
comprensione e quasi di simpatia. Carlotta, donna che fa perdere la testa,
estremamente moderna soprattutto per l’epoca, quasi troppo disinvolta e
volitiva, così poco adatta a Moraldo. Ma grazie a Carlotta Moraldo ha vinto la
sua prima battaglia: ha finalmente osato, ha superato la sua apatia e la sua
immobilità. E quando anche la possibilità di arrivare a Piero crolla,
pur se ancora ignaro, egli è finalmente pronto per modificare la sua esistenza,
per cominciare a crescere, a maturare, a diventare sé stesso, a smettere di
inseguire le sue chimere.
Paolo Di Paolo descrive efficacemente la Torino del periodo
fascista, così come anche la straniera Parigi. Si respira l’atmosfera d’epoca,
si scorgono le maschere dei ragazzini che scorrazzano beffardi durante il
Carnevale, si delineano chiari i paesaggi, gli ambienti, le atmosfere, i
personaggi con le loro emozioni universali ma con le caratteristiche tipiche
del tempo.
Ma, al di là della ricostruzione storica, il romanzo è incentrato
sulla psicologia dei due protagonisti e soprattutto sull’umana ricerca di
raggiungere, toccare, arrivare al mito. Più comune in giovane età, può
diventare un vero dramma il non riuscire ad accettare se stessi per quello che
si è mentre si vorrebbe essere tutt’altro, uguagliare il mito appunto. Meta
così elevata che il fallimento è pressoché garantito. E meta spesso
effimera e illusoria: il mito qui è Piero, uomo di talento e di successo, dai
nobili sentimenti e dalle elevate passioni, un personaggio positivo in tutto e
per tutto, il classico eroe romantico. Ma si può definirlo uomo
felice e fortunato? Se Moraldo conoscesse nel dettaglio la vita di Piero,
vorrebbe ancora così ardentemente vestire i suoi panni? Ma un mito non si può
toccare, se lo si vede in carne ed ossa, in tutta la sua umanità, cesserà di
essere tale.
Mandami tanta vita affronta temi interessanti e presenta
una suggestiva rievocazione storica. La prosa di Paolo di Paolo è curata.
Nonostante ciò il libro risulta non sempre di facile lettura: l’eccessivo uso
di citazioni appesantisce la narrazione e, anche a causa dei pochi dialoghi quasi
sempre in forma indiretta, la storia scorre con una certa lentezza. Non è una
lettura travolgente, è un libro che va metabolizzato per cogliere l’essenza
alla base della storia. Altrimenti ciò che rimane, arrivati all’ultima pagina,
è solo un velo di tristezza per i due protagonisti, lo sfortunato Piero e
il grigio Moraldo, che tanto avrebbero bisogno di un po’ della “vita”
evocata dal titolo.
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