G. Luca Chiovelli
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Storia del Necronomicon, il libro maledetto
Il libro che fa impazzire, Il re in giallo (una maledizione americana)
Howard Phillips Lovecraft (Providence, Rhode Island, 20 agosto 1890 - 15 marzo 1937)
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Le immobili ore pomeridiane dell'estate, e l'adolescenza,
un'età talmente arrogante da ritenersi interminabile, da sempre congiurano a
favore delle letture più felici e irragionevoli.
Ricordo, a proposito, un anno memorabile: in poche
settimane lessi Gide (I sotterranei del Vaticano), Sartre (Il muro),
i racconti di Mark Twain, Il rosso e il nero, Stevenson (Jekyll e
i racconti fantastici), un'antologia dantesca, Machen, Le Fanu (quello di Carmilla
la vampira), M. R. James, Solaris di Lem, Conan Doyle. E poi Howard
Phillips Lovecraft, editato con modi spicci da Carlo Fruttero e Franco
Lucentini in un'antologia comunque storica, I mostri all'angolo della strada
(con memorabile copertina di Karel Thole: sullo sfondo di un cielo
apocalittico si staglia un edificio dalle architetture piranesiane in procinto
di mutarsi in entità aliena).
È di fatto impossibile ricreare sulla pagina
l'intensità del piacere provato scorrendo i racconti del solitario di
Providence; un piacere goduto in un mondo sospeso, quando, nelle ore più calde,
le voci si tacitavano del tutto, e l'unico bordone a quegli orrori
sovrannaturali erano l'ossessivo frinire delle cicale, nascoste fra la
vegetazione polverosa della campagna, e gli schiocchi dei tetti di lamiera.
Fantasie oniriche, revenants, tare ereditarie,
zombies, case dalle maligne geometrie non euclidee, spartiti blasfemi, razze
interstellari che, destatesi da ciclopiche rovine antiche di centinaia di
milioni di anni, riprendevano il loro naturale posto di dominatori universali
spossessando la fragile signoria del genere umano: questo, e non altro, l'empio
catalogo della scarna produzione di Lovecraft.
Un teoria di orrori che, invece d'esser
significati con fare circospetto e allusivo, venivano, invece, esacerbati da
una prosa debordante, tesa al grottesco spinto; ecco alcuni estratti, presi a
caso: da Il richiamo di Cthulhu:
“I teosofi hanno speculato sulla terrificante
durata del ciclo cosmico … e hanno alluso alla sopravvivenza di misteriose
entità del passato in termini tali da gelarci il sangue … ma non è alle loro
teorie che devo la visione agghiacciante delle età proibite, quella singola
occhiata rivelatrice che mi fa rabbrividire quando ci penso e impazzire quando
ne sogno ...”
oppure, da I cari estinti:
“Il mio scranno è il fetido incavo di un'antica
tomba; la mia scrivania il dorso d'una pietra sepolcrale levigata dalla
devastazione dei secoli … intorno a me, su ogni lato, statue sepolcrali
vigilano su tombe dimenticate; e le lapidi cadenti e decrepite sono in parte
occultate da viluppi disgustosi di vegetazione putrescente ...”
e da Innominabile:
“... dalla tomba si levava un gemere, un
ansimare soffocato che mi portò alla mente l'immagine di legioni di dannati
brulicanti nel buio ...”.
Agghiacciante, fetido, proibito, disgustoso,
terrificante, devastato, putrescente. Tutto in poche righe. Oggi, liberi dagli
entusiasmi adolescenziali, possiamo finalmente chiederci: quale gradino merita
di occupare tale scrittore nella considerazione estetica d'un lettore ormai
maturo e scaltrito? Nessuno, direte. Eppure …
Ciascuno di noi possiede delle gerarchie di
valore; gli scrittori amati che si cercano nelle edizioni più preziose, oppure
i testi classici, o quelli fondamentali per la nostra attività di lavoro e
d'interesse, o, semplicemente, ciò che amiamo rileggere di tanto in tanto.
Tale pantheon è costituito da ciò che resta sul
fondo di un setaccio.
All'inizio della nostra carriera di lettori
gettiamo in esso di tutto: Salgari, Verne, Alcott, i primi innamoramenti, i
libri occasionali o quelli consigliati a scuola, i ghiribizzi, i monumenti
letterari, le scoperte personali. Col tempo vedremo il pulviscolo o la materia
di poco spessore filtrare inevitabilmente attraverso i fori e disperdersi nel
vento dell'indifferenza; nel fondo del vaglio rimarranno i sassetti più
consistenti. Quindi, negli anni, continueremo letture ed esperienze; il tempo e
le delusioni arriveranno implacabili ad assestare i nostri giudizi; lo sguardo
si farà più disincantato e cinico; parecchio più accorto; sarà allora che,
divenuti esigenti, allargheremo il diametro dei fori del nostro setaccio:
assieme alla pula, allora, se ne voleranno via anche alcune pietruzze e
granelli ch'erano sopravvissuti alla prima cernita. E così via, per tutta la
vita. Infine, al fondo, rimarranno intrappolati solo i pezzi più pesanti e
pregiati o alcune pietre dalla forma inusitata e irregolare.
Potete star certi che la scheggia Lovecraft,
bislacca e asimmetrica, rifiuterà di cadere fuori del setaccio della nostra
considerazione estetica; ad onta di quella prosa a mezzo fra preziosità
ottocentesche ed effettacci da pulp magazine.
Allora? Dov'è il segreto di tale resistenza
all'oblio?
Questa la mia personale risposta all'enigma:
Howard Phillips Lovecraft è uno dei più radicali nichilisti mai apparsi nelle
storie filosofiche e letterarie.
Un negatore totale, definitivo,
dell'antropocentrismo: e di tutti i suoi magnifici apparati consolatori -
etica, scienza, psicologia, teologia, estetica, filosofia. All'uomo di Vitruvio
leonardesco, misura di tutte le cose, egli oppone una nuova deità, Azothoth, il
caos cieco e idiota che gorgoglia demente fra suoni di flauti al centro di un
cosmo infinito e assolutamente indifferente ai nostri deboli destini:
“La nostra razza umana non è che un incidente
triviale nella storia della creazione. Negli annali dell'eternità e
dell'infinito non ha maggiore importanza di quanta ne abbia il pupazzo di neve
d'un bambino negli annali delle tribù e delle nazioni della Terra. Di più: non
potrebbe tutta l'umanità essere un errore – una crescita anormale – una
malattia del sistema della Natura – un'escrescenza nel corpo dell'infinito
progresso, come un porro sulla mano d'un uomo? Non potrebbe essere la
distruzione dell'umanità, come quella di tutta la creazione animata, un dono
positivo alla Natura nella sua interezza? Che arroganza da parte nostra,
creature momentanee, la cui stessa specie non è che un esperimento del Deus
naturae, il pensarci destinati ad un futuro immortale e ad una condizione
preminente!” (1)
“Credo che il cosmo sia un insieme senza scopo
e senza significato di cicli interminabili … un'entità priva di inizio, di una
direzione permanente e di un fine, e consistente soltanto di forze cieche che
operano secondo schemi fissi ed eterni inerenti all'eternità stessa … E proprio perché non riconosco l'esistenza
di qualità come il bene e il male, il bello e il brutto, che io insisto sui
valori tradizionali e artificiali propri di ciascuna corrente culturale … un
mezzo per sfuggire al tedio, l'inutilità e la confusione d'una lotta senza guida
e senza punti di riferimento contro il caos rivelato” (2)
“Tutti i miei racconti sono basati sulla
premessa fondamentale che le comuni leggi ed emozioni umane non hanno alcuna
validità o significato nei confronti del cosmo nel suo complesso … occorre
dimenticare che cose quali la vita organica, il bene e il male, l'amore e
l'odio, e tutti gli analoghi attributi locali di una razza trascurabile ed
effimera chiamata umanità, abbiano un'esistenza di qualsiasi genere” (3)
“Io sono … un indifferentista … Non commetto
l'errore di pensare che il risultato delle forze naturali che circondano e
governano la vita organica possa avere una connessione qualsivoglia con i
desideri e le inclinazioni di un settore vitale organico [il cosmo] non
si preoccupa minimamente delle volontà particolari e del benessere fondamentale
delle zanzare, dei topi, dei pidocchi, dei cani, degli uomini, dei cavalli,
degli pterodattili, degli alberi, dei funghi, dei dinosauri o di qualsiasi
altra forma di energia biologica” (4)
Questa serie di convinzioni, che emergono con
sincera chiarezza da tutti i suoi saggi e dallo sterminato corpo epistolare (si
parla di decine di migliaia di lettere spedite fra il 1915 e il 1937),
trapelano, invece, solo a tratti nella produzione più nota, quella dei racconti
e dei romanzi brevi. Lovecraft ha l'accortezza di non esplicitare, ma solo di
insinuare la sensazione di futilità del genere umano nelle piegature di una
scrittura irta di arcaismi, cacofonie, ampie notazioni storiche e folcloriche
dell'amato New England; irretiti, crediamo di gustare della mediocre
letteratura di genere, ma, in realtà, assorbiamo surrettiziamente, come un
veleno, quell'unica verità. A posteriori, dopo aver chiuso le sue pagine, sarà
proprio quel veleno a sprigionare i suoi effetti consegnandoci
irrimediabilmente a un persistente e
fascinoso disagio metafisico.
L'uomo di Providence è, infatti, uno dei rarissimi
a muoversi costantemente lungo l'Ultima Thule del pensiero postmoderno.
Ed è tale perturbante basso continuo (da vero
letterato dell'orrore) a costituire quella scheggia di grande arte restia a
passare attraverso i fori del setaccio estetico; a rendere il suo autore, al di
là della fama di culto, quasi un classico.
____________________
(1) Lettera ad un
gruppo di amici, 8 agosto 1916
(2) Lettera a
Donald Wandrei, 21 aprile 1927
(3) Lettera a
Weird Tales, 5 luglio 1927
(4) Lettera a J.
F. Morton, 30 ottobre 1929
Consigli di lettura
H. P. Lovecraft, Tutti i racconti, vol. 1, 1897-1922,
Mondadori, 1989; vol. 2, 1923-1926, 1990; vol. 3, 1927-1930,
1991; vol. 4, 1931-1936, 1992
H. P. Lovecraft, L'orrore soprannaturale in
letteratura, Theoria, 1992
H. P. Lovecraft, Lettere dall'altrove,
Mondadori, 1993
H. P. Lovecraft, In difesa di Dagon,
Sugarco, 1994
Giorgio Manganelli, La città blasfema, in La
letteratura come menzogna, Feltrinelli, 1967
AA. VV., Vita privata di H. P. Lovecraft,
Reverdito, 1987
Gianfranco De
Turris-Sebastiano Fusco, Lovecraft, 1979
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