- Dici che Dio è
vanitoso?
- No, non è
vanitoso. Vuole godersi le cose belle con noi.
Io credo che Dio si
incazza se tu,
di fronte al colore
viola di un campo di fiori,
neanche te ne
accorgi.
“Penso che tu sia
troppo bassa, Medea. Non credo che qualcuno potrebbe mai trovarti
attraente. Guarda quanti brufoli hai in faccia! Non raggiungi il
metro e cinquanta, scarso. Sembri una bambina, di quelle viziate e
sbilenche, a cui manca sempre qualcosa. Io se fossi in te mi vestirei
da puttana, del genere che però poi non si mischia mai con i
clienti. Chissà forse qualcuno, allora, avrà voglia di considerarti
come una donna. Te lo dico per amicizia, Medea. Solo per questo.
Sono la tua miglior
amica, no?”
Viola aveva una gatta
di nome Camilla. Le aveva scelto un nome semplice, senza rimandi
letterari, senza implicazioni sentimentali, per non darle il
privilegio di uscire dalla propria mediocrità.
Si odiavano Viola e
Camilla. Il felino era macchiato di bianco e nero, tanto da venir
spesso soprannominato “mucca”, “zebra” e “procione”;
aveva la brutta abitudine di dormire sulla sedia che Viola usava in
cucina riempiendola di peli. Lei ogni settimana cambiava sedia, pur
avendone solo tre a disposizione, e Camilla, puntualmente, si faceva
trovare pronta, per le otto e mezza in punto, acciambellata sul
cuscino di Ikea. Una volta era stato color avorio, ora tendeva al
giallino, macchiato di caffè e saliva di gatto.
Camilla quando usciva
in terrazza, dopo neanche un minuto miagolava per rientrare; voleva
continuamente cambiare cibo e croccantini perché le andavano a noia;
si infilava sotto il letto e faceva gli agguati ai jeans a vita bassa
di Viola, tirandoglieli fin sotto il sedere; grattava gli stipiti
delle porte e aveva imparato a fare pipì per dispetto dentro al
porta ombrelli. Quando pioveva Viola trovava sempre una sorpresina ad
attenderla.
- Sei un gatto di
merda, Camilla – inveiva brandendo quel vecchio ombrello comprato a
Londra nel viaggio della maturità, ancora intatto, anche se
puzzolente.
C’erano giorni in cui
non si guardavano neanche, ignorandosi nell’appartamento che Viola
aveva preso in affitto a Bologna, per fare un corso di Grafica
editoriale.
Trenta metri quadrati.
Un loculo, fatto apposta per lei e Camilla. In cui c’era una
perenne puzza di cibo per gatti e cumuli di peli sparsi sul
copriletto, sopra al soppalco.
Ma la relazione con
Camilla era disfunzionale come tutte quelle della vita di Viola. La
quale a notte fonda, anche intorno alle quattro, si alzava per poter
raccogliere la gatta-procione e portarla a dormire con sé, facendo
attenzione a non cadere dalle esili scale che si arrampicavano fino
in cima al letto sopraelevato.
Viola era di poche
parole, di natura cinica, ma bizzarra. Si ubriacava da sola la sera
con litri di birra belga, aveva coperto il soffitto del soppalco di
fotografie in bianco e nero e ritagli di giornale, non usava mai il
cellulare, scriveva lettere di protesta per ogni iniziativa pubblica
contraria al suo gusto, vestiva per lunghi periodi solo di nero e
poi, all’improvviso, comprava camicie fuxia e scarpe blu elettrico
accostando colori improbabili.
Era sua abitudine
prendere a calci gli oggetti o le porte, negli attimi di nervosismo;
si imponeva di scordare rapidamente i nomi di chi le veniva
presentato per poter far finta di non riconoscerli in un secondo
momento; leggeva solo Thriller americani e guardava a rotta di collo
CSI tutte le notti.
Avrebbe dovuto studiare
psicologia, le ripeteva sua madre. Casi clinici e malattie mentali.
Ma a Viola bastavano le
proprie controproducenti manie: la fissa del tè alle quattro e mezza
di pomeriggio, la lavastoviglie sempre mezza vuota, le magliette
infilate al contrario, i calzini spaiati, la ricerca spasmodica degli
sguardi maschili quando entrava in una stanza, i reggicalze che
stendeva in balcone, pur non usandoli, per indispettire la vicina e
notare lo sguardo interessato del marito sulle scale del condominio.
Viola viveva di
occasioni, di sogni inconsistenti e omicidi felicemente risolti; di
killer seriali e rose rosse in balcone. Odiava il colore del proprio
nome, tanto da non averlo ma indossato e da aver scartato l’ipotesi
di mangiare melanzane per il resto della sua vita.
Viola incrociava
ragazzi per strada con cui attaccava bottone; ballava addosso a chi
si trovava affianco nei locali; accavallava le gambe quando si sedeva
nell’autobus se di fronte aveva un uomo over quaranta. Viola poi
non si concedeva mai, per guardare la faccia incazzata del prescelto,
a cui aveva deciso di giocare quel tiro meschino.
Viola gli uomini li
odiava, come odiava Camilla.
Però poi, sfinita dal
gioco degli insulti e delle derisioni, un posto per loro nel suo
letto lo trovava sempre.
Al liceo la chiamavano
Glauce per via di Medea, la sua miglior amica. Anche se in classe
sedevano distanti e a ricreazione non si rivolgevano parola, tutti
erano consapevoli di quanto fossero inseparabili. Viola era spavalda,
determinata e acida a volte; Medea era eternamente sul ciglio di una
crisi esistenziale, patetica ed emaciata. Nel loro liceo classico
ormai erano una leggenda metropolitana: così diverse e così unite.
Tanto scollegate da litigare per mesi, tanto imbrigliate da fissarsi
a distanza anche per ore.
Arrivarono a passarsi i
fidanzati, a vomitarsi nelle mani reciproche, a comprarsi valigie
coordinate, a leggere sempre e solo gli stessi libri, a inventarsi
parole inesistenti che capivano solo loro.
In una simbiosi che
aveva sempre avuto i contorni di un’amicizia, di quelle che a
ottant’anni hai ancora nel cuore. Poi qualcosa cambiò, prima che
Viola da Roma si trasferisse a Bologna.
Medea, così remissiva,
così impacciata e frammentata, sparì. Non rispose più alle
chiamate, non si fece trovare sotto casa, non apparve più a scuola.
Rimase rintanata fino al giorno dell’orale alla maturità e poi si
eclissò senza ulteriori indugi. Pallida, con dieci chili in meno e i
capelli sempre legati.
Viola, orgogliosa della
propria tempra altera, di quel carattere sassoso e scomodo, che aveva
costruito in una perenne lotta con se stessa, la cercò solo i primi
tempi.
Poi decise di ignorare
la questione, convincendo se stessa a non interessarsene.
Finché, il 10 Agosto,
non prese il telefono in mano, mentre già faceva i bagagli per
Bologna, e lasciò un messaggio in segreteria:
“Al tuo funerale
verrò vestita di viola.”
Due giorni dopo trovò
per strada una gattina spelacchiata, con una zampa ferita e un occhio
più scuro dell’altro. La chiamò Camilla, dicendo chiaramente alla
gatta, che non sarebbero mai state amiche; di non farsi illusioni,
visto che le aveva persino scelto un nome comunissimo e privo di
senso proprio per rimarcare il fatto che sì, le aveva salvato la
vita, ma che avrebbero vissuto nella stessa casa come due estranee.
Viola aveva capelli
ossigenati sopra le spalle, occhi nocciola piccoli e iracondi, labbra
lunghe e arrossate agli angoli, mani smangiucchiate e piedi
sproporzionati, lentiggini estive e peli delle braccia perennemente
decolorati.
Viola decise di essere
abbastanza forte da bastare a se stessa. Da quel messaggio in
segreteria chiamò solo un’altra volta Medea, coprendo il numero
con l’anonimato, ascoltò l’altra chiedere chi fosse un paio di
volte, poi attaccò.
Sognò di avere
sotterrato il cadavere di Medea nel cortile sul retro del palazzo
vicino a una vaso di gerani, e iniziò a pensare a un piano
macchinoso per non venir scoperta. Immaginò come cancellare le
impronte, dove gettare la pistola, che alibi procurarsi.
Poi si svegliò e tutto
sommato fu sollevata di vedere al proprio fianco il muso bianco e
nero della micetta dal nome inflazionato.
Sì, pensò, quel
dannato vestito viola alla fine lo avrebbe anche potuto comprare, pur
di rimarcare la propria indomita insolenza e superiorità, sulla
ragazzina dal nome altisonante e tragico, i brufoli in faccia e le
ginocchia sempre sbucciate.
Tu, senza di me sei
come un corpo senza ossa.
Lo capisci, Medea?
Lo vedi o no?
Uno sporadico mucchietto d’ossa
“Sono state le tue
parole, le nostre parole a sancire l’inizio, su di esse ho
viaggiato e vissuto.
Come se ad occhi chiusi
tutto valesse lo stesso.
Sono un fantasma sporco
di crack e bombolette spray, sono una bambina dai vizi ridicoli e
capricciosi, sono il bordo di una società fatta per soli uomini,
sono il lembo promiscuo di una dittatura a tinte falliche. Sono il
desiderio di non sentirmi più sola. Credo che tu possa sentirlo
questo desiderio, Petra. Credo che sia in fondo, anche il tuo.”
Medea aveva sempre
avuto un problema con il proprio corpo. In una sequenza di infiniti
blackout e comunicazioni interrotte. Spesso si azzittiva, dissimulava
e camuffava ogni emozione dietro sorrisetti bambineschi, pupille
dilatate e pallori passeggeri. Alternava fasi di sciopero verbale a
smorfie strofinate sulla pelle, raschiate dalla fronte al mento.
Ogni sevizia
intellettuale di Viola si traduceva in qualche grugnito e un’alzata
di spalle, palpebre sbattute con ostinazione e piedi sovrapposti,
tanto da sentire la gomma delle scarpe graffiare le vene.
Era piccola Medea.
Piccola nei diversi sensi della parola: di statura, di intelletto, di
mentalità. Non concepiva se stessa se non come la proiezione
imperfetta delle proprie amicizie.
La bambina
piagnucolante che sapeva solo vivere aspramente ogni conflitto con il
mondo.
Tutto era tragedia,
nella vita di Medea. E se all’esterno non traspariva nulla, poi, il
suo corpo lo faceva presente ribellandosi. Passava periodi di
magrezza trasparente, senza riuscire a ingoiare neanche una carota
bollita; soffriva di pruriti alle braccia e sulle cosce tanto da
graffiarsi fino a far uscire il sangue per alleviare il fastidio;
perdeva più capelli del dovuto quando se li spazzolava; si mordeva
le unghie fino alla radice per poi farle ricrescere nella totale
incuria addirittura per mesi, mezze rotte e frastagliate; soffriva di
insonnia perenne e gastriti lancinanti.
Ciclicamente, come se
ci fosse anche in questo caso una cadenza mensile, qualche organo
interno assumeva comportamenti bellici e insorgeva contro la
proprietaria, senza che lei, nel suo metro e cinquanta scarso di
muscoli molli e sporadiche ossa, potesse arginarne gli effetti.
Era in grado di
mugolare, a denti chiusi, senza lacrime, anche per ore intere.
Stretta tra le ginocchia appuntite e i vestiti sempre troppo larghi.
Ma non sapeva urlare, cacciando fuori ogni lacrima e ogni derisione;
teneva tutto sotto le costole.
Medea sapeva fare la
vittima solo con se stessa, abbandonandosi alla superiorità altrui,
allo scherno e alle pacche sul sedere. Non aspirava a primeggiare, si
faceva lambire soltanto da un contatto marginale con la propria
quotidianità.
- Sei comica, il che è
paradossale. Non ti pare? Una con un nome come il tuo. Vestita di
stracci alla moda e coperta di tagli da adolescente, che si abbuffa
di romanzetti rosa e confezioni di Prozac. Molto comico - Le aveva
detto Viola qualche giorno prima di quel mercoledì mattina.
La crudeltà della sua
migliore amica era parte integrante del suo vivere, non sentiva
neanche più quell’iniziale pizzicore allo stomaco per colpa del
dispiacere che non riusciva del tutto a far scomparire. Ma ormai era
diventata brava e anche se perdeva un chilo o si riempiva di bolle,
non le dava mai la soddisfazione di vederla immersa nella propria
drammaticità. Galleggiava in superficie, metteva il broncio per
qualche secondo e dopo sorrideva.
- Hai ragione, Viola.
Hai proprio ragione - Dopo smetteva di parlarle e si allontanava.
Lasciava che ridesse di
lei a distanza. A reggere l’altro capo di quella fune che era così
tirata da far scricchiolare le fibre della corda.
Erano passati cinque
anni dall’ultima volta che aveva visto Viola, dalla prima volta che
aveva visto Petra, e lei quel mercoledì mattina ancora se lo
ricordava bene.
Nella sala le luci
erano puntate verso il palchetto, su cui era stata portata una lunga
cattedra con un microfono per ogni seduta e i cartellini dei nomi di
fronte.
Ma sarebbe stato il
terzo nome da sinistra a cambiarle la vita. Solo il terzo.
Eppure era un mercoledì
come tanti, afoso e impregnato di smog.
Lesse le locandine e
afferrò le brochure che le venivano donate all’ingresso.
Sedette in quarta fila,
da sola, nell’angolo più esterno, pronta a uscire se gli argomenti
trattati non l’avessero convinta. Sola, senza gli occhi iniettati
di scherno di Viola, che a quel convegno non sarebbe mai venuta.
L’avrebbe trovato ridicolo, come tutte le cose pseudo intellettuali
che Medea faceva per sentirsi meno piccola.
Viola odiava il teatro
e l’opera, Viola ascoltava solo musica anni novanta e detestava
Beethoven, Viola quel mercoledì era a casa per una maratona di
Stephen King: almeno tre libri in due giorni. Storie con i morti,
cascate di delitti e strangolamenti. La spasmodica ricerca del
colpevole.
Medea osservò le
persone che sarebbero intervenute a quel convegno, di cui aveva visto
la pubblicità fuori dal loro liceo. Tutti presero posto, con le
bottigliette d’acqua alla mano e i fogli degli appunti a
troneggiare sulla lunga cattedra.
Lesse il nome sul terzo
cartellino. Nitido e stampatello. Petra Mattioli.
Un nome e un cognome
qualunque, fino a quel momento.
Una donna sui quaranta,
con occhialetti non troppo femminili, una maglietta fiorata e una
gonna sopra al ginocchio sorrise alla sala.
La sua corporatura
gracile, ma rotonda in alcuni punti aveva un che di banale. Il modo
in cui continuava a non prestar fede ai fogli che si era portata
dietro faceva intuire una evidente sicurezza di troppo. Le gambe che
cambiavano costantemente posizione ne mettevano in luce la fretta di
terminare. Eppure parlò a lungo circa i propri studi sulla
condizione femminile nell’era della globalizzazione. Filosofia
di genere, così identificò il proprio pensiero. Un focalizzarsi
intenso sulla donna, sul suo sviluppo contemporaneo, sulle sacche di
discriminazione e sui fragili rimasugli della propria differenza.
La sua voce era limpida
e carezzevole, di una tonalità vicina al bianco. Sporcata da qualche
termine troppo erudito, ma scevra da qualsiasi tipo di inflessione
dialettale.
Una donna perfetta, che
parlava di donne perfette, in un italiano perfetto.
Abbigliata come una
comunissima signora che avrebbe potuto incontrare sull’autobus,
senza capelli ossigenati e cerchietti fluorescenti, senza unghie
perennemente nere e calzini spaiati.
Eppure quelle parole
disegnarono progetti futuri nell’aria e colpirono l’immaginario
di Medea.
Aveva diciotto anni
Medea, ed era piccola, una liceale intrisa di sogni e pantomime.
Lei che veniva schifata
dai suoi compagni di scuola perché simile a una ragazzina delle
medie; lei che il suo primo bacio lo aveva dato al cugino di secondo
grado nel bagno pubblico dello stabilimento di Ostia; lei che non
aveva seno e doveva comprare biancheria sportiva; lei che adorava il
modo in cui Viola indossava il costume da bagno in estate.
Alla fine si era
avvicinata mentre Petra stringeva le mani degli altri professori e
ridacchiava vezzosamente mostrando le mani dalle unghie estremamente
curate, circondata da quella bolla di profumo dolciastro, tendente
alla scorza d’arancio, fresco e mite.
Si erano guardate a
distanza, mentre il viso smagrito e contornato da lunghi capelli
mogano di Medea spuntava tra le spalle rigide dei completi gessati
maschili.
Petra sembrava aver
notato quella piccola osservatrice, che aveva seguito ogni sua parola
a labbra dischiuse, come se stesse assaporando per la prima volta
ogni singola lettera della lingua italiana.
La vide spostare gli
occhi sulla propria collana di perle, sull’anello di diamanti
all’indice, sui lacci spessi di quelle scarpe da uomo, così strane
sotto a un abbigliamento prettamente femminile.
Dettagli poco chiari,
bislacchi, che Viola avrebbe trovato imbarazzanti. Pronta a
distruggere il suo intervento, biforcuta a sprezzante.
Ma lì Viola non c’era.
Niente ossigeno e niente iridi nocciola.
Gli occhi di Petra,
verdi e leggeri, la invitarono a iniziare quella lunga conversazione.
Fatta di strette di
mano prolungate e occhiate vivaci, di commenti e risate frettolose.
Petra però non rise
mai di lei, prese tutto molto seriamente, le annotò dei libri da
leggere, le scrisse la propria e-mail, le consigliò di guardare
qualche film.
Tutto fu affetto e
comunione da subito, senza tirate di orecchie e sguardi truci. Senza
urla mute e calci con la punta degli anfibi dati sotto i banchi di
scuola.
- Non ti sembro una
bambina? Perché non ridi di me? - Le chiese una volta Medea, al loro
secondo incontro. Nella caffetteria di Via Veneto, dove un cappuccino
costava almeno tre euro.
- Dei bambini non
bisogna mai ridere, loro spesso sono più saggi di noi.
Sorrise calda e
morbida, Petra, e girò l’anello all’indice, ma la traccia della
mancata abbronzatura sull’anulare nascondeva la scomodità di
quell’incontro.
Medea non la vide,
impegnata a non arrossire e grattarsi un orecchio per l’agitazione.
Anche dopo cinque anni
continuava ad amare i girocollo di perle e i maglioncini poggiati
sulle spalle, le calze a vita alta e i gambaletti con le ballerine di
Petra.
Ma sulla punta della
lingua custodiva il ricordo di quel messaggio nella segreteria.
Cancellato un minuto
dopo, però mai dimenticato.
- Al tuo funerale mi
vestirò di viola.
E l’avrebbe voluta
vedere, attraversare una porta qualunque con quel vestito indosso.
Per poter ridere,
ridere tanto, di lei.
Sei stata la mia
certezza
di non avere una
maschera ridicola
sempre poggiata
sulla faccia.
Una certezza, Petra.
La mia.
Il rancido fetore di una poesia aulica
“Perdonami, Nico.
Perché sono sempre stata imperfetta, nascosta nel mio guscio di
noce, imbrattato di menzogne e poesie artigliate con violenza.
Perdonami, perché nell’illusione ho cullato le mie notti insonni.
Perdonami, perché non ti ho mai lasciata andare. Perdonami, perché
sei una di quelle poche cose che restano alla fine, a indicare la mia
strada. Perdonami, perché anche adesso ti sto mentendo.”
Petra ha un nome
particolare, l’incarnato sempre traslucido e gli occhi che si
assottigliano con la troppa luce. Ama la gestualità e i contatti
umani quanto ama leggere e scrivere. Si spertica in sorrisi, carezze
sulla schiena e strette di mano prolungate. Ha un’aria partecipe e
interessata che la adorna di positività e rende impossibile ai suoi
ascoltatori non venir attratti dalle sue parole.
Non è bella Petra. I
suoi quarant’anni si fanno sentire e vedere. Non veste come una
donna in carriera o come una madre giovanile. Lei la madre non la
farà mai.
Lo ha deciso a
vent’anni e tutt’ora non rimpiange tale scelta: la poesia, la
filosofia, la letteratura sono le sue uniche figlie, che nutre,
difende e coltiva.
Si riconosce nelle
stampe fiorate, nelle tazzine di porcellana con il bordo dorato, nei
pizzi alle tende in cucina, nelle ballerine dai ricami fantasiosi e
nei colori pastello della tovaglia nel soggiorno.
Petra è una vita che
si veste come se fosse sempre invitata a giocare alle bambole a casa
di qualche compagna di scuola.
A Petra piace essere
ascoltata, venerata, seguita; si identifica facilmente nell’immagine
dell’eroina vestita di rosa che guida le proprie giovani seguaci
nella guerra tumultuosa contro un mondo, che secondo lei, le ha
penalizzate fin dalla nascita.
Ha studiato a Padova,
poi a Bologna, infine a Roma. Ha preso una laurea e due
specializzazioni in filosofia fino a raggiungere l’agognato titolo
di una cattedra alla Sapienza.
Le sue lezioni sono
note per la loro connotazione fortemente politica. Non fa mistero
della propria caparbia lotta allo stereotipo della donna come madre,
moglie e concubina.
Ma il suo femminismo
estremizza le differenze e mette alla porta la vulnerabilità delle
donne, bandendo ogni sorta di triste legame con la dimensione
intransigente maschile.
Il mondo di Petra è un
mondo di sole donne, che costruiscono intorno a se stesse una
costellazione di rapporti stretti, morbosi, soffocanti. Rapporti
affettuosi, che diventano d’amore, che si trasformano in
dipendenza, che sfociano nell’odio, che poi tornano a vivere
nell’indifferenza; che distruggono e deprimono.
La sua apparenza
materna, rassicurante, nitida e carezzevole, nasconde una natura
dominante, un piglio possessivo, una mania di protagonismo.
Si crogiola negli
sguardi ammirati delle studentesse, nell’entusiasmo con cui
partecipano alle lezioni, nelle domande personali che le pongono, nei
dubbi che fa sorgere in loro.
Dondola se stessa sul
confine delle loro incertezze, puntellando le credenze e insultando i
pregiudizi. Muove le fila del proprio gioco sul pelo dell’acqua di
quei rapporti stretti; amicizie trasparenti, che vorrebbe far
sfociare in passioni torbide e delizie sessuali.
Tutto in punta di
piedi, tutto sotto la bandiera del gentil sesso, dell’indipendenza
e della ribellione alle imposizioni sociali.
Petra a un primo
sguardo sembra una donna di mezza età, costretta a farsi la tinta
una volta al mese e legata a un odio profondo per i pantaloni.
A trent’anni ha
conosciuto Nicoletta, il suo completo opposto: una donna che vorrebbe
essere uomo a tutti i costi e che combatte senza tregua contro
l’irrimediabile realtà che la affligge. Sono dieci anni che vivono
una vita fatta di vacanze all’estero, film visti fino alle due di
notte e cucina etnica alla domenica. Come una famiglia, un nucleo,
una certezza.
Petra porta all’anulare
l’anello che Nico ha comprato per il loro decimo anniversario, in
una gioielleria in centro spendendo un capitale; se lo rigira spesso
sul dito e poi lo passa all’indice quando è in pubblico,
nascondendo a tratti il brillante che svetta sulla cima.
Petra ama le
corrispondenze, le e-mail, i messaggi su facebook, le foto caricate
dal cellulare, le cartoline scritte da paesi stranieri; mentre Nico
vive solo di sguardi vivi e realtà palpabili.
Negli anni Petra ha
capito di poter intrattenere relazioni epistolari con persone che non
siano Nicoletta. Donne più giovani di lei, che conosce alle
conferenze, alle fiere, all’università, che poi la prendono come
guida, la seguono alle mostre e ai convegni, le chiedono consigli di
vita.
Ogni legame nato così
sfocia in un punzecchiarsi a vicenda, in allusioni e richiami velati.
Petra controlla sempre
la casella e-mail e passa le ore a rispondere a ogni contatto, si
trascrive tutti i nomi delle sue nuove conquiste intellettuali su un
quaderno nero comprato in un viaggio a Parigi, sulla cui copertina è
tratteggiato il famoso gatto nero francese.
Due eventi hanno
sconvolto i precari equilibri della vita di Petra, le sue giornate
fatte ormai di ruotine da donna quasi sposata e in carriera,
combattente eterea e sobillatrice senza traccia.
Il primo di questi fu,
cinque anni prima, l’incontro con la giovane Medea, ragazzina allo
sbando totalmente malleabile, irrimediabilmente compromessa, pronta
ad accogliere ogni tipo di legame, distrutta da una sessualità senza
sbocchi e lacerata da un amore non corrisposto.
Fare presa su Medea era
stato semplice, tenerla lontana, attraverso il filtro di contatti
esclusivamente virtuali, si era rivelato impossibile. L’assenza di
punti di riferimento nella vita della ragazza, la sua voglia di
entrare in quel mondo, di assorbire come carta da cucina ogni
molecola della filosofia di Petra le aveva trascinate verso una
relazione compromettente.
Petra sentiva di aver
stretto le dita delle mani sulla gola della ragazza, di averla
condotta esattamente dove le altre non erano state in grado di farsi
portare, perché troppo legate ai propri stili di vita, alle
raccomandazioni della famiglia, alle amicizie della propria età.
Medea aveva quell’anima
fragile e semplice da far aderire alla propria, quel modo di fare
femminile che la rendeva così opposta a Nicoletta, quel portamento
svogliato e quella leggerezza giovanile che la inducevano ad
attorcigliarsi intorno alle persone prese da lei come punti di
riferimento.
Medea aveva bisogno di
una madre, di un’amica, di un’amante, di una sorella.
Medea aveva bisogno di
lei, di essere sedotta e tartassata, di essere lusingata con mille
complimenti, presentata agli incontri letterari, introdotta ai
giornali per cui Petra scriveva, lambita da poesie scritte sui
tovagliolini nei bar. Come quello a Via Veneto, al loro secondo
incontro. Un tovagliolo quasi trasparente preso dai contenitori in
alluminio.
E tuttora il suo
ronzio
Anno dopo anno,
Inganna la Farfalla;
Tuttora nei suoi
Occhi
Restano Violette
Polverizzate da
molte Primavere.
La giovane aveva
conservato quel tovagliolo come un tesoro sacro e prezioso, non
avendo mai ricevuto una poesia da parte di nessuno, non avendo mai
neanche frequentato qualcuno che le conoscesse a memoria, che sapesse
trascriverle con una calligrafia tondeggiante e precisa.
Medea era piccola e non
aveva una vita propria, degna di tale nome.
Nei suoi occhi quelle
violette c’erano ancora, ma Petra non poteva vederle.
Riusciva a metterle in
bocca qualsiasi parola non sua: dittatura fallica, nomadismo etico,
erotismo di genere, rifiuto eterosessuale, lesbismo congenito.
Lei era disponibile a
fare suo ogni slogan, ogni vocabolo che prendeva vita dalle labbra di
Petra.
Medea divenne il
segreto più scomodo della vita di Petra, la necessità di sentirsi
anche lei un po’ bambina, un po’ ingenua, un po’ malata.
Adorava i tic di Medea, le sue debolezze manifeste, il suo dimagrire
improvviso, il suo portare i capelli ormai sempre legati per non
apparire troppo ragazzina ma più sofisticata, le sue gambe
scheletriche che spuntavano sotto a gonne fino a ginocchio, uguali
alle sue, le camicette fiorate che comprava ai mercatini dell’usato,
il mascara denso che metteva anche prima di andare a dormire. Medea
non le aveva mai chiesto di diventare l’unica donna della sua vita,
ma il vero motivo Petra non poteva conoscerlo. Interpretava il tutto
come un’ affabilità della ragazza, un suo modo di non farsi
allontanare.
Il secondo evento
accadde anni dopo, fu di natura più drammatica e iniziò a scuotere
dalle radici l’equilibrio precario della vita di Petra: Nicoletta
si ammalò. Le diagnosticarono un tumore al seno e fu costretta a
seguire tutto l’iter per potersene liberare.
La loro casa si
trasformò in un silenzioso luogo di cura, le loro vacanze vennero
interrotte, gli incontri universitari di Petra si diradarono, le
attenzioni per la compagna tornarono ai loro splendori iniziali. Con
una sorta di affettazione che aveva contorni falsi e lacerati.
Petra non poteva
contemplare l’ipotesi di vivere in assenza di lei, come se fosse
l’altra faccia del proprio esistere, la trasformazione inerte dei
propri dolori. Ma non aveva mai pensato di potere esistere con solo
lei accanto.
La vide resistere sotto
il peso della malattia, con quel piglio amazzone che da sempre
l’aveva contraddistinta: Nicoletta sapeva lottare veramente e da
tutta la vita.
Neanche la nausea
perenne, la perdita delle forze, la caduta dei capelli, il dolore
dell’operazione, l’odio per il proprio corpo in subbuglio e la
febbre alta la distrussero. Nicoletta se scivolava poi arpionava il
pavimento per rimettersi in piedi e trovava un modo qualunque per
camminare, annaspando e gorgogliando come una naufrago vicino alla
morte, raggiungeva la superficie e prendeva aria.
Petra le dedicò
letture notturne dei romanzi della Woolf, di articoli pubblicati
nella rivista “Adorata creatura”, aforismi dai testi della
Irigaray, la visione di film a loro cari, come “Viola di mare”,
che a Nicoletta ricordava così bene la propria vita.
Nell’intreccio a loro
ignoto, di nomi e coincidenze che prima o poi avrebbero fatto
scoppiare dimensioni alternative finora taciute.
Quel colore, vicino al
nero, ma ancora con una punta morente di rosso, stava per farsi
strada anche nella loro vita, accompagnato da una ragazza sfrontata
con i capelli ossigenati.
C’è puzza di
marcio qui, Nico.
Non è la tua carne,
non è il nostro spirito.
È la mia poesia…
Il sogno del pesce ermafrodita
“Sei un’artista
della certezza e della sciocchezza, delle falle riparate senza
calcestruzzo, del giocare a nascondino senza benda, dei mattoni
impilati senza colore. Al di là cosa c’è, Viola? Se levi ogni
pietra scartavetrando i licheni. Cosa c’è? Ci sono i bambini al di
là, quando amano baciare ogni cosa e fissare una luce perché emana
calore? O forse solo i nostri corpi bombardati da onde che rimbalzano
nelle pareti dello stomaco, stanze asettiche e capelli rasati?
Forse tu. Come un pesce
che dorme sempre, ma grida per non essere svegliato.”
Nicoletta a dieci anni
si era tagliata i capelli da sola con le forbici trovate in cucina.
Tutte ciocche sparse,
una diversa dall’altra, irregolari, stupide, ispide. Soddisfatta si
era specchiata nel bagno usato come lavanderia. Tra il profumo di
Cedro e le confezioni di plastica vuote, che la madre teneva per la
raccolta punti. A turno tutti le ricordavano che bastava il pezzetto
del contenitore e non conservarli per intero. Ma lei non voleva
saperne.
Testarda e caparbia,
come la sua Nicoletta.
Alla mamma quei capelli
non sarebbero piaciuti e l’avrebbe costretta a girare sempre con un
capello fatto all’uncinetto, viola come le violette che crescevano
sotto alle pietre del vialetto d’ingresso. Così inadeguato per i
suoi jeans sempre strappati e le camicie di due taglie più grandi
rubate al fratello. E quei capelli corti sarebbero sempre rimasti:
più lunghi da una parte, rasati sulla nuca, sparpagliati sulla
fronte, sfilzati con le forbici.
Petra era il contrario
di lei, l’opposto di una barricata immaginaria, la paladina delle
donne che vogliono essere donne, e amano donne, e pensano donne, e
scrivono donne, e vestono donne.
Petra aveva cercato la
diversità, nella compagna del quotidiano, l’assoluto altro, avendo
troppo paura di qualcuno come se stessa.
Aveva scelto una donna
profondamente convinta di non esserlo mai stata.
Una donna dall’istinto
paterno, i gusti maschili. Una donna colpita al seno, da quella
malattia troppo visibile. Proprio lì, vicino al cuore, nel fiore
della femminilità. Dove ora c’erano solo costole e cicatrici,
pelle indebolita e sopracciglia diventate bianche.
Nicoletta entrava nelle
boutique da uomo e fingeva di dover comprare almeno tre cravatte per
un marito che non aveva. Faceva fare il pacchetto, scriveva un
biglietto e poi le nascondeva dietro la scarpiera. Tanti pacchi e
tanti biglietti. “A Nico, buona Natale”, “A Nico, felice
anniversario”,
“A Nico, buon
onomastico!”, “A Nico, buon compleanno”.
Nicoletta si faceva
chiamare Nico. Da bambina scriveva racconti per altri bambini, pieni
di disegni, ma soprattutto di parole. Corsive, stampatello,
allungate, scarabocchiate, infiocchettate, cancellate, sbafate.
Parole animate, vitali, silenziose.
C’era sempre un
pesciolino, il protagonista. Un pesce di nome Nico che cambiava
spesso colore e si incazzava se lo chiamavano Mister Pesce, o Il
Pesce colorato.
Era solo un pesce. Non
un lui, non una lei.
Da grande Nico
illustrava libri per bambini, li riempiva di pesciolini e si
incazzava se qualcuno le proponeva un racconto da disegnare pieno di
Mister Bottiglia, Miss Lumaca e Mister Albero.
Ai bambini piacciono
bottiglie, lumache e alberi. Del resto a loro non importa.
Ma lei di bambini non
ne aveva, amava quelli degli altri; guardarli leggere e fare domande
quando non capivano, puntare le dita sulle figure, riconoscere parole
che già sapevano, battere le mani se indovinavano qualche nome,
piangere quando gli veniva tolto un libro dalle mani.
Non li trattava come
una madre, né come un’insegnante. Non faceva le vocine stridule o
le facce buffe, non usava parole semplici scandite con cura. Non
asciugava le lacrime con il polsino della camicia, non soffiava sulle
bruciature, non sgridava dandogli uno schiaffo sul sedere.
Li guardava, osservava,
diceva poche parole ma concise, usava l’ironia, non insisteva con i
gesti, assecondava i pensieri. Nelle biblioteche, ai laboratori per
il disegno, nelle scuole, agli incontri nelle librerie. Loro la
capivano. Loro si capivano. Come tanti pesci, un solo lago e mille
guizzi.
Fu lì, a una
biblioteca di Bologna, fuori sede, attorniata da dodici marmocchi,
fogli da disegno A4, matite Faber Castle, formine a pois e pennarelli
un po’ secchi sulle punte, che la vide.
Quella ragazzina,
vestita di nero, spavalda e dall’aria sufficiente, che scherzava
col bibliotecario, ma poi faceva facce schifate appena lui si girava,
a sé stessa, per una presa in giro personale, e rideva. Aveva
persino i calzini spaiati, ma sicuri, pieni di sé.
- Ehi, tu, con
quell’aria da manico di scopa, qui noi stiamo disegnando dei pesci
fatti di pois. O ti unisci o vai a flirtare con Augusto nella saletta
accanto.
L’altra s’era
girata, attonita. L’aveva squadrata. Quella donna di mezza età
quasi, con i capelli rasati e la pelle giallastra della chemio,
ancora lì, a fare capolino. Nessuna bandana, nessuna parrucca. Una
testa ovale e pulita, luccicante.
- Non mi piacciono i
bambini…
- Strano, hai l’aria
di essere una di loro.
- Perché?
- Perché ridi da
sola…. come ti chiami?
- Viola…
- Come il pesce, la
viola di mare.
- Non conosco i pesci.
- Forse loro conoscono
te, non si può mai sapere.
- La gente di solito
dice “come il fiore”.
- La gente di solito
non sa come sono fatte davvero le viole. Siediti… i bambini lo
sanno.
E si sedette, Viola,
per terra tra i cartoncini e i timbri. Bambini schiamazzanti e
finestre coperte di adesivi. Gli anfibi schiacciati contro le cosce,
e si dimenticò perché era venuta lì.
Fu sprezzante, al suo
solito, carica di acidità e frasi poco amichevoli. Ma Nico non
faceva le smorfie di Medea, non arricciava le labbra pur di non
rispondere, non si grattava la spalla per nascondere un fastidio
verbale. Nico parlava e rideva, come una boccia di vetro messa
d’estate al sole. Rideva con lei. Non scherniva, ma non addolciva.
Nico capiva, una
bambina come lei.
E quei ragazzini seduti
in cerchio, dentro la biblioteca di Bologna, sapevano davvero
cos’erano le viole e subito aveva detto che lei, la Viola in carne
ed ossa, quella stramba donna ancora un po’ adolescente
appassionata di Shining in video noleggio, con le viole non c’entrava
proprio nulla.
- E a questa immagine
secondo voi assomiglia?
Nico disegnò un pesce
composto da varie sfumature, riempiendo tutto un foglio, occhietti
piccoli e branchie a vista. Loro risposero di sì, in coro.
Chissà come mai, a
loro quella parve una Viola di mare.
- Ti starebbe bene il
tuo colore addosso - le disse Nico alla fine del laboratorio, mentre
si levava colla Vinavil dalle unghie e raccoglieva forbici zigrinate
e pennelli zuppi di colore.
- Non metto mai il
viola, è un colore di merda - solo a un funerale l’avrebbe voluto
mettere.
Per l’unica persona
che l’aveva abbandonata, senza essere stata mandata via.
- Mi pare uno come gli
altri, vanno cambiati spesso. Se ne escludi uno, poi non potrai
provarli tutti. Pensaci - fece spallucce Nico, alzò le sopracciglia
ancora chiarissime e sorrise, da parte a parte. Il sorriso di chi
dopo quarant’anni, ha accettato di essere uno strano miscuglio di
sensazioni, pensieri e ricordi. Un essere umano.
- Come ti chiami? - si
informò Viola prima che lei potesse andare via.
- Nicoletta, ma
preferisco Nico - e non era bella. Non lo era affatto. L’aria
malaticcia e tutto il resto. Quei vestiti da uomo, la fede al dito
ben in vista, le scarpe lucide e il cravattino. Non era bella.
Ma a Viola piacque, nei
suoi pantaloni sformati e nell’anellino al naso, nel tatuaggio sul
polso che spuntava dalla camicia, nel suo fregarsene, sguazzando in
acque aperte.
- Quando torni qui? -
forse per una volta non c’erano misteri, né killer da pedinare, né
funerali a cui andare. C’erano i pois, la colla e gli sgabelli
dalle gambe tonde fatti di gommapiuma.
- Presto - andò via
inseguita dai bambini che volevano salutarla e lei che non si
abbandonava a smancerie. Ma poi i disegni che le regalavano li
metteva dietro a quella scarpiera, con tutti i regali importanti,
quelli che si era fatta da sola.
Ogni giorno Viola tornò
alla biblioteca, a chiedere.
Un venerdì, quando
decise di mettere una maglietta viola, nascosta sotto a uno dei suoi
maglioni grigi, sentì ridere i bambini più del solito e seppe che
Nico era tornata.
Non si ha solo
bisogno di carezze, Viola.
A volte anche di
nomi e parole.
A volte di malattie
e sorrisi.
A volte di ricordi e
schiaffi.
A volte di pesci
colorati.
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