domenica 24 novembre 2013

I racconti di MVL. Al tuo funerale verrò vestita di viola


Giulia Caminito

- Dici che Dio è vanitoso?
- No, non è vanitoso. Vuole godersi le cose belle con noi.
Io credo che Dio si incazza se tu,
di fronte al colore viola di un campo di fiori,
neanche te ne accorgi.

“Penso che tu sia troppo bassa, Medea. Non credo che qualcuno potrebbe mai trovarti attraente. Guarda quanti brufoli hai in faccia! Non raggiungi il metro e cinquanta, scarso. Sembri una bambina, di quelle viziate e sbilenche, a cui manca sempre qualcosa. Io se fossi in te mi vestirei da puttana, del genere che però poi non si mischia mai con i clienti. Chissà forse qualcuno, allora, avrà voglia di considerarti come una donna. Te lo dico per amicizia, Medea. Solo per questo.
Sono la tua miglior amica, no?”
Viola aveva una gatta di nome Camilla. Le aveva scelto un nome semplice, senza rimandi letterari, senza implicazioni sentimentali, per non darle il privilegio di uscire dalla propria mediocrità.
Si odiavano Viola e Camilla. Il felino era macchiato di bianco e nero, tanto da venir spesso soprannominato “mucca”, “zebra” e “procione”; aveva la brutta abitudine di dormire sulla sedia che Viola usava in cucina riempiendola di peli. Lei ogni settimana cambiava sedia, pur avendone solo tre a disposizione, e Camilla, puntualmente, si faceva trovare pronta, per le otto e mezza in punto, acciambellata sul cuscino di Ikea. Una volta era stato color avorio, ora tendeva al giallino, macchiato di caffè e saliva di gatto.

Camilla quando usciva in terrazza, dopo neanche un minuto miagolava per rientrare; voleva continuamente cambiare cibo e croccantini perché le andavano a noia; si infilava sotto il letto e faceva gli agguati ai jeans a vita bassa di Viola, tirandoglieli fin sotto il sedere; grattava gli stipiti delle porte e aveva imparato a fare pipì per dispetto dentro al porta ombrelli. Quando pioveva Viola trovava sempre una sorpresina ad attenderla.
- Sei un gatto di merda, Camilla – inveiva brandendo quel vecchio ombrello comprato a Londra nel viaggio della maturità, ancora intatto, anche se puzzolente.
C’erano giorni in cui non si guardavano neanche, ignorandosi nell’appartamento che Viola aveva preso in affitto a Bologna, per fare un corso di Grafica editoriale.
Trenta metri quadrati. Un loculo, fatto apposta per lei e Camilla. In cui c’era una perenne puzza di cibo per gatti e cumuli di peli sparsi sul copriletto, sopra al soppalco.
Ma la relazione con Camilla era disfunzionale come tutte quelle della vita di Viola. La quale a notte fonda, anche intorno alle quattro, si alzava per poter raccogliere la gatta-procione e portarla a dormire con sé, facendo attenzione a non cadere dalle esili scale che si arrampicavano fino in cima al letto sopraelevato.
Viola era di poche parole, di natura cinica, ma bizzarra. Si ubriacava da sola la sera con litri di birra belga, aveva coperto il soffitto del soppalco di fotografie in bianco e nero e ritagli di giornale, non usava mai il cellulare, scriveva lettere di protesta per ogni iniziativa pubblica contraria al suo gusto, vestiva per lunghi periodi solo di nero e poi, all’improvviso, comprava camicie fuxia e scarpe blu elettrico accostando colori improbabili.
Era sua abitudine prendere a calci gli oggetti o le porte, negli attimi di nervosismo; si imponeva di scordare rapidamente i nomi di chi le veniva presentato per poter far finta di non riconoscerli in un secondo momento; leggeva solo Thriller americani e guardava a rotta di collo CSI tutte le notti.
Avrebbe dovuto studiare psicologia, le ripeteva sua madre. Casi clinici e malattie mentali.
Ma a Viola bastavano le proprie controproducenti manie: la fissa del tè alle quattro e mezza di pomeriggio, la lavastoviglie sempre mezza vuota, le magliette infilate al contrario, i calzini spaiati, la ricerca spasmodica degli sguardi maschili quando entrava in una stanza, i reggicalze che stendeva in balcone, pur non usandoli, per indispettire la vicina e notare lo sguardo interessato del marito sulle scale del condominio.
Viola viveva di occasioni, di sogni inconsistenti e omicidi felicemente risolti; di killer seriali e rose rosse in balcone. Odiava il colore del proprio nome, tanto da non averlo ma indossato e da aver scartato l’ipotesi di mangiare melanzane per il resto della sua vita.
Viola incrociava ragazzi per strada con cui attaccava bottone; ballava addosso a chi si trovava affianco nei locali; accavallava le gambe quando si sedeva nell’autobus se di fronte aveva un uomo over quaranta. Viola poi non si concedeva mai, per guardare la faccia incazzata del prescelto, a cui aveva deciso di giocare quel tiro meschino.
Viola gli uomini li odiava, come odiava Camilla.
Però poi, sfinita dal gioco degli insulti e delle derisioni, un posto per loro nel suo letto lo trovava sempre.
Al liceo la chiamavano Glauce per via di Medea, la sua miglior amica. Anche se in classe sedevano distanti e a ricreazione non si rivolgevano parola, tutti erano consapevoli di quanto fossero inseparabili. Viola era spavalda, determinata e acida a volte; Medea era eternamente sul ciglio di una crisi esistenziale, patetica ed emaciata. Nel loro liceo classico ormai erano una leggenda metropolitana: così diverse e così unite. Tanto scollegate da litigare per mesi, tanto imbrigliate da fissarsi a distanza anche per ore.
Arrivarono a passarsi i fidanzati, a vomitarsi nelle mani reciproche, a comprarsi valigie coordinate, a leggere sempre e solo gli stessi libri, a inventarsi parole inesistenti che capivano solo loro.
In una simbiosi che aveva sempre avuto i contorni di un’amicizia, di quelle che a ottant’anni hai ancora nel cuore. Poi qualcosa cambiò, prima che Viola da Roma si trasferisse a Bologna.
Medea, così remissiva, così impacciata e frammentata, sparì. Non rispose più alle chiamate, non si fece trovare sotto casa, non apparve più a scuola. Rimase rintanata fino al giorno dell’orale alla maturità e poi si eclissò senza ulteriori indugi. Pallida, con dieci chili in meno e i capelli sempre legati.
Viola, orgogliosa della propria tempra altera, di quel carattere sassoso e scomodo, che aveva costruito in una perenne lotta con se stessa, la cercò solo i primi tempi.
Poi decise di ignorare la questione, convincendo se stessa a non interessarsene.
Finché, il 10 Agosto, non prese il telefono in mano, mentre già faceva i bagagli per Bologna, e lasciò un messaggio in segreteria:
“Al tuo funerale verrò vestita di viola.”
Due giorni dopo trovò per strada una gattina spelacchiata, con una zampa ferita e un occhio più scuro dell’altro. La chiamò Camilla, dicendo chiaramente alla gatta, che non sarebbero mai state amiche; di non farsi illusioni, visto che le aveva persino scelto un nome comunissimo e privo di senso proprio per rimarcare il fatto che sì, le aveva salvato la vita, ma che avrebbero vissuto nella stessa casa come due estranee.
Viola aveva capelli ossigenati sopra le spalle, occhi nocciola piccoli e iracondi, labbra lunghe e arrossate agli angoli, mani smangiucchiate e piedi sproporzionati, lentiggini estive e peli delle braccia perennemente decolorati.
Viola decise di essere abbastanza forte da bastare a se stessa. Da quel messaggio in segreteria chiamò solo un’altra volta Medea, coprendo il numero con l’anonimato, ascoltò l’altra chiedere chi fosse un paio di volte, poi attaccò.
Sognò di avere sotterrato il cadavere di Medea nel cortile sul retro del palazzo vicino a una vaso di gerani, e iniziò a pensare a un piano macchinoso per non venir scoperta. Immaginò come cancellare le impronte, dove gettare la pistola, che alibi procurarsi.
Poi si svegliò e tutto sommato fu sollevata di vedere al proprio fianco il muso bianco e nero della micetta dal nome inflazionato.
Sì, pensò, quel dannato vestito viola alla fine lo avrebbe anche potuto comprare, pur di rimarcare la propria indomita insolenza e superiorità, sulla ragazzina dal nome altisonante e tragico, i brufoli in faccia e le ginocchia sempre sbucciate.

Tu, senza di me sei come un corpo senza ossa.
Lo capisci, Medea?
Lo vedi o no?


Uno sporadico mucchietto d’ossa


“Sono state le tue parole, le nostre parole a sancire l’inizio, su di esse ho viaggiato e vissuto.
Come se ad occhi chiusi tutto valesse lo stesso.
Sono un fantasma sporco di crack e bombolette spray, sono una bambina dai vizi ridicoli e capricciosi, sono il bordo di una società fatta per soli uomini, sono il lembo promiscuo di una dittatura a tinte falliche. Sono il desiderio di non sentirmi più sola. Credo che tu possa sentirlo questo desiderio, Petra. Credo che sia in fondo, anche il tuo.”
Medea aveva sempre avuto un problema con il proprio corpo. In una sequenza di infiniti blackout e comunicazioni interrotte. Spesso si azzittiva, dissimulava e camuffava ogni emozione dietro sorrisetti bambineschi, pupille dilatate e pallori passeggeri. Alternava fasi di sciopero verbale a smorfie strofinate sulla pelle, raschiate dalla fronte al mento.
Ogni sevizia intellettuale di Viola si traduceva in qualche grugnito e un’alzata di spalle, palpebre sbattute con ostinazione e piedi sovrapposti, tanto da sentire la gomma delle scarpe graffiare le vene.
Era piccola Medea. Piccola nei diversi sensi della parola: di statura, di intelletto, di mentalità. Non concepiva se stessa se non come la proiezione imperfetta delle proprie amicizie.
La bambina piagnucolante che sapeva solo vivere aspramente ogni conflitto con il mondo.
Tutto era tragedia, nella vita di Medea. E se all’esterno non traspariva nulla, poi, il suo corpo lo faceva presente ribellandosi. Passava periodi di magrezza trasparente, senza riuscire a ingoiare neanche una carota bollita; soffriva di pruriti alle braccia e sulle cosce tanto da graffiarsi fino a far uscire il sangue per alleviare il fastidio; perdeva più capelli del dovuto quando se li spazzolava; si mordeva le unghie fino alla radice per poi farle ricrescere nella totale incuria addirittura per mesi, mezze rotte e frastagliate; soffriva di insonnia perenne e gastriti lancinanti.
Ciclicamente, come se ci fosse anche in questo caso una cadenza mensile, qualche organo interno assumeva comportamenti bellici e insorgeva contro la proprietaria, senza che lei, nel suo metro e cinquanta scarso di muscoli molli e sporadiche ossa, potesse arginarne gli effetti.
Era in grado di mugolare, a denti chiusi, senza lacrime, anche per ore intere. Stretta tra le ginocchia appuntite e i vestiti sempre troppo larghi. Ma non sapeva urlare, cacciando fuori ogni lacrima e ogni derisione; teneva tutto sotto le costole.
Medea sapeva fare la vittima solo con se stessa, abbandonandosi alla superiorità altrui, allo scherno e alle pacche sul sedere. Non aspirava a primeggiare, si faceva lambire soltanto da un contatto marginale con la propria quotidianità.
- Sei comica, il che è paradossale. Non ti pare? Una con un nome come il tuo. Vestita di stracci alla moda e coperta di tagli da adolescente, che si abbuffa di romanzetti rosa e confezioni di Prozac. Molto comico - Le aveva detto Viola qualche giorno prima di quel mercoledì mattina.
La crudeltà della sua migliore amica era parte integrante del suo vivere, non sentiva neanche più quell’iniziale pizzicore allo stomaco per colpa del dispiacere che non riusciva del tutto a far scomparire. Ma ormai era diventata brava e anche se perdeva un chilo o si riempiva di bolle, non le dava mai la soddisfazione di vederla immersa nella propria drammaticità. Galleggiava in superficie, metteva il broncio per qualche secondo e dopo sorrideva.
- Hai ragione, Viola. Hai proprio ragione - Dopo smetteva di parlarle e si allontanava.
Lasciava che ridesse di lei a distanza. A reggere l’altro capo di quella fune che era così tirata da far scricchiolare le fibre della corda.
Erano passati cinque anni dall’ultima volta che aveva visto Viola, dalla prima volta che aveva visto Petra, e lei quel mercoledì mattina ancora se lo ricordava bene.
Nella sala le luci erano puntate verso il palchetto, su cui era stata portata una lunga cattedra con un microfono per ogni seduta e i cartellini dei nomi di fronte.
Ma sarebbe stato il terzo nome da sinistra a cambiarle la vita. Solo il terzo.
Eppure era un mercoledì come tanti, afoso e impregnato di smog.
Lesse le locandine e afferrò le brochure che le venivano donate all’ingresso.
Sedette in quarta fila, da sola, nell’angolo più esterno, pronta a uscire se gli argomenti trattati non l’avessero convinta. Sola, senza gli occhi iniettati di scherno di Viola, che a quel convegno non sarebbe mai venuta. L’avrebbe trovato ridicolo, come tutte le cose pseudo intellettuali che Medea faceva per sentirsi meno piccola.
Viola odiava il teatro e l’opera, Viola ascoltava solo musica anni novanta e detestava Beethoven, Viola quel mercoledì era a casa per una maratona di Stephen King: almeno tre libri in due giorni. Storie con i morti, cascate di delitti e strangolamenti. La spasmodica ricerca del colpevole.
Medea osservò le persone che sarebbero intervenute a quel convegno, di cui aveva visto la pubblicità fuori dal loro liceo. Tutti presero posto, con le bottigliette d’acqua alla mano e i fogli degli appunti a troneggiare sulla lunga cattedra.
Lesse il nome sul terzo cartellino. Nitido e stampatello. Petra Mattioli.
Un nome e un cognome qualunque, fino a quel momento.
Una donna sui quaranta, con occhialetti non troppo femminili, una maglietta fiorata e una gonna sopra al ginocchio sorrise alla sala.
La sua corporatura gracile, ma rotonda in alcuni punti aveva un che di banale. Il modo in cui continuava a non prestar fede ai fogli che si era portata dietro faceva intuire una evidente sicurezza di troppo. Le gambe che cambiavano costantemente posizione ne mettevano in luce la fretta di terminare. Eppure parlò a lungo circa i propri studi sulla condizione femminile nell’era della globalizzazione. Filosofia di genere, così identificò il proprio pensiero. Un focalizzarsi intenso sulla donna, sul suo sviluppo contemporaneo, sulle sacche di discriminazione e sui fragili rimasugli della propria differenza.
La sua voce era limpida e carezzevole, di una tonalità vicina al bianco. Sporcata da qualche termine troppo erudito, ma scevra da qualsiasi tipo di inflessione dialettale.
Una donna perfetta, che parlava di donne perfette, in un italiano perfetto.
Abbigliata come una comunissima signora che avrebbe potuto incontrare sull’autobus, senza capelli ossigenati e cerchietti fluorescenti, senza unghie perennemente nere e calzini spaiati.
Eppure quelle parole disegnarono progetti futuri nell’aria e colpirono l’immaginario di Medea.
Aveva diciotto anni Medea, ed era piccola, una liceale intrisa di sogni e pantomime.
Lei che veniva schifata dai suoi compagni di scuola perché simile a una ragazzina delle medie; lei che il suo primo bacio lo aveva dato al cugino di secondo grado nel bagno pubblico dello stabilimento di Ostia; lei che non aveva seno e doveva comprare biancheria sportiva; lei che adorava il modo in cui Viola indossava il costume da bagno in estate.
Alla fine si era avvicinata mentre Petra stringeva le mani degli altri professori e ridacchiava vezzosamente mostrando le mani dalle unghie estremamente curate, circondata da quella bolla di profumo dolciastro, tendente alla scorza d’arancio, fresco e mite.
Si erano guardate a distanza, mentre il viso smagrito e contornato da lunghi capelli mogano di Medea spuntava tra le spalle rigide dei completi gessati maschili.
Petra sembrava aver notato quella piccola osservatrice, che aveva seguito ogni sua parola a labbra dischiuse, come se stesse assaporando per la prima volta ogni singola lettera della lingua italiana.
La vide spostare gli occhi sulla propria collana di perle, sull’anello di diamanti all’indice, sui lacci spessi di quelle scarpe da uomo, così strane sotto a un abbigliamento prettamente femminile.
Dettagli poco chiari, bislacchi, che Viola avrebbe trovato imbarazzanti. Pronta a distruggere il suo intervento, biforcuta a sprezzante.
Ma lì Viola non c’era. Niente ossigeno e niente iridi nocciola.
Gli occhi di Petra, verdi e leggeri, la invitarono a iniziare quella lunga conversazione.
Fatta di strette di mano prolungate e occhiate vivaci, di commenti e risate frettolose.
Petra però non rise mai di lei, prese tutto molto seriamente, le annotò dei libri da leggere, le scrisse la propria e-mail, le consigliò di guardare qualche film.
Tutto fu affetto e comunione da subito, senza tirate di orecchie e sguardi truci. Senza urla mute e calci con la punta degli anfibi dati sotto i banchi di scuola.
- Non ti sembro una bambina? Perché non ridi di me? - Le chiese una volta Medea, al loro secondo incontro. Nella caffetteria di Via Veneto, dove un cappuccino costava almeno tre euro.
- Dei bambini non bisogna mai ridere, loro spesso sono più saggi di noi.
Sorrise calda e morbida, Petra, e girò l’anello all’indice, ma la traccia della mancata abbronzatura sull’anulare nascondeva la scomodità di quell’incontro.
Medea non la vide, impegnata a non arrossire e grattarsi un orecchio per l’agitazione.
Anche dopo cinque anni continuava ad amare i girocollo di perle e i maglioncini poggiati sulle spalle, le calze a vita alta e i gambaletti con le ballerine di Petra.
Ma sulla punta della lingua custodiva il ricordo di quel messaggio nella segreteria.
Cancellato un minuto dopo, però mai dimenticato.
- Al tuo funerale mi vestirò di viola.
E l’avrebbe voluta vedere, attraversare una porta qualunque con quel vestito indosso.
Per poter ridere, ridere tanto, di lei.

Sei stata la mia certezza
di non avere una maschera ridicola
sempre poggiata sulla faccia.
Una certezza, Petra.
La mia.


Il rancido fetore di una poesia aulica


“Perdonami, Nico. Perché sono sempre stata imperfetta, nascosta nel mio guscio di noce, imbrattato di menzogne e poesie artigliate con violenza. Perdonami, perché nell’illusione ho cullato le mie notti insonni. Perdonami, perché non ti ho mai lasciata andare. Perdonami, perché sei una di quelle poche cose che restano alla fine, a indicare la mia strada. Perdonami, perché anche adesso ti sto mentendo.”
Petra ha un nome particolare, l’incarnato sempre traslucido e gli occhi che si assottigliano con la troppa luce. Ama la gestualità e i contatti umani quanto ama leggere e scrivere. Si spertica in sorrisi, carezze sulla schiena e strette di mano prolungate. Ha un’aria partecipe e interessata che la adorna di positività e rende impossibile ai suoi ascoltatori non venir attratti dalle sue parole.
Non è bella Petra. I suoi quarant’anni si fanno sentire e vedere. Non veste come una donna in carriera o come una madre giovanile. Lei la madre non la farà mai.
Lo ha deciso a vent’anni e tutt’ora non rimpiange tale scelta: la poesia, la filosofia, la letteratura sono le sue uniche figlie, che nutre, difende e coltiva.
Si riconosce nelle stampe fiorate, nelle tazzine di porcellana con il bordo dorato, nei pizzi alle tende in cucina, nelle ballerine dai ricami fantasiosi e nei colori pastello della tovaglia nel soggiorno.
Petra è una vita che si veste come se fosse sempre invitata a giocare alle bambole a casa di qualche compagna di scuola.
A Petra piace essere ascoltata, venerata, seguita; si identifica facilmente nell’immagine dell’eroina vestita di rosa che guida le proprie giovani seguaci nella guerra tumultuosa contro un mondo, che secondo lei, le ha penalizzate fin dalla nascita.
Ha studiato a Padova, poi a Bologna, infine a Roma. Ha preso una laurea e due specializzazioni in filosofia fino a raggiungere l’agognato titolo di una cattedra alla Sapienza.
Le sue lezioni sono note per la loro connotazione fortemente politica. Non fa mistero della propria caparbia lotta allo stereotipo della donna come madre, moglie e concubina.
Ma il suo femminismo estremizza le differenze e mette alla porta la vulnerabilità delle donne, bandendo ogni sorta di triste legame con la dimensione intransigente maschile.
Il mondo di Petra è un mondo di sole donne, che costruiscono intorno a se stesse una costellazione di rapporti stretti, morbosi, soffocanti. Rapporti affettuosi, che diventano d’amore, che si trasformano in dipendenza, che sfociano nell’odio, che poi tornano a vivere nell’indifferenza; che distruggono e deprimono.
La sua apparenza materna, rassicurante, nitida e carezzevole, nasconde una natura dominante, un piglio possessivo, una mania di protagonismo.
Si crogiola negli sguardi ammirati delle studentesse, nell’entusiasmo con cui partecipano alle lezioni, nelle domande personali che le pongono, nei dubbi che fa sorgere in loro.
Dondola se stessa sul confine delle loro incertezze, puntellando le credenze e insultando i pregiudizi. Muove le fila del proprio gioco sul pelo dell’acqua di quei rapporti stretti; amicizie trasparenti, che vorrebbe far sfociare in passioni torbide e delizie sessuali.
Tutto in punta di piedi, tutto sotto la bandiera del gentil sesso, dell’indipendenza e della ribellione alle imposizioni sociali.
Petra a un primo sguardo sembra una donna di mezza età, costretta a farsi la tinta una volta al mese e legata a un odio profondo per i pantaloni.
A trent’anni ha conosciuto Nicoletta, il suo completo opposto: una donna che vorrebbe essere uomo a tutti i costi e che combatte senza tregua contro l’irrimediabile realtà che la affligge. Sono dieci anni che vivono una vita fatta di vacanze all’estero, film visti fino alle due di notte e cucina etnica alla domenica. Come una famiglia, un nucleo, una certezza.
Petra porta all’anulare l’anello che Nico ha comprato per il loro decimo anniversario, in una gioielleria in centro spendendo un capitale; se lo rigira spesso sul dito e poi lo passa all’indice quando è in pubblico, nascondendo a tratti il brillante che svetta sulla cima.
Petra ama le corrispondenze, le e-mail, i messaggi su facebook, le foto caricate dal cellulare, le cartoline scritte da paesi stranieri; mentre Nico vive solo di sguardi vivi e realtà palpabili.
Negli anni Petra ha capito di poter intrattenere relazioni epistolari con persone che non siano Nicoletta. Donne più giovani di lei, che conosce alle conferenze, alle fiere, all’università, che poi la prendono come guida, la seguono alle mostre e ai convegni, le chiedono consigli di vita.
Ogni legame nato così sfocia in un punzecchiarsi a vicenda, in allusioni e richiami velati.
Petra controlla sempre la casella e-mail e passa le ore a rispondere a ogni contatto, si trascrive tutti i nomi delle sue nuove conquiste intellettuali su un quaderno nero comprato in un viaggio a Parigi, sulla cui copertina è tratteggiato il famoso gatto nero francese.
Due eventi hanno sconvolto i precari equilibri della vita di Petra, le sue giornate fatte ormai di ruotine da donna quasi sposata e in carriera, combattente eterea e sobillatrice senza traccia.
Il primo di questi fu, cinque anni prima, l’incontro con la giovane Medea, ragazzina allo sbando totalmente malleabile, irrimediabilmente compromessa, pronta ad accogliere ogni tipo di legame, distrutta da una sessualità senza sbocchi e lacerata da un amore non corrisposto.
Fare presa su Medea era stato semplice, tenerla lontana, attraverso il filtro di contatti esclusivamente virtuali, si era rivelato impossibile. L’assenza di punti di riferimento nella vita della ragazza, la sua voglia di entrare in quel mondo, di assorbire come carta da cucina ogni molecola della filosofia di Petra le aveva trascinate verso una relazione compromettente.
Petra sentiva di aver stretto le dita delle mani sulla gola della ragazza, di averla condotta esattamente dove le altre non erano state in grado di farsi portare, perché troppo legate ai propri stili di vita, alle raccomandazioni della famiglia, alle amicizie della propria età.
Medea aveva quell’anima fragile e semplice da far aderire alla propria, quel modo di fare femminile che la rendeva così opposta a Nicoletta, quel portamento svogliato e quella leggerezza giovanile che la inducevano ad attorcigliarsi intorno alle persone prese da lei come punti di riferimento.
Medea aveva bisogno di una madre, di un’amica, di un’amante, di una sorella.
Medea aveva bisogno di lei, di essere sedotta e tartassata, di essere lusingata con mille complimenti, presentata agli incontri letterari, introdotta ai giornali per cui Petra scriveva, lambita da poesie scritte sui tovagliolini nei bar. Come quello a Via Veneto, al loro secondo incontro. Un tovagliolo quasi trasparente preso dai contenitori in alluminio.

E tuttora il suo ronzio
Anno dopo anno,
Inganna la Farfalla;
Tuttora nei suoi Occhi
Restano Violette
Polverizzate da molte Primavere.

La giovane aveva conservato quel tovagliolo come un tesoro sacro e prezioso, non avendo mai ricevuto una poesia da parte di nessuno, non avendo mai neanche frequentato qualcuno che le conoscesse a memoria, che sapesse trascriverle con una calligrafia tondeggiante e precisa.
Medea era piccola e non aveva una vita propria, degna di tale nome.
Nei suoi occhi quelle violette c’erano ancora, ma Petra non poteva vederle.
Riusciva a metterle in bocca qualsiasi parola non sua: dittatura fallica, nomadismo etico, erotismo di genere, rifiuto eterosessuale, lesbismo congenito.
Lei era disponibile a fare suo ogni slogan, ogni vocabolo che prendeva vita dalle labbra di Petra.
Medea divenne il segreto più scomodo della vita di Petra, la necessità di sentirsi anche lei un po’ bambina, un po’ ingenua, un po’ malata. Adorava i tic di Medea, le sue debolezze manifeste, il suo dimagrire improvviso, il suo portare i capelli ormai sempre legati per non apparire troppo ragazzina ma più sofisticata, le sue gambe scheletriche che spuntavano sotto a gonne fino a ginocchio, uguali alle sue, le camicette fiorate che comprava ai mercatini dell’usato, il mascara denso che metteva anche prima di andare a dormire. Medea non le aveva mai chiesto di diventare l’unica donna della sua vita, ma il vero motivo Petra non poteva conoscerlo. Interpretava il tutto come un’ affabilità della ragazza, un suo modo di non farsi allontanare.
Il secondo evento accadde anni dopo, fu di natura più drammatica e iniziò a scuotere dalle radici l’equilibrio precario della vita di Petra: Nicoletta si ammalò. Le diagnosticarono un tumore al seno e fu costretta a seguire tutto l’iter per potersene liberare.
La loro casa si trasformò in un silenzioso luogo di cura, le loro vacanze vennero interrotte, gli incontri universitari di Petra si diradarono, le attenzioni per la compagna tornarono ai loro splendori iniziali. Con una sorta di affettazione che aveva contorni falsi e lacerati.
Petra non poteva contemplare l’ipotesi di vivere in assenza di lei, come se fosse l’altra faccia del proprio esistere, la trasformazione inerte dei propri dolori. Ma non aveva mai pensato di potere esistere con solo lei accanto.
La vide resistere sotto il peso della malattia, con quel piglio amazzone che da sempre l’aveva contraddistinta: Nicoletta sapeva lottare veramente e da tutta la vita.
Neanche la nausea perenne, la perdita delle forze, la caduta dei capelli, il dolore dell’operazione, l’odio per il proprio corpo in subbuglio e la febbre alta la distrussero. Nicoletta se scivolava poi arpionava il pavimento per rimettersi in piedi e trovava un modo qualunque per camminare, annaspando e gorgogliando come una naufrago vicino alla morte, raggiungeva la superficie e prendeva aria.
Petra le dedicò letture notturne dei romanzi della Woolf, di articoli pubblicati nella rivista “Adorata creatura”, aforismi dai testi della Irigaray, la visione di film a loro cari, come “Viola di mare”, che a Nicoletta ricordava così bene la propria vita.
Nell’intreccio a loro ignoto, di nomi e coincidenze che prima o poi avrebbero fatto scoppiare dimensioni alternative finora taciute.
Quel colore, vicino al nero, ma ancora con una punta morente di rosso, stava per farsi strada anche nella loro vita, accompagnato da una ragazza sfrontata con i capelli ossigenati.


C’è puzza di marcio qui, Nico.
Non è la tua carne, non è il nostro spirito.
È la mia poesia…


Il sogno del pesce ermafrodita


“Sei un’artista della certezza e della sciocchezza, delle falle riparate senza calcestruzzo, del giocare a nascondino senza benda, dei mattoni impilati senza colore. Al di là cosa c’è, Viola? Se levi ogni pietra scartavetrando i licheni. Cosa c’è? Ci sono i bambini al di là, quando amano baciare ogni cosa e fissare una luce perché emana calore? O forse solo i nostri corpi bombardati da onde che rimbalzano nelle pareti dello stomaco, stanze asettiche e capelli rasati?
Forse tu. Come un pesce che dorme sempre, ma grida per non essere svegliato.”
Nicoletta a dieci anni si era tagliata i capelli da sola con le forbici trovate in cucina.
Tutte ciocche sparse, una diversa dall’altra, irregolari, stupide, ispide. Soddisfatta si era specchiata nel bagno usato come lavanderia. Tra il profumo di Cedro e le confezioni di plastica vuote, che la madre teneva per la raccolta punti. A turno tutti le ricordavano che bastava il pezzetto del contenitore e non conservarli per intero. Ma lei non voleva saperne.
Testarda e caparbia, come la sua Nicoletta.
Alla mamma quei capelli non sarebbero piaciuti e l’avrebbe costretta a girare sempre con un capello fatto all’uncinetto, viola come le violette che crescevano sotto alle pietre del vialetto d’ingresso. Così inadeguato per i suoi jeans sempre strappati e le camicie di due taglie più grandi rubate al fratello. E quei capelli corti sarebbero sempre rimasti: più lunghi da una parte, rasati sulla nuca, sparpagliati sulla fronte, sfilzati con le forbici.
Petra era il contrario di lei, l’opposto di una barricata immaginaria, la paladina delle donne che vogliono essere donne, e amano donne, e pensano donne, e scrivono donne, e vestono donne.
Petra aveva cercato la diversità, nella compagna del quotidiano, l’assoluto altro, avendo troppo paura di qualcuno come se stessa.
Aveva scelto una donna profondamente convinta di non esserlo mai stata.
Una donna dall’istinto paterno, i gusti maschili. Una donna colpita al seno, da quella malattia troppo visibile. Proprio lì, vicino al cuore, nel fiore della femminilità. Dove ora c’erano solo costole e cicatrici, pelle indebolita e sopracciglia diventate bianche.
Nicoletta entrava nelle boutique da uomo e fingeva di dover comprare almeno tre cravatte per un marito che non aveva. Faceva fare il pacchetto, scriveva un biglietto e poi le nascondeva dietro la scarpiera. Tanti pacchi e tanti biglietti. “A Nico, buona Natale”, “A Nico, felice anniversario”,
“A Nico, buon onomastico!”, “A Nico, buon compleanno”.
Nicoletta si faceva chiamare Nico. Da bambina scriveva racconti per altri bambini, pieni di disegni, ma soprattutto di parole. Corsive, stampatello, allungate, scarabocchiate, infiocchettate, cancellate, sbafate. Parole animate, vitali, silenziose.
C’era sempre un pesciolino, il protagonista. Un pesce di nome Nico che cambiava spesso colore e si incazzava se lo chiamavano Mister Pesce, o Il Pesce colorato.
Era solo un pesce. Non un lui, non una lei.
Da grande Nico illustrava libri per bambini, li riempiva di pesciolini e si incazzava se qualcuno le proponeva un racconto da disegnare pieno di Mister Bottiglia, Miss Lumaca e Mister Albero.
Ai bambini piacciono bottiglie, lumache e alberi. Del resto a loro non importa.
Ma lei di bambini non ne aveva, amava quelli degli altri; guardarli leggere e fare domande quando non capivano, puntare le dita sulle figure, riconoscere parole che già sapevano, battere le mani se indovinavano qualche nome, piangere quando gli veniva tolto un libro dalle mani.
Non li trattava come una madre, né come un’insegnante. Non faceva le vocine stridule o le facce buffe, non usava parole semplici scandite con cura. Non asciugava le lacrime con il polsino della camicia, non soffiava sulle bruciature, non sgridava dandogli uno schiaffo sul sedere.
Li guardava, osservava, diceva poche parole ma concise, usava l’ironia, non insisteva con i gesti, assecondava i pensieri. Nelle biblioteche, ai laboratori per il disegno, nelle scuole, agli incontri nelle librerie. Loro la capivano. Loro si capivano. Come tanti pesci, un solo lago e mille guizzi.
Fu lì, a una biblioteca di Bologna, fuori sede, attorniata da dodici marmocchi, fogli da disegno A4, matite Faber Castle, formine a pois e pennarelli un po’ secchi sulle punte, che la vide.
Quella ragazzina, vestita di nero, spavalda e dall’aria sufficiente, che scherzava col bibliotecario, ma poi faceva facce schifate appena lui si girava, a sé stessa, per una presa in giro personale, e rideva. Aveva persino i calzini spaiati, ma sicuri, pieni di sé.
- Ehi, tu, con quell’aria da manico di scopa, qui noi stiamo disegnando dei pesci fatti di pois. O ti unisci o vai a flirtare con Augusto nella saletta accanto.
L’altra s’era girata, attonita. L’aveva squadrata. Quella donna di mezza età quasi, con i capelli rasati e la pelle giallastra della chemio, ancora lì, a fare capolino. Nessuna bandana, nessuna parrucca. Una testa ovale e pulita, luccicante.
- Non mi piacciono i bambini…
- Strano, hai l’aria di essere una di loro.
- Perché?
- Perché ridi da sola…. come ti chiami?
- Viola…
- Come il pesce, la viola di mare.
- Non conosco i pesci.
- Forse loro conoscono te, non si può mai sapere.
- La gente di solito dice “come il fiore”.
- La gente di solito non sa come sono fatte davvero le viole. Siediti… i bambini lo sanno.
E si sedette, Viola, per terra tra i cartoncini e i timbri. Bambini schiamazzanti e finestre coperte di adesivi. Gli anfibi schiacciati contro le cosce, e si dimenticò perché era venuta lì.
Fu sprezzante, al suo solito, carica di acidità e frasi poco amichevoli. Ma Nico non faceva le smorfie di Medea, non arricciava le labbra pur di non rispondere, non si grattava la spalla per nascondere un fastidio verbale. Nico parlava e rideva, come una boccia di vetro messa d’estate al sole. Rideva con lei. Non scherniva, ma non addolciva.
Nico capiva, una bambina come lei.
E quei ragazzini seduti in cerchio, dentro la biblioteca di Bologna, sapevano davvero cos’erano le viole e subito aveva detto che lei, la Viola in carne ed ossa, quella stramba donna ancora un po’ adolescente appassionata di Shining in video noleggio, con le viole non c’entrava proprio nulla.
- E a questa immagine secondo voi assomiglia?
Nico disegnò un pesce composto da varie sfumature, riempiendo tutto un foglio, occhietti piccoli e branchie a vista. Loro risposero di sì, in coro.
Chissà come mai, a loro quella parve una Viola di mare.
- Ti starebbe bene il tuo colore addosso - le disse Nico alla fine del laboratorio, mentre si levava colla Vinavil dalle unghie e raccoglieva forbici zigrinate e pennelli zuppi di colore.
- Non metto mai il viola, è un colore di merda - solo a un funerale l’avrebbe voluto mettere.
Per l’unica persona che l’aveva abbandonata, senza essere stata mandata via.
- Mi pare uno come gli altri, vanno cambiati spesso. Se ne escludi uno, poi non potrai provarli tutti. Pensaci - fece spallucce Nico, alzò le sopracciglia ancora chiarissime e sorrise, da parte a parte. Il sorriso di chi dopo quarant’anni, ha accettato di essere uno strano miscuglio di sensazioni, pensieri e ricordi. Un essere umano.
- Come ti chiami? - si informò Viola prima che lei potesse andare via.
- Nicoletta, ma preferisco Nico - e non era bella. Non lo era affatto. L’aria malaticcia e tutto il resto. Quei vestiti da uomo, la fede al dito ben in vista, le scarpe lucide e il cravattino. Non era bella.
Ma a Viola piacque, nei suoi pantaloni sformati e nell’anellino al naso, nel tatuaggio sul polso che spuntava dalla camicia, nel suo fregarsene, sguazzando in acque aperte.
- Quando torni qui? - forse per una volta non c’erano misteri, né killer da pedinare, né funerali a cui andare. C’erano i pois, la colla e gli sgabelli dalle gambe tonde fatti di gommapiuma.
- Presto - andò via inseguita dai bambini che volevano salutarla e lei che non si abbandonava a smancerie. Ma poi i disegni che le regalavano li metteva dietro a quella scarpiera, con tutti i regali importanti, quelli che si era fatta da sola.
Ogni giorno Viola tornò alla biblioteca, a chiedere.
Un venerdì, quando decise di mettere una maglietta viola, nascosta sotto a uno dei suoi maglioni grigi, sentì ridere i bambini più del solito e seppe che Nico era tornata.

Non si ha solo bisogno di carezze, Viola.
A volte anche di nomi e parole.
A volte di malattie e sorrisi.
A volte di ricordi e schiaffi.
A volte di pesci colorati.

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