domenica 23 febbraio 2020

MVL TEATRO: Gifuni recita gli scritti di Aldo Moro - al Vascello fino al 23 febbraio


Maria Cristina Reggio 

Tutto esaurito al Teatro Vascello per Con il vostro irridente silenzio, in cui Fabrizio Gifuni, fino al 23 febbraio, legge le parole di Aldo Moro, prigioniero delle Brigate Rosse dal 16 marzo al 9 maggio 1978 e poi trucidato dai suoi aguzzini. Nella sua performance, come sempre strepitosa, l’attore dà voce e corpo alle lettere che lo statista indirizzò a parenti, amici, rappresentanti della politica e delle istituzioni italiane, pubblicate da Einaudi nel 2018, Lettere dalla prigionia, a cura di Miguel Gotor, e al suo memoriale, ritrovato in fotocopia solo dodici anni dopo il rapimento, dietro a un pannello di carton gesso nel covo dei brigatisti di Via Monte Nevoso a Milano. (Il Memoriale della Repubblica, Gli scritti di Aldo Moro dalla prigionia e l'anatomia del potere italiano, a cura di  Miguel Gotor, Einaudi, 2011).
Efficace nel suo intento, che è quello di liberare dal silenzio dell’oblio le enigmatiche parole di Moro, l’assolo di Gifuni che recita in piedi sul palco per quasi due ore commuove, soprattutto per l’accento che l’attore posa sulle parole, utilizzando tutto il proprio corpo per scagliarle come frecce verso le  orecchie di chi lo ascolta: il suo viso si contrae, le sue braccia indicano o si ritraggono e le sue gambe sono scosse da fremiti, sostenendo il peso dell’accusa e l’intensità di affetto di un uomo prigioniero che, mano a mano che passano i giorni, si rende conto di essere condannato a morte, non solo dai suoi rapitori, ma anche da coloro  ai quali chiede aiuto.  In un crescendo che, da un sommesso dolore e da un iniziale sconcerto misto a commozione si trasforma mano a mano in toccante disperazione, l’attore trascina gli spettatori in un’invettiva contro un partito, quello della Democrazia Cristiana, che ha rappresentato e governato l’Italia per mezzo secolo e che ormai è morto insieme con tanti dei suoi fondatori e appartenenti. Come spettri, gli interlocutori a cui si rivolgeva Moro riaffiorano alla memoria, e mano a mano si ricostruisce in teatro un periodo buio, scuro, pieno di misteri di questo Paese. Si esce dalla platea con tante domande, e a Gifuni spetta senz'altro il merito di farci desiderare di cercare le risposte nei libri in cui sono pubblicate le lettere e le memorie dello statista. 

lunedì 3 febbraio 2020

Laboratorio officina poesia "Percorsi/Traversi": ANTONIA POZZI (Poesia in lotta con l’Ombra)

                             
Bruno Pinsuti Berrino

Antonia Pozzi nasce a Milano il 13 febbraio 1912 da famiglia benestante. Padre avvocato e madre figlia di un conte del Pavese. Nasce dunque Antonia in un clima favorevole sia per censo che per cultura. Fin da adolescente affronta lo studio delle lingue straniere e del pianoforte. Conoscenza e curiosità sono rafforzate poi con viaggi in Italia e, in seguito, all’estero. Nell’adolescenza la famiglia acquista una villa del ‘700 a Pasturo (Lecco) e Antonia vi trascorrerà spesso momenti di vacanza, iniziando anche a scrivere le prime poesie.
Ma quando nel 1922 si iscrive al “Regio Liceo-Ginnasio Alessandro Manzoni” di Milano, i suoi sentimenti iniziano a percepire quello di cui il cuore e la libertà hanno profondo bisogno. S’innamora di un ottimo professore di greco e latino Antonio Maria Cervi. Un amore che resta segreto per poco. Il padre, per nulla d’accordo, esprime apertamente il suo dissenso con entrambi, finchè il distacco forzato avviene con il trasferimento del professore in un liceo di Roma. Nella giovane Antonia l’amore negato dal padre resiste e si mantiene a lungo con contatti sporadici ma caparbi. Ma oltre l’amore, nel suo cuore appare un’ombra di ribellione che mette radici profonde e, lavorando dalla profondità, col tempo si trasforma in sofferenza che la porterà gradualmente verso il “cupio dissolvi”.
Viaggi e distrazioni, Università e studio, contatti con l’entourage del filosofo Antonio Banfi, non spengono la passione e acuiscono il dolore per un fuoco che continua a bruciare nell’anima. A questo punto per capire meglio sia il valore della sua poesia che il gesto estremo di morire a 26 anni, è necessario riconsiderare con attenzione non tanto la cronologia della sua breve vita, quanto invece il lavorio corrosivo che avviene nella sua dimensione interiore. A parte qualche amicizia tra cui, nel ’38, quella profonda ma non  affettivamente appagante con Dino Formaggio, un laureando della cattedra di Banfi, l’ombra malefica diventa sempre più forte.
Certo, dopo la sua tragica morte avvenuta il 3 dicembre 1938 e nonostante che il padre volesse manipolare e anche distruggere parte dei suoi scritti, la sua poesia viene apprezzata e rivalutata. La famiglia fa pubblicare privatamente un’antologia di poesie dal titolo “Parole” a cui fanno seguito altre ristampe. Negli anni Quaranta si muove la critica in particolare con Eugenio Montale che nella sua prefazione per la collana Mondadori dello “Specchio”, così esprimeva il suo apprezzamento mettendo in risalto : “il lavoro di penetrazione e di stile, il desiderio di ridurre al minimo il peso delle parole, la purezza del suono e la nettezza dell’immagine e il fuoco che le sue poesie compongono nell’animo del lettore”. (Cfr. “ANTONIA POZZI – A CUORE SCALZO”, Poesie Scelte a cura di Graziella Bernabò – Onorina Dino, p. 5-6, Ed. Ancora. Per i rimandi cronologici ib. p. 11-14). Per altre notizie e valutazioni : (Cfr. anche  Francesco Erbani “UNA STORIA INQUIETANTE” in “La Repubblica”, 12 giugno  1999, p. 41).
Per sondare più a fondo l’anima di Antonia Pozzi è doveroso qualche assaggio della sua poesia nei cui versi arrivano in modo lirico e diretto la sua passione e il suo tormento. Con l’aiuto critico di un esperto della mente tutto è più chiaro leggendo “La porta che si chiude” : Tu lo vedi, sorella io sono stanca/ … Oh, le parole prigioniere/ che battono battono / furiosamente/ alla porta dell’anima/ e la porta dell’anima/ che a palmo a palmo/ spietatamente/ si chiude !/ E ogni giorno il varco si stringe/ ed ogni giorno l’assalto è più duro./ E l’ultimo giorno/- io lo so -/ l’ultimo giorno/ quando un’unica lama di luce/ pioverà dall’estremo spiraglio/ dentro la tenebra/ allora sarà l’ombra mostruosa, / l’urto tremendo, / l’urto mortale/ delle parole non nate/ verso l’ultimo sogno di sole. / E poi / dietro la porta per sempre chiusa/ sarà la notte intera, / la frescura/ il silenzio. / E poi, con le labbra serrate, / con gli occhi aperti/ sull’arcano cielo dell’ombra/ sarà/ -tu lo sai-/ la pace”. Il commento clinico ‘sulle parole prigioniere’ ci dice che l’assedio è continuo e termina “con l’unica lama di luce che discenderà sulla tenebra. “Ma questa luce non trascinerà con sé la speranza e la gioia.” (cfr. Eugenio Borgna, “Le intermittenze del cuore”, p. 80-81, Feltrinelli,2008).
In quel raggio di luce vive sempre l’amore negato, interrotto, e mai sopito, se ancora nel luglio del ’29, dopo una sosta a Roma, Antonia Pozzi dedica un’altra lirica d’amore ad A.M.C. (Antonio M. Cervi) col titolo: “Terrazza del Pincio” : Dai viali a fiotti, corre sullo spiazzo/ una fragranza amara d’oleandri./ Roma, immensa, s’abbuia a poco a poco, / sfiorata di rintocchi. Non un volto, / né una voce, né un gesto, afferro intorno : / solo l’anima tua, solo il mio amore, / sbiancato dalla tua purezza. In breve, / nel cielo smorto di sfrenata attesa,/ proromperà un rimescolio di stelle.” (cfr. “A Cuore Scalzo”, p.23).
E ancora nel ’38, versi che danno al cuore uno scampolo di gioia, nel cercare “Luci libere” nell’atmosfera della campagna : “E’ un sole bianco che intenerisce/ sui monumenti le donne di bronzo./ Vorresti sparire alle case, destarti/ ove trascinano lenti carri/ sbarre di ferro verso la campagna./ Chè là pei fossi infuriano bambini/ nell’acqua, all’aurora,/ e vi crollano immagini di pioppi./Noi, per seguir la danza/ di un vecchio organo/correremmo nel vento gli stradali …/ A cuore scalzo / e con laceri pesi/ di gioia.” (“Poesie Scelte”, cit. p. 122).
Con tenerezza scrive per un’amica del cuore, Lucia Bozzi, “Un’altra sosta” :” Appoggiami la testa sulla spalla:/ ch’io ti carezzi con un gesto lento,/ come se la mia mano accompagnasse/ una lunga, invisibile gugliata./ Non sul tuo capo solo: su ogni fronte/ che dolga di tormento e di stanchezza/ scendono queste mie carezze cieche,/ come foglie ingiallite d’autunno/ in una pozza che riflette il cielo.” (cit. p. 17).
Il filo conduttore del suo mondo interiore resta comunque orientato verso quell’ombra insistente, come appare in diverse altre poesie. Certo, anche quando la natura, che ammira in gite e in montagna, la eccita come nel “Canto selvaggio” (p. 21) o in “Nevai” (p. 69, citate per intero alla fine del commento), il pensiero si intristisce nel momento in cui “la porta della speranza” si chiuderà per sempre e qualcuno cercherà per lei “i crisantemi” (in “Novembre”, p.26).
Dunque le sue parole sincere, a volte leggere e spesso cariche di sofferenza, dicono tramite la poesia ciò che l’anima suggerisce. Con stile agile e profondo esprime il calore dei sentimenti , trovando però troppo spesso l’ostacolo del buio in agguato, che nasconde la luce dell’amore, delle relazioni. Con vitale sensibilità femminile, con fiducia chiede aiuto alla bellezza del creato, assorbendone la forza per sostenere la sua visione poetica tra sogno e la dura realtà  che si può manifestare anche in natura. Ma accade pure che gli astri splendenti a volte emanino una gelida luce che provoca in lei una profonda malinconia.

domenica 2 febbraio 2020

MVL TEATRO: Una Locandiera da non perdere, al Teatro Vascello fino al 2 febbraio


Nel 1783, a Parigi, Goldoni scriveva i suoi Memoires, ed a questa sua autobiografia si ispira Andrea Chiodi, regista con i Proxima Res de La Locandiera (al Teatro Vascello fino a domenica 3 febbraio, da non perdere), una tra le commedie più famose del grande veneziano.

Il perfetto orologio teatrale di Goldoni, la dinamica regia di Chiodi, l’esilarante estro attoriale di Tindaro Granata e l’elegante disinvoltura di Mariangela Granelli creano una narrazione che rapisce emotivamente gli spettatori, trascinandoli nell’incanto collettivo di un divertimento intelligente che gode tra arguzia e oscenità.
Il meccanismo teatrale, obbediente ai ricordi narrati da Goldoni nelle sue memorie, si sdoppia tra un gioco di attori in carne ed ossa e di bambole (simili a quelle con cui il commediografo, bambino, muoveva i primi passi nel campo dell’invenzione teatrale) che “giocano” a specchio i loro ruoli, sopra e sotto un lunghissimo tavolo sul palco. Gli attori, con la pelle incipriata e splendide parrucche in pastasciutta e costumi di Margherita Baldoni, che paiono usciti intatti da un baule di scena del Casanova creato da Danilo Donati per Fellini, interpretano bravissimi, in cinque, tutti i ruoli, resuscitando proprio quella comicità, talvolta molto più fisica che intellettuale, tipica di quella commedia dell’arte che Goldoni si era impegnato per una vita a riformare.

A mo’ di quinte infatti stanno sospesi in scena, su attaccapanni mobili, tutti i costumi dei personaggi, che i cinque attori, perfetti emuli di una compagnia di giro, (Caterina Carpio, Caterina Filograno, Tindaro Granata, Mariangela Granelli, Fabio Marchisio) si cambiano in scena con grande maestria e nonchalance. Qua e là Mirandolina accenna il noto canto della contadina insidiata da Don Giovanni, additando, come ora si suole, una certa similitudine tra la locandiera e l’aristocratico conquistatore punito. Ma se pure le arie di Mozart arrecano sempre piacere all’orecchio, anche se solo canticchiate, il parallelo tra i due personaggi suggerito dalla regia poco si confà alla saggia Mirandolina, più simile piuttosto alla collega Zerlinetta, che nel Don Giovanni abbandona i fantasiosi giochi della seduzione e punta sul sicuro, sposandosi il meno fascinoso Masetto, anzi no, Fabrizio.
 Maria Cristina Reggio