venerdì 31 gennaio 2014

Come cambia il modo di fare informazione. E di leggerla

Ieri, 30 gennaio 2014, Facebook ha annunciato il lancio di una nuova app, Paper, che dal 3 febbraio aiuterà gli utenti "a esplorare e condividere storie dagli amici e dal mondo intorno a loro". E' l'ultimo esempio di un nuovo tipo di giornalismo, a cavallo tra dimensione collettiva e realizzazione individuale. Un giornalismo di cui si trovano numerosi esempi nell'articolo che segue e che fa parte di un dossier, La mediamorfosi, all'interno del numero 34 di "Alfabeta2", in uscita in questi giorni nelle edicole e nelle librerie.

Maria Teresa Carbone

«Be a Publisher!» (Diventa editore!) è il canto di sirena con cui Paper.li, la piattaforma di elaborazione di notizie lanciata nel 2008 dalla startup svizzera Small Rivers, attira coloro (assai numerosi, non sorprendentemente) che desiderano avviare e pubblicare un giornale online a costo zero. L’idea di base è semplice: posto che chi usa un computer, e ancora di più un tablet o uno smartphone, calamita giorno e notte informazioni di ogni tipo attraverso la miriade di social network e di app cui ormai pochi riescono a sottrarsi, Paper.li si inserisce, previo consenso, in questo flusso, individua le notizie che interessano maggiormente l’utente e, dopo averle suddivise in categorie (top news, politica, esteri, cultura, cronaca...) grazie al potente algoritmo di turno, le confeziona dentro uno schema grafico accattivante, una via di mezzo fra la prima pagina di un giornale di carta e la home page di un quotidiano online tradizionale, tipo «Repubblica» o «Corriere» (non mancano, naturalmente, due sezioni dedicate alle fotografie e ai video). Al novello «editore» non resterà che scegliere il nome della testata, affinare eventualmente la ricerca di Paper.li con segnalazioni ad hoc e, se lo vuole, organizzare le top news secondo un ordine diverso da quello che la piattaforma gli ha proposto. Clic, e il quotidiano è online (si può addirittura optare per due uscite nell’arco delle ventiquattro ore), pronto per essere diffuso via social network o passaparola. I lettori entusiasti potranno abbonarsi, gratis ovviamente, mentre l’«editore», se decide di fare sul serio, ha a disposizione una versione a pagamento (circa 7 euro al mese) che gli consente di monitorare meglio gli accessi e di ingaggiare «collaboratori», attingendo ai giornali creati – sempre su Paper.li – dagli altri abbonati.
All’apparenza è poco più di un giochino, una sorta di equivalente giornalistico del Piccolo Chimico. Eppure questa evoluzione personalizzata dei «vecchi» aggregatori di notizie come Pulse o Zite pare indicare un nuovo modo di maneggiare le informazioni, che vengono condivise con amici o follower, ma al tempo stesso diventano i tasselli di un numero infinito di «autoritratti in movimento» in forma di giornale.

Lo dimostra il moltiplicarsi di queste piattaforme, da Flipboard, il cui meccanismo, simile a quello di Paper.li, riorganizza i materiali presi dalla rete in vere e proprie riviste (magazine) da sfogliare virtualmente, a Rebelmouse, varato l’anno scorso da Paul Berry, il creatore dell’Huffington Post, che trasforma il flusso dei social network nella pagina personale dell’utente in questione.
Lo dimostra il numero crescente di persone che usufruiscono di questi servizi (a metà settembre 2013 Paper.li vantava 3,7 milioni di «editori» e 50 milioni di articoli macinati ogni giorno, ma già oggi si parla di 200 milioni di pezzi riproposti quotidianamente sulla piattaforma) e ancora di più l’attenzione da parte dei finanziatori (sette milioni di dollari racimolati piuttosto rapidamente, nel caso di Paper.li).
Lo dimostra infine il fatto che Facebook, il più popoloso e potente dei social network, ha espresso un interesse inequivocabile nei confronti del giornalismo «aggregativo» o, se si preferisce, di seconda mano, che si basa non su materiali scritti appositamente, ma su testi, foto, video riassemblati e condivisi. La decisione di imitare l’esempio di piattaforme come Pocket (la vecchia Read It Later) o di Instapaper, che consentono con un rapidissimo clic di salvare un articolo da leggere, o rileggere, successivamente, un po’ come si faceva un tempo ritagliando una recensione particolarmente significativa, e più ancora il maggiore risalto dato da Facebook alle news di qualità, a scapito di cani, bambini, gattini e cuoricini, sono solo due delle mosse attuate da Mark Zuckerberg per raggiungere un obiettivo da lui stesso dichiarato in modo esplicito: «Fare di Facebook il miglior giornale personalizzato del mondo». Gli utenti, per la verità, non ne sembrano altrettanto convinti (per esempio, l’anno scorso hanno rigettato un nuovo impianto grafico impostato sul news feed), ma dati recenti riportati da Jesse Holcomb su  Journalism.org mostrano che un terzo dei cittadini americani ha ormai in Facebook (seguito a qualche distanza da YouTube e Twitter) il principale canale di informazione.
Prima di stappare lo champagne inneggiando al nuovo giornalismo democratico e di base, però, vale la pena di osservarne anche i lati negativi o dubbi – primo fra tutti, la difficoltà, se non l’impossibilità, di verificare le notizie che ci volteggiano intorno. In un articolo uscito su Gigaom lo scorso dicembre) Matthew Ingram elencava una serie di news (una protesta anti-Google, un tweet di Paris Hilton, il battibecco fra un autore di reality e una spettatrice...) che sono rimbalzate in rete di sito in sito, prima di essere smascherate come bufale. Oggi, concludeva, i media siamo tutti noi e abbiamo il dovere di pensarci due volte prima di lanciare o rilanciare una notizia non verificata.
Come dargli torto? Eppure questo meccanismo di filtro critico non sembra ancora saldamente in mano alla moltitudine di neogiornalisti, pronti ad avallare qualsiasi storia coincida con il rumore di fondo in cui sono (siamo) immersi. Le sevizie su animali indifesi e i trapianti di organi sono, per esempio, due degli ambiti in cui il confine tra informazione accertata e leggenda metropolitana si fa particolarmente labile. Ma in genere gli argomenti di «attualità», anche quando sono terribilmente seri, si prestano – nel vorticare delle informazioni su Internet – a essere banalizzati e soggetti a distorsioni: ne è un caso il tema della violenza maschile sulle donne, pratica purtroppo ancora molto radicata e diffusa, contro la quale le campagne di sensibilizzazione in corso svolgono un compito prezioso. E tuttavia potrebbe essere utile far notare, proprio per mettere meglio in prospettiva il fenomeno, che le «ondate di femminicidi» di cui parlano i media nuovi e vecchi sono in realtà (per fortuna!) ovunque in calo e che l’omicidio di una donna per mano di un uomo non è la prima causa di decessi femminili fra i venti e i quarant’anni, come si sente ripetere spesso.

Inquadrare un fatto all’interno di una moltitudine di altri avvenimenti, di una cornice più ampia, è quello che fa, o dovrebbe fare, ancora oggi il buon giornalismo. I tweet lanciati da una piazza in sommossa raccontano, come non era mai stato fatto prima, l’avvenimento dall’interno, ma non escludono, anzi esigono, che il mosaico si completi raccogliendo altre voci, altri sguardi. Un saggio recentissimo, uscito da poco online negli Usa nella rivista «Journalism Practice», esplora un nuovo concetto che potrebbe coniugare il tradizionale flusso informativo dall’alto verso il basso e il «citizen journalism» orizzontale: si tratta di quello che gli autori (Seth Lewis, Avery E. Holton e Mark Coddington) definiscono il «giornalismo reciproco», basato su un rapporto di scambio diretto, indiretto e continuativo con i lettori e con i membri della comunità di riferimento. L’idea è ancora allo stato embrionale, ma rappresenta un percorso interessante per uscire rafforzati, giornalisti di professione e giornalisti «per caso», dalla rivoluzione che sta investendo le forme di comunicazione in tutto il mondo.

Twitter @mtcarbone

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