Ieri, 30 gennaio 2014, Facebook ha annunciato il lancio di una nuova app, Paper, che dal 3 febbraio aiuterà gli utenti "a esplorare e condividere storie dagli amici e dal mondo intorno a loro". E' l'ultimo esempio di un nuovo tipo di giornalismo, a cavallo tra dimensione collettiva e realizzazione individuale. Un giornalismo di cui si trovano numerosi esempi nell'articolo che segue e che fa parte di un dossier, La mediamorfosi, all'interno del numero 34 di "Alfabeta2", in uscita in questi giorni nelle edicole e nelle librerie.
Maria
Teresa Carbone
«Be
a Publisher!» (Diventa editore!) è il canto di sirena con cui
Paper.li, la piattaforma di elaborazione di notizie lanciata nel 2008
dalla startup svizzera Small Rivers, attira coloro (assai numerosi,
non sorprendentemente) che desiderano avviare e pubblicare un
giornale online a costo zero. L’idea di base è semplice: posto che
chi usa un computer, e ancora di più un tablet o uno smartphone,
calamita giorno e notte informazioni di ogni tipo attraverso la
miriade di social network e di app cui ormai pochi riescono a
sottrarsi, Paper.li si inserisce, previo consenso, in questo flusso,
individua le notizie che interessano maggiormente l’utente e, dopo
averle suddivise in categorie (top news, politica, esteri, cultura,
cronaca...) grazie al potente algoritmo di turno, le confeziona
dentro uno schema grafico accattivante, una via di mezzo fra la prima
pagina di un giornale di carta e la home page di un quotidiano online
tradizionale, tipo «Repubblica» o «Corriere» (non mancano,
naturalmente, due sezioni dedicate alle fotografie e ai video). Al
novello «editore» non resterà che scegliere il nome della testata,
affinare eventualmente la ricerca di Paper.li con segnalazioni ad hoc
e, se lo vuole, organizzare le top news secondo un ordine diverso da
quello che la piattaforma gli ha proposto. Clic, e il quotidiano è
online (si può addirittura optare per due uscite nell’arco delle
ventiquattro ore), pronto per essere diffuso via social network o
passaparola. I lettori entusiasti potranno abbonarsi, gratis
ovviamente, mentre l’«editore», se decide di fare sul serio, ha a
disposizione una versione a pagamento (circa 7 euro al mese) che gli
consente di monitorare meglio gli accessi e di ingaggiare
«collaboratori», attingendo ai giornali creati – sempre su
Paper.li – dagli altri abbonati.
All’apparenza
è poco più di un giochino, una sorta di equivalente giornalistico
del Piccolo Chimico. Eppure questa evoluzione personalizzata dei
«vecchi» aggregatori di notizie come Pulse o Zite pare indicare un
nuovo modo di maneggiare le informazioni, che vengono condivise con
amici o follower, ma al tempo stesso diventano i tasselli di un
numero infinito di «autoritratti in movimento» in forma di
giornale.
Lo
dimostra il moltiplicarsi di queste piattaforme, da Flipboard, il cui
meccanismo, simile a quello di Paper.li, riorganizza i materiali
presi dalla rete in vere e proprie riviste (magazine) da sfogliare
virtualmente, a Rebelmouse, varato l’anno scorso da Paul Berry, il
creatore dell’Huffington Post, che trasforma il flusso dei social
network nella pagina personale dell’utente in questione.
Lo
dimostra il numero crescente di persone che usufruiscono di questi
servizi (a metà settembre 2013 Paper.li vantava 3,7 milioni di
«editori» e 50 milioni di articoli macinati ogni giorno, ma già
oggi si parla di 200 milioni di pezzi riproposti quotidianamente
sulla piattaforma) e ancora di più l’attenzione da parte dei
finanziatori (sette milioni di dollari racimolati piuttosto
rapidamente, nel caso di Paper.li).
Lo
dimostra infine il fatto che Facebook, il più popoloso e potente dei
social network, ha espresso un interesse inequivocabile nei confronti
del giornalismo «aggregativo» o, se si preferisce, di seconda mano,
che si basa non su materiali scritti appositamente, ma su testi,
foto, video riassemblati e condivisi. La decisione di imitare
l’esempio di piattaforme come Pocket (la vecchia Read It Later) o
di Instapaper, che consentono con un rapidissimo clic di salvare un
articolo da leggere, o rileggere, successivamente, un po’ come si
faceva un tempo ritagliando una recensione particolarmente
significativa, e più ancora il maggiore risalto dato da Facebook
alle news di qualità, a scapito di cani, bambini, gattini e
cuoricini, sono solo due delle mosse attuate da Mark Zuckerberg per
raggiungere un obiettivo da lui stesso dichiarato in modo esplicito:
«Fare di Facebook il miglior giornale personalizzato del mondo».
Gli utenti, per la verità, non ne sembrano altrettanto convinti (per
esempio, l’anno scorso hanno
rigettato un nuovo impianto grafico impostato sul news feed), ma dati
recenti riportati da Jesse Holcomb su Journalism.org mostrano che un
terzo dei cittadini americani ha ormai in Facebook (seguito a qualche
distanza da YouTube e Twitter) il principale canale di informazione.
Prima
di stappare lo champagne inneggiando al nuovo giornalismo democratico
e di base, però, vale la pena di osservarne anche i lati negativi o
dubbi – primo fra tutti, la difficoltà, se non l’impossibilità,
di verificare le notizie che ci volteggiano intorno. In un articolo
uscito su Gigaom lo scorso
dicembre) Matthew Ingram elencava una serie di news (una
protesta anti-Google, un tweet di Paris Hilton, il battibecco fra un
autore di reality e una spettatrice...) che sono rimbalzate in rete
di sito in sito, prima di essere smascherate come bufale. Oggi,
concludeva, i media siamo tutti noi e abbiamo il dovere di pensarci
due volte prima di lanciare o rilanciare una notizia non verificata.
Come
dargli torto? Eppure questo meccanismo di filtro critico non sembra
ancora saldamente in mano alla moltitudine di neogiornalisti, pronti
ad avallare qualsiasi storia coincida con il rumore di fondo in cui
sono (siamo) immersi. Le sevizie su animali indifesi e i trapianti di
organi sono, per esempio, due degli ambiti in cui il confine tra
informazione accertata e leggenda metropolitana si fa particolarmente
labile. Ma in genere gli argomenti di «attualità», anche quando
sono terribilmente seri, si prestano – nel vorticare delle
informazioni su Internet – a essere banalizzati e soggetti a
distorsioni: ne è un caso il tema della violenza maschile sulle
donne, pratica purtroppo ancora molto radicata e diffusa, contro la
quale le campagne di sensibilizzazione in corso svolgono un compito
prezioso. E tuttavia potrebbe essere utile far notare, proprio per
mettere meglio in prospettiva il fenomeno, che le «ondate di
femminicidi» di cui parlano i media nuovi e vecchi sono in realtà
(per fortuna!) ovunque in calo e che l’omicidio di una donna per
mano di un uomo non è la prima causa di decessi femminili fra
i venti e i quarant’anni, come si sente ripetere spesso.
Inquadrare
un fatto all’interno di una moltitudine di altri avvenimenti, di
una cornice più ampia, è quello che fa, o dovrebbe fare, ancora
oggi il buon giornalismo. I tweet lanciati da una piazza in sommossa
raccontano, come non era mai stato fatto prima, l’avvenimento
dall’interno, ma non escludono, anzi esigono, che il mosaico si
completi raccogliendo altre voci, altri sguardi. Un saggio
recentissimo, uscito da poco online negli Usa nella rivista
«Journalism Practice», esplora un nuovo concetto che potrebbe
coniugare il tradizionale flusso informativo dall’alto verso il
basso e il «citizen journalism» orizzontale: si tratta di
quello che gli autori (Seth Lewis, Avery E. Holton e Mark Coddington)
definiscono il «giornalismo reciproco», basato su un rapporto di
scambio diretto, indiretto e continuativo con i lettori e con i
membri della comunità di riferimento. L’idea è ancora allo stato
embrionale, ma rappresenta un percorso interessante per uscire
rafforzati, giornalisti di professione e giornalisti «per caso»,
dalla rivoluzione che sta investendo le forme di comunicazione in
tutto il mondo.
Twitter @mtcarbone
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