Il 16 ottobre 1943 il tenente colonnello Herbert
Kappler, agli ordini del generale delle SS Karl Wolff, eseguì un rastrellamento
sistematico degli ebrei romani; nella rete caddero 1259 cittadini, 363
uomini, 689 donne, 207 bambini.
I
catturati furono trasferiti nel Collegio Militare lungo Via della Lungara,
sotto al Gianicolo; a pochi passi dal Vaticano. Trattenuti alcuni giorni,
vennero in seguito smistati presso campi di concentramento italiani (Fossoli,
presso Verona), quindi costretti alla discesa infernale (Auschwitz, Dachau, Mauthausen,
Ravensbrük), una catabasi senza ritorno.
Il 16
ottobre si è lentamente fatto strada nell'immaginario del dopoguerra; ora è un
simbolo, come il 24 marzo per le Ardeatine o il 4 giugno, anniversario della
liberazione di Roma.
Un'imposizione
dolce e postuma, simile a quella avvenuta per Bella ciao, un canto partigiano minore che, specie dopo
l'interpretazione di Yves Montand, cominciò a sostituire, nelle marce e nei
cori, Fischia il vento, il vero inno
della Resistenza, modellato sul tradizionale russo Katiuscia.
I
simboli sono necessari al ricordo; ancorano l'attenzione a fatti precisi;
vanno, tuttavia, dosati con cautela perché, quasi sempre, rischiano di
irrigidirsi nell'osservanza burocratica e lacrimosa, nei peana dei cantori
ufficiali. E questo è più di un rischio quando i sopravvissuti, i testimoni,
vengono a mancare e la storia orale, intessuta di sangue, è sostituita dai
rendiconti di chi, pur bene intenzionato, non riesce a ricreare la fluida
spontaneità della rievocazione.
In
realtà gli ebrei romani deportati furono oltre tremila.
Di
alcuni nessuno ne ha sentito parlare. Persino le opere più meritorie non li
contemplano. Di questi semisconosciuti ne conosco almeno un paio.
Ebrei
di Primavalle. O ebrei lì rifugiati.
Primavalle,
in tempo di guerra, non era certo un quartiere; e neanche una borgata. Era
suburbio, campagna romana in via di blanda urbanizzazione da parte del
Governatorato. Primavalle fu territorio del Patrimonio di San Pietro sin dai
tempi romani; poi il Duce pensò bene di costruirci casette minime e popolari in
cui stipare prima gli sfollati degli sventramenti di Borgo Pio, quindi alcuni
elementi indesiderabili: dissidenti, oppositori, senzatetto, la razzumaglia,
insomma, da tenere il più lontano possibile dal salotto centrale della città.
In
piena Primavalle, a Piazza San Zaccaria Papa, ancora resiste una lapide. Vi
sono incisi dodici nomi. Dodici nomi di dodici morti.
L'operaio
pugliese Cataldo D'Oria, ad esempio. Un recordman. Il primo condannato dal Tribunale
Speciale Fascista. Nel 1927, per insulti contro Mussolini. Gli appiopparono
solo nove mesi, ma la condanna bastò a rovinargli la vita. La storia di Cataldo
si può controllare presso l'Archivio di Stato, a via Galla Placidia, assieme a
quella di migliaia d'altri. Il suo incartamento è gonfio di annotazioni:
rapporti di polizia, rapporti di spie, rapporti dei datori di lavoro, rapporti
municipali. D'Oria se la passò male un decennio, poi fu deportato. Morì a Mauthausen
o a St. Aegid, nel 1945.
Altri
nomi: Tullio Serafini, morto l'8 settembre per la difesa di Roma, Francesco
Canofari, deportato che si spense a Ebensee, il partigiano Armando Rossi,
oppure i tre delle Ardeatine, Lallo Berardi, Giuseppe Lotti, Ambrogio Lunghi.
Tutti poveracci.
Poi
c'è la famiglia Coen.
I Coen
abitavano proprio a Piazza San Zaccaria Papa, al civico 9. Il padre Salomone,
la madre Elvira Di Nepi, e i quattro figli, Alvaro, Armando, Alberto e
Graziella.
Elvira
fu arrestata il 2 febbraio 1944, assieme ai figli Alberto e Alvaro, il più
piccolo, di otto anni.
Armando
il 20 marzo.
Graziella,
di quattordici anni, il 29 marzo.
Il
padre, Salomone, il 4 maggio.
Una
famiglia presa un poco alla volta, che cercava di scampare le persecuzioni
dandosi alla macchia, o rifugiandosi negli scantinati, o presso parenti.
Non
incontrarono mai tedeschi. Furono arrestati da italiani. Fascisti o forze
dell'ordine, non si sa.
Sulla
lapide sono incisi i nomi di Elvira, Armando e Alvaro.
Manca
Alberto. E il padre, Salomone. Quando la targa fu affissa, nel 1945, si
ignoravano ancora parecchi morti e parecchi avvenimenti. Per anni non si conobbe il
destino dei reduci, dei deportati, dei dispersi.
Manca
anche Graziella, giustamente. Lei venne liberata a Ravensbrück, unica
sopravvissuta della famiglia. Nel dopoguerra forse emigrò in Sudafrica.
Sulla
lapide è riportato, però, un altro nome; quello di Pacifico Coen.
Nessuno
sa chi sia. Libri, atti, resoconti d'epoca e brogliacci carcerari tacciono. Chi
è Pacifico Coen? Un figlio mai registrato all'anagrafe, un neonato, un parente
di fuori?
Non
un'invenzione di chi incise il nome. Il CLRN si basava su testimonianze del
posto, affidabili.
Pacifico
Coen è un fantasma, l'ultimo degli ultimi, un ebreo che non apparirà mai nelle
celebrazioni; sicuramente non in quelle del 16 ottobre.
[Cambiamo
registro, per un attimo.
Negli
anni Settanta circolavano belle leggende – o belle verità - sugli ebrei
nascosti a Primavalle: nelle cantine dei lotti ce n'erano cinque, no dieci,
anzi erano quindici e più. Decine. I preti e i comunisti ne nascondevano altre
decine. E i nove di Angelo Colucci? Quella pecora nera antifascista li aveva
messi nel pozzo di casa, a via dell'Assunzione, insieme a un paracadutista
francese evaso dall'ospedale militare.
Immagini
non ufficiali queste, sfocate, ma gioiose come un quadro dell'ebreo Marc
Chagall in cui le persone si alleggeriscono dal carico umano e volano, le mogli
sollevano i mariti, e galline e violinisti sono colorati come disegni a pastello
fatti a scuola. Perché tali ricordi, passati di bocca in bocca, sono quasi
sempre allegri, e come ingigantiti dalle fantasie d'un bambino a cui si
racconta una favola che va a finire bene. Eventi persi nel tempo a cui nessun
nastro di stato donerà la dignità di storia, ma che possiedono, in virtù della
loro stessa vaghezza, la capacità di tramandare un'epopea parallela,
incontrollabile ovviamente, ma assolutamente vitale].
A
poche centinaia di metri da S. Zaccaria c'è il Collegino. C'era anche nel 1944.
Fondato da Don Calabria negli anni Trenta, si chiamava Casa dei Buoni
Fanciulli; ospitava ragazzetti che volevano imparare un mestiere, orfani,
poveri; e rifugiati.
Come
l'ebreo Claudio Amati.
Claudio
visse assieme ai compagni cristiani per mesi. A quell'età, quattordici anni o
giù di lì, non si fanno domande. Perché non interessano.
Il
cinque giugno, il giorno successivo alla Liberazione di Roma, l'esercito
tedesco stava ritirandosi lungo le vie periferiche di Primavalle. Claudio e gli
altri videro apparire, come eroi mitici, i soldati americani. Ne videro due,
altissimi, col fucile in spalla, mentre si avvicinavano al collegio. Una
raffica di mitraglia, inaspettata, ruppe il silenzio immobile del mattino. Uno
dei due si accartocciò su se stesso, l'altro trovò rifugio dietro un pozzo. Un
episodio di nessuna importanza. Una scaramuccia. La retroguardia tedesca
sparava da una collinetta prospiciente e copriva la ritirata. Gli americani si
asserragliarono nel collegio. I cingolati avanzavano.
Claudio
e gli altri vennero fatti sgomberare per timore di crolli. Di solito si
rifugiavano in una buca del terreno, che i muratori avevano scavato per la
calce. Col tempo quella buca era diventata una piccola patria: in una parete i
ragazzini avevano scavato una bassa galleria in cui potevano rannicchiarsi
durante gli allarmi aerei. Un rifugio caldo e che conoscevano alla perfezione.
Sicuro. Quel giorno, però, la mitragliatrice riprese a far fuoco. Un gruppetto
si nascose nella buca, altri furono costretti a ripiegare in una baracchetta
vicina.
Una granata, quasi sicuramente tedesca, la
colpì in pieno.
“ … da
quella montagna di polvere e calcinacci scagliati per ogni dove, sbucarono
Pierino, Italo e l’uomo addetto alla stalla che s’era trovato con loro. Italo
quando fu al riparo cadde svenuto: perdeva sangue dal fianco sinistro. Poco
dopo era nelle mani della Croce Rossa americana. Pierino gridava, ma non
riusciva a parlare … solo indicava là, quella baracca. Corse fratel Berto,
trovò la porta impedita, fece forza: dietro c’era il corpo riverso di un
ragazzo che rantolava tra i calcinacci bagnati di sangue.
Claudio!” (1)
Di Claudio Amati rimane una foto e un cenno in
un registro detenuto dall’Archivio Capitolino, a Piazza della Chiesa Nuova.
Registro a cui non si ha accesso. Mi dissero, quando avevo voglia di saperne di
più su questi fatti, che era nato nell’aprile del 1930. E basta. “È anche troppo” flautò una responsabile,
dall’aria di cospiratrice, scesa apposta dalle superne stanze a illuminare il
dilettante. Evidentemente a quel registro non hanno accesso neanche gli
studiosi, o forse hanno perso la voglia di accedervi, dato che il nome di Claudio
Amati rimane in un limbo nebbioso ancor oggi.
Da Primavalle i
tedeschi continuarono la ritirata attraverso il confine, tra il Lazio e
l'Umbria. Gli alti ufficiali in testa, vicini alle furerie, poi il grosso delle
truppe, quindi le retroguardie, infine gli elementi più sbandati, i soldati
senza reparto, i brandelli di compagnie e battaglioni scomparsi, lacerti d’un
armata in rotta. Circondata dall'esasperazione crescente, soggetta agli agguati
e alle vendette di partigiani ed ex militari e alle azioni di guerriglia degli
infiltrati alleati oltre le linee.
Persino
in quella zona a bassa resistenza di tedeschi ne morivano a mucchi di quattro, cinque, otto.
Venivano
seppelliti alla svelta e i tumuli di terra risaltavano nella campagna di
primavera. Toponimi millenari atti a ricordare la terra si trasformavano in
sacrari improvvisati, Monte Secco, la Spianata, la Piantata, le Piagge. Le
croci venivano tolte subito. Poi il cumulo si appiattiva sempre più, mentre i
corpi si restituivano alla terra; le piogge primaverili e le canicole erodevano
veloci i contorni. In pochi mesi residuava, unico, il ricordo: qui ne hanno
interrati cinque, sei, otto - dicevano - ma era un rimembrare sempre più slabbrato: i
testimoni morivano, le generazioni successive si inoltravano nella normalità
soddisfatta della pace.
Due
crucchi sbandati li beccarono su un viottolo di campagna che non risulta
neanche dalle carte più accurate e che oggi non esiste più. Un reparto della Wehrmacht
in arrivo costrinse i partigiani (provenienti dall’esercito) e i contadini a
nascondere nella scuola elementare locale i corpi dei tedeschi. Li spogliarono
di quasi tutto perché tutto tornava utile. Quando stavano sfilando gli stivali,
preziosissimi, si accorsero che uno d'essi era ancora vivo, seppur prossimo
alla fine. Con terrore, gli videro aprire un occhio, appena appena. Nel
silenzio il tedesco ricercava le ultime forze, ma non per maledire, solo per farsi
capire. Persino dai propri giustizieri; e cercava di sussurrare l'unica verità
possibile (la morte è orribile); perché noi tutti, arrivati al termine del cammino,
sentiamo d’essere tutti uguali e, allora, ci sembra immensamente stupida la doratura della
vita (odio, onore, orgoglio) a cui avevamo affidato sogni e moralità; e ci
sentiamo talmente soli, nella morte, da desiderare per un attimo la compagnia
di chiunque, anche dei nostri nemici; ed è in quei momenti fatali che si
invidia, a mezzo fra la nostalgia e la comprensione immediata e divina, libera
finalmente dalle ideologie, l'unico bene che davvero conti, la vita. Per questo
ci si aggrappa a quelli che restano, come se potessero donarcene ancora un po'.
Il tedesco mormorò tre parole: "Ich
... Italia ... kaputt". Le ultime.
Queste
cose mi sono state raccontate da italiani che, come i sentieri di campagna, non
esistono più, persone impossibili da mettere in dubbio e, ormai, da mettere al
mondo - uomini dai nomi inconsueti: Alvaro, Decimo, Vladimiro; o nomi da
capitani di ventura: Giusto, Falco.
Queste
sono storie come mille altre del tempo di guerra, ma amo tenerle in vita.
Non
voglio che si spengano con me. Mai come nel ricordo la parola mantiene in vita
chi non può opporsi, ormai, alla dimenticanza. La dimenticanza è una seconda
morte, la più crudele.
Se poi
qualcuno non riuscirà a capacitarsi di come, in un giorno come questo, possano
mettersi insieme ebrei sconosciuti pure agli ebrei, tedeschi e poveracci del
suburbio, vorrà dire che non ha compreso il senso delle ultime righe.
Questa,
comunque, è la mia celebrazione del 16 ottobre.
(1) Domenico Pacilli, La
liberazione. Ricordi nostri, 1965
Da leggere:
Tra i saggi raccolti nel suo recente Storie orali (Donzelli 2013) Alessandro Portelli ne dedica uno al 16 ottobre 1943: la razzia del ghetto di Roma attraverso la storia orale e le testimonianze dei perseguitati. Altri titoli in un sentiero di lettura pubblicato nel 2004 sull'"Unità". Da Plautilla è in visione un volume, 16.10.43. Li hanno portati via, che ricostruisce le vicende di tutti i bambini vittime del rastrellamento.
Da leggere:
Tra i saggi raccolti nel suo recente Storie orali (Donzelli 2013) Alessandro Portelli ne dedica uno al 16 ottobre 1943: la razzia del ghetto di Roma attraverso la storia orale e le testimonianze dei perseguitati. Altri titoli in un sentiero di lettura pubblicato nel 2004 sull'"Unità". Da Plautilla è in visione un volume, 16.10.43. Li hanno portati via, che ricostruisce le vicende di tutti i bambini vittime del rastrellamento.
Claudio Amati |
Marc Chagall |
Il disprezzo per le 'dorature' della vita, l'amore per la vita, l'uguaglianza nella morte, la pace ai morti. Parole nobili tra rabbie artificiose, mosse da facebook. Giacomo Debenedetti nel ricordare in modo severo quelle tragedie belliche ("16 Ottobre 1943", Editori Riuniti) pareva ispirarsi alla "Storia della Colonna infame", alla "Peste di Londra" di Defoe...
RispondiEliminaBellissimo omaggio, come sempre parole azzeccate e penetranti. Grazie
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