giovedì 2 gennaio 2014

"Quanto fu simile all'inverno la mia assenza da te ...". Due sonetti di William Shakespeare. E il pianto di Leopardi per Torquato Tasso.

Caspar David Friedrich,
Viandante sul mare di nebbia
G. Luca Chiovelli

La mancanza della persona amata fu celebrata dai maggiori poeti. Dal sommo Jaufre Rudel, ad esempio, la cui vita, più che la propria opera, esigua, sono l’idea platonica della lirica dell’assenza.
Il poeta provenzale fu glorificatore dell'amor di lontano: in esso l’ostacolo insormontabile o la distanza che si frappone fra i due amanti son visti, allo stesso tempo, come dannazione e occasione di sfogo lirico. Giusto. Gli amori impossibili sono i più dolci.
Anche William Shakespeare compose sonetti sull’assenza. Ne presentiamo due. Il loro destinatario non è una donna, una lontana Melisenda da Tripoli, ma un giovinetto: probabilmente il Conte di Southampton (Henry Wriothesley, III; il famigerato ‘fair youth’).
Sono quindi, due composizioni a sfondo omoerotico, come se ne ritrovano, copiosamente, nell'Antologia Palatina. A differenza di quelle, però, che son solari, birbanti, chiare, definite, i lavori del bardo sono gravati da un concettismo che, se urta al primo approccio, amplifica, invece, enormemente il piacere della lettura ulteriore.
La poesia di Shakespeare, come tutta l’arte simbolica, ricrea continuamente sé stessa.
Per questo è immortale.
Il sonetto 97 è uno dei più belli della raccolta. Uno dei più belli di sempre.


Solo chi ha vissuto la separazione può intenderlo nella sua pienezza.
La separazione e la lontananza; o la morte, che è lontananza assoluta e irrimediabile; o l'amore non corrisposto, che relega nella distanza della solitudine: una lettera che non arriva, una porta che si apre e non introduce il viso amato, una breve parola sgradita, o un impercettibile gesto che tradisce l'indifferenza.
Un sentimento disperato, totale, assoluto, che Shakespeare coglie a pieno: una cholera nigra (per dirla alla Cavalcanti), un umor nero, atrabiliare, che trascolora i paesaggi, i visi, le gioie più vitali nel proprio opposto: la vivida felicità si scambia nella desolazione, il variopinto nel grigiore, le scintillanti fontane in laghi di duro cristallo, lo sfarzo nella povertà, il rosso, simbolo della vita e del sangue pulsante,  nell'apatia accecante del bianco, non colore della devastazione uniforme, dell'impotenza, della morte.

Sonetto 97 (Trad. di Giovanni Anchiseo)

Il sonetto si regge su una metafora semplice: l’assenza del giovane equivale all’inverno; la sua presenza all’estate.
Tali metafore, apparentemente facili, sono complicate dalla temporalità fisica: l'assenza che fa soffrire il poeta è avvenuta, forse, durante un viaggio, in un periodo tra la fine dell'estate e l'inizio dell'autunno.
Metafora psicologica e mutazioni delle stagioni si intrecciano lungo i quattordici versi: densissimi.
Ecco i primi otto versi: senza te, nonostante fosse estate, ho patito i rigori dell'inverno nella mia anima: la mia vita era fatta vile e nuda, come nell’aspro dicembre.
Era quel tempo dell'anno in cui l'autunno sta per cogliere il pingue frutto maturato dall'estate, ma seminato durante la primavera lasciva, epoca degli amori e della semina: e ora tale parto di frutti avverrà quando il genitore (la primavera) è morto, come quando la dipartita dello sposo lascia vedovo il grembo pregno della moglie, prossima al parto.

Quanto fu simile all'inverno la mia assenza
Da te, gioia del fuggevole anno!
Quali gelidi tremori ho patito, quali giorni oscuri
Ovunque era la nudità del dicembre antico!
Eppur quell'assenza era tempo d'estate
Quando l'autunno vicino, grave di pingue frutto,
Reca il lascivo fardello della primavera,
Quale grembo vedovo della morte dello sposo

Gli ultimi sei versi: quella figliolanza avrebbe dovuto recarmi gioia; invece la guardo come si osserva un frutto privato del padre, orfano: come il raccolto è orfano del genitore, la primavera, io sono orfano della tua presenza. Senza te la stagione, quella estiva (un’estate che volge all’autunno), pur esuberante, sembra morta come l'inverno; e muto è il canto degli uccelli, oppure, se c'è, non è mai gioioso, e reca il presagio pauroso del verno imminente.

Ma quella ricca figliolanza m'appariva
Quale promessa d'orfani, d'un frutto senza padre
Poiché l'estate e le sue delizie a te fan scorta
E, te lontano, persino gli uccelli sono muti.
O, se cantano, il suono è così funesto
Che le foglie ingiallano, temendo il vicino inverno (1)

Il secondo sonetto è di intesa più piana: il poeta non riesce a godere delle delizie della primavera; senza il suo amato anche le manifestazioni più rutilanti della natura, quando anche il plumbeo Saturno pare danzare, volgono nel loro contrario, nella fissità gelida e catatonica dell'inverno.
La bellezza della primavera rispecchia la bellezza dell’amato e della sua presenza; senza di lui, la gioia della stagione è un'ombra e il poeta si riduce, perciò, a giocare e godere di ombre.
Da sottolineare la dicotomia cromatica rosso- bianco, fondamentale nella letteratura di derivazione anglosassone, già messa in evidenza nei due post Bianco è ilcolore del terrore.

Sonetto 98 (trad. di Alessandro Serpieri)

Anche in primavera fui da te lontano
quando il leggiadro Aprile, tutto vestito a festa,
suscitava in ogni cosa un tale brio di gioventù
che rideva anche Saturno e con lui danzava.
Ma, né i canti degli uccelli, né il profumo dolce
dei differenti fiori sia in fragranza che colore,
potevano indurmi a pensare una gioiosa storia
o a coglierli dal grembo ove floridi crescevano:
e neppur mi affascinava il candor dei gigli
né potei apprezzare il rosso acceso delle rose;
non eran che profumi e deliziose forme
raffiguranti te, tu lor unico modello.
Ma per me era sempre inverno e lontan da te,
mi dilettai con loro come con l’ombra tua (2)

L'equivalenza metaforica lontananza/inverno era già presente in un componimento di Torquato Tasso. Il poeta paragona la donna amata (una dama della corte estense, a Ferrara, Lucrezia Bendidio) al sole, pianeta perfetto ed eterno: allontanandosi dal sole e dal calore dell'amore, Tasso precipita perciò nei rigori della lontananza, della morte dell'anima.
La composizione risale al 1561-62, quasi quarant'anni prima dei sonetti dell'inglese.
Torquato Tasso è sepolto presso Sant'Onofrio al Gianicolo: morì, infatti, a Roma, nell'aprile del 1595, a 51 anni; a Roma ebbe qualche breve risarcimento d'una vita attraversata da delusioni micidiali.
Giacomo Leopardi lo elesse a proprio fratello spirituale; la visita di Giacomo Leopardi alla tomba del Gianicolo fu la sola cosa che il recanatese gradì del suo soggiorno nella città eterna.
Ecco  il resoconto commosso in una lettera al fratello Carlo, 20 Febbraio 1823:
"Venerdì 15 febbraio 1823 fui a visitare il sepolcro del Tasso e ci piansi. Questo è il primo e l'unico piacere che ho provato in Roma. La strada per andarvi è lunga, e non si va a quel luogo se non per vedere questo sepolcro;- ma non si potrebbe anche venire dall'America per gustare il piacere delle lagrime lo spazio di due minuti? E' pur certissimo che le immense spese che qui vedo fare non per altro che per proccurarsi uno o un altro piacere, sono tutte quante gettate all'aria, perché in luogo del piacere non s'ottiene altro che noia. Molti provano un sentimento d'indignazione vedendo il cenere del Tasso, coperto e indicato non da altro che da una pietra larga e lunga circa un palmo e mezzo, e posta in un cantoncino d'una chiesuccia. Io non vorrei in nessun modo trovar questo cenere sotto un mausoleo. Tu comprendi la gran folla di affetti che nasce dal considerare il contrasto fra la grandezza del Tasso e l'umiltà della sua sepoltura.
Ma tu non puoi avere idea d'un altro contrasto cioè di quello che prova un occhio avvezzo all'infinita magnificenza e vastità de' monumenti romani, paragonandoli alla piccolezza e nudità di questo sepolcro. Si sente una trista e fremebonda consolazione pensando che questa povertà è sufficiente ad interessar e animar la posterità, laddove i superbissimi mausolei, che Roma racchiude, si osservano con perfetta indifferenza per la persona a cui furono innalzati, della quale o non si domanda neppur il nome, o si domanda non come nome della persona ma del monumento. Vicino al sepolcro del Tasso è quello del poeta Guidi, che volle giacere prope magnos Torquati cineres, come dice l'iscrizione. Fece molto male. Non mi restò per lui nemmeno un sospiro. Appena soffrii di guardare il suo monumento temendo di soffocare le sensazioni che avevo provate alla tomba del Tasso.
Anche la strada che conduce a quel luogo prepara lo spirito alle impressioni del sentimento. E' tutta costeggiata di case destinate alle manifatture, e risuona dello strepito de' telai e d'altri tali istrumenti, e del canto delle donne e degli operai occupati al lavoro. In una città oziosa, dissipata, senza metodo, come sono le capitali, è pur bello il considerare l'immagine della vita raccolta, ordinata e occupata in professioni utili. Anche le fisionomie e le maniere della gente che s'incontra per quella via, hanno un non so che di più semplice e di più umano che quelle degli altri; e dimostrano i costumi e il carattere di persone, la cui vita si fonda sul vero e non sul falso, cioè che vivono di travaglio e non d'intrigo, d'impostura e d'inganno, come la massima parte di questa popolazione. Lo spazio mi manca: t'abbraccio. Addio addio".
Ed ecco la poesia del Tasso:


Or che lunge da me si gira il sole
e la sua lontananza a me fa verno,
lontan da voi, che del pianeta eterno
imagin sete, questo cor si dole
in tenebre vivendo oscure e sole;
e non si leva mai né si nasconde
sí mesto il sol ne l’onde,
che non sia cinto di piú fosco orrore
l’infelice mio core;
né sí perpetui rivi han gli alti monti
come i duo caldi e lacrimosi fonti.
Fonti profondi son d’amare vene
quelli ond’io porto sparso il seno e ’l volto,
è ’nfinito il dolor che dentro accolto
si sparge in caldo pianto e si mantene,
né scema una giammai di tante pene
perch’il mio core in dolorose stille
le versi a mille a mille;
ma, s’io piango e mi dolgo, ei piú m’invoglia
di lacrime e di doglia:
onde l’amor gradito esser dovrebbe,
che senza fin, come il dolor, s’accrebbe.
E s’alcun di mercede o di pietate
obligo mai vi stringe, esser non deve
circoscritto da fine angusto e breve:
perch’è ragion che sí pietosa abbiate,
com’io dolente, L’alma e no’l celiate.
Felice il mio dolor se ’l duro affetto
sí v’ammollisse il petto,
ch’a me voi ne mandaste i messaggieri
d’amor, dolci pensieri!
Ma per continua prova ei non vi spetra
ché sete quasi dura e fredda pietra.
Né pur due lagrimette ancor de’ lumi,
crudel’ vi trassi; e, s’al partir mostraste
doglia o pietà d’opre gentili o caste
quest’è fera cagion ch’io mi consumi
e mi distempri in lagrimosi fiumi.
Forse talor, di me fra voi pensando,
dite: «Ei si strugge amando;
ma non fia ch’ei mi piaccia o tanto
o quanto per amore o per pianto;
e vana speme l’error suo lusinga
qual d’ uom che l’ombre in sogno abbracci e stringa».
Ma siate pur crudel quanto a voi piace,
ché, s’al candido petto io mai non toglio
tutto il freddo rigore e l’aspro orgoglio,
né voi torrete a me quel che mi sface
mortal dolore o quell’amor vivace;
né mi torrete mai che bella e viva
non vi formi e descriva,
per voi dolce stimando ogni mia sorte
e dolce ancor la morte,
s’avverrà mai che per voi bella e cruda
Amor quest’occhi lacrimando chiuda.
Vanne, mesta canzone,
ov’è lieta madonna; e, s’ella gira
i begli occhi senz’ira,
dille che l’amor mio sempre s’avanza,
nudrito di memoria e di speranza.

(1)
How like a winter hath my absence been
From thee, the pleasure of the fleeting year!
What freezings have I felt, what dark days seen!
What old December's bareness every where!
And yet this time removed was summer's time
The teeming autumn, big with rich increase,
Bearing the wanton burden of the prime,
Like widow'd wombs after their lords' decease:
Yet this abundant issue seem'd to me
But hope of orphans and unfather'd fruit;
For summer and his pleasures wait on thee,
And, thou away, the very birds are mute:
Or, if they sing, 'tis with so dull a cheer,
That leaves look pale, dreading the winter's near.

(2)
From you have I been absent in the spring,
When proud pied April, dressed in all his trim,
Hath put a spirit of youth in every thing,
That heavy Saturn laughed and leapt with him.
Yet nor the lays of birds, nor the sweet smell
Of different flowers in odour and in hue,
Could make me any summer’s story tell,
Or from their proud lap pluck them where they grew:
Nor did I wonder at the lily’s white,
Nor praise the deep vermilion in the rose;
They were but sweet, but figures of delight,
Drawn after you, you pattern of all those.
Yet seemed it winter still, and you away,
As with your shadow I with these did play.

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