Caspar David Friedrich, Viandante sul mare di nebbia |
G. Luca Chiovelli
La mancanza della persona amata fu celebrata dai maggiori poeti. Dal sommo Jaufre Rudel, ad esempio, la cui vita, più che la propria opera, esigua, sono l’idea platonica della lirica dell’assenza.
La mancanza della persona amata fu celebrata dai maggiori poeti. Dal sommo Jaufre Rudel, ad esempio, la cui vita, più che la propria opera, esigua, sono l’idea platonica della lirica dell’assenza.
Il
poeta provenzale fu glorificatore dell'amor di lontano: in esso l’ostacolo insormontabile
o la distanza che si frappone fra i due amanti son visti, allo stesso tempo,
come dannazione e occasione di sfogo lirico. Giusto. Gli amori impossibili sono
i più dolci.
Anche
William Shakespeare compose sonetti sull’assenza. Ne presentiamo due. Il loro
destinatario non è una donna, una lontana Melisenda da Tripoli, ma un
giovinetto: probabilmente il Conte di Southampton (Henry Wriothesley, III; il
famigerato ‘fair youth’).
Sono
quindi, due composizioni a sfondo omoerotico, come se ne ritrovano,
copiosamente, nell'Antologia Palatina. A differenza di quelle, però, che son solari,
birbanti, chiare, definite, i lavori del bardo sono gravati da un concettismo
che, se urta al primo approccio, amplifica, invece, enormemente il piacere della
lettura ulteriore.
La
poesia di Shakespeare, come tutta l’arte simbolica, ricrea continuamente sé
stessa.
Per
questo è immortale.
Il
sonetto 97 è uno dei più belli della raccolta. Uno dei più belli di sempre.
Solo
chi ha vissuto la separazione può intenderlo nella sua pienezza.
La
separazione e la lontananza; o la morte, che è lontananza assoluta e irrimediabile;
o l'amore non corrisposto, che relega nella distanza della solitudine: una lettera
che non arriva, una porta che si apre e non introduce il viso amato, una breve
parola sgradita, o un impercettibile gesto che tradisce l'indifferenza.
Un
sentimento disperato, totale, assoluto, che Shakespeare coglie a pieno: una
cholera nigra (per dirla alla Cavalcanti), un umor nero, atrabiliare, che
trascolora i paesaggi, i visi, le gioie più vitali nel proprio opposto: la vivida
felicità si scambia nella desolazione, il variopinto nel grigiore, le
scintillanti fontane in laghi di duro cristallo, lo sfarzo nella povertà, il
rosso, simbolo della vita e del sangue pulsante, nell'apatia accecante del bianco, non colore
della devastazione uniforme, dell'impotenza, della morte.
Sonetto
97 (Trad. di Giovanni Anchiseo)
Il
sonetto si regge su una metafora semplice: l’assenza del giovane equivale all’inverno;
la sua presenza all’estate.
Tali
metafore, apparentemente facili, sono complicate dalla temporalità fisica:
l'assenza che fa soffrire il poeta è avvenuta, forse, durante un viaggio, in un
periodo tra la fine dell'estate e l'inizio dell'autunno.
Metafora
psicologica e mutazioni delle stagioni si intrecciano lungo i quattordici
versi: densissimi.
Ecco
i primi otto versi: senza te, nonostante fosse estate, ho patito i rigori
dell'inverno nella mia anima: la mia vita era fatta vile e nuda, come nell’aspro
dicembre.
Era
quel tempo dell'anno in cui l'autunno sta per cogliere il pingue frutto maturato
dall'estate, ma seminato durante la primavera lasciva, epoca degli amori e
della semina: e ora tale parto di frutti avverrà quando il genitore (la
primavera) è morto, come quando la dipartita dello sposo lascia vedovo il
grembo pregno della moglie, prossima al parto.
Quanto fu simile all'inverno
la mia assenza
Da te, gioia del
fuggevole anno!
Quali gelidi tremori ho
patito, quali giorni oscuri
Ovunque era la nudità
del dicembre antico!
Eppur quell'assenza era
tempo d'estate
Quando l'autunno vicino,
grave di pingue frutto,
Reca il lascivo fardello
della primavera,
Quale grembo vedovo
della morte dello sposo
Gli
ultimi sei versi: quella figliolanza avrebbe dovuto recarmi gioia; invece la
guardo come si osserva un frutto privato del padre, orfano: come il raccolto è
orfano del genitore, la primavera, io sono orfano della tua presenza. Senza te
la stagione, quella estiva (un’estate che volge all’autunno), pur esuberante,
sembra morta come l'inverno; e muto è il canto degli uccelli, oppure, se c'è,
non è mai gioioso, e reca il presagio pauroso del verno imminente.
Ma quella ricca
figliolanza m'appariva
Quale promessa d'orfani,
d'un frutto senza padre
Poiché l'estate e le sue
delizie a te fan scorta
E, te lontano, persino
gli uccelli sono muti.
O, se cantano, il suono è
così funesto
Che le foglie
ingiallano, temendo il vicino inverno (1)
Il
secondo sonetto è di intesa più piana: il poeta non riesce a godere delle
delizie della primavera; senza il suo amato anche le manifestazioni più
rutilanti della natura, quando anche il plumbeo Saturno pare danzare, volgono
nel loro contrario, nella fissità gelida e catatonica dell'inverno.
La
bellezza della primavera rispecchia la bellezza dell’amato e della sua
presenza; senza di lui, la gioia della stagione è un'ombra e il poeta si riduce,
perciò, a giocare e godere di ombre.
Da
sottolineare la dicotomia cromatica rosso- bianco, fondamentale nella letteratura
di derivazione anglosassone, già messa in evidenza nei due post Bianco è ilcolore del terrore.
Sonetto
98 (trad. di Alessandro Serpieri)
Anche in primavera fui
da te lontano
quando il leggiadro
Aprile, tutto vestito a festa,
suscitava in ogni cosa
un tale brio di gioventù
che rideva anche Saturno
e con lui danzava.
Ma, né i canti degli
uccelli, né il profumo dolce
dei differenti fiori sia
in fragranza che colore,
potevano indurmi a pensare
una gioiosa storia
o a coglierli dal grembo
ove floridi crescevano:
e neppur mi affascinava
il candor dei gigli
né potei apprezzare il
rosso acceso delle rose;
non eran che profumi e
deliziose forme
raffiguranti te, tu lor
unico modello.
Ma per me era sempre
inverno e lontan da te,
mi dilettai con loro
come con l’ombra tua (2)
L'equivalenza
metaforica lontananza/inverno era già presente in un componimento di Torquato
Tasso. Il poeta paragona la donna amata (una dama della corte estense, a
Ferrara, Lucrezia Bendidio) al sole, pianeta perfetto ed eterno: allontanandosi
dal sole e dal calore dell'amore, Tasso precipita perciò nei rigori della
lontananza, della morte dell'anima.
La
composizione risale al 1561-62, quasi quarant'anni prima dei sonetti
dell'inglese.
Torquato
Tasso è sepolto presso Sant'Onofrio al Gianicolo: morì, infatti, a Roma,
nell'aprile del 1595, a 51 anni; a Roma ebbe qualche breve risarcimento d'una
vita attraversata da delusioni micidiali.
Giacomo
Leopardi lo elesse a proprio fratello spirituale; la visita di Giacomo Leopardi
alla tomba del Gianicolo fu la sola cosa che il recanatese gradì del suo
soggiorno nella città eterna.
Ecco il resoconto commosso in una lettera al
fratello Carlo, 20 Febbraio 1823:
"Venerdì
15 febbraio 1823 fui a visitare il sepolcro del Tasso e ci piansi. Questo è il
primo e l'unico piacere che ho provato in Roma. La strada per andarvi è lunga,
e non si va a quel luogo se non per vedere questo sepolcro;- ma non si potrebbe
anche venire dall'America per gustare il piacere delle lagrime lo spazio di due
minuti? E' pur certissimo che le immense spese che qui vedo fare non per altro
che per proccurarsi uno o un altro piacere, sono tutte quante gettate all'aria,
perché in luogo del piacere non s'ottiene altro che noia. Molti provano un
sentimento d'indignazione vedendo il cenere del Tasso, coperto e indicato non
da altro che da una pietra larga e lunga circa un palmo e mezzo, e posta in un
cantoncino d'una chiesuccia. Io non vorrei in nessun modo trovar questo cenere
sotto un mausoleo. Tu comprendi la gran folla di affetti che nasce dal
considerare il contrasto fra la grandezza del Tasso e l'umiltà della sua
sepoltura.
Ma
tu non puoi avere idea d'un altro contrasto cioè di quello che prova un occhio
avvezzo all'infinita magnificenza e vastità de' monumenti romani, paragonandoli
alla piccolezza e nudità di questo sepolcro. Si sente una trista e fremebonda
consolazione pensando che questa povertà è sufficiente ad interessar e animar
la posterità, laddove i superbissimi mausolei, che Roma racchiude, si osservano
con perfetta indifferenza per la persona a cui furono innalzati, della quale o
non si domanda neppur il nome, o si domanda non come nome della persona ma del
monumento. Vicino al sepolcro del Tasso è quello del poeta Guidi, che volle
giacere prope magnos Torquati cineres, come dice l'iscrizione. Fece molto male.
Non mi restò per lui nemmeno un sospiro. Appena soffrii di guardare il suo
monumento temendo di soffocare le sensazioni che avevo provate alla tomba del
Tasso.
Anche
la strada che conduce a quel luogo prepara lo spirito alle impressioni del
sentimento. E' tutta costeggiata di case destinate alle manifatture, e risuona
dello strepito de' telai e d'altri tali istrumenti, e del canto delle donne e
degli operai occupati al lavoro. In una città oziosa, dissipata, senza metodo,
come sono le capitali, è pur bello il considerare l'immagine della vita
raccolta, ordinata e occupata in professioni utili. Anche le fisionomie e le
maniere della gente che s'incontra per quella via, hanno un non so che di più
semplice e di più umano che quelle degli altri; e dimostrano i costumi e il
carattere di persone, la cui vita si fonda sul vero e non sul falso, cioè che
vivono di travaglio e non d'intrigo, d'impostura e d'inganno, come la massima
parte di questa popolazione. Lo spazio mi manca: t'abbraccio. Addio
addio".
Ed
ecco la poesia del Tasso:
Or che lunge da me si
gira il sole
e la sua lontananza a me
fa verno,
lontan da voi, che del
pianeta eterno
imagin sete, questo cor
si dole
in tenebre vivendo
oscure e sole;
e non si leva mai né si
nasconde
sí mesto il sol ne
l’onde,
che non sia cinto di piú
fosco orrore
l’infelice mio core;
né sí perpetui rivi han
gli alti monti
come i duo caldi e
lacrimosi fonti.
Fonti profondi son
d’amare vene
quelli ond’io porto
sparso il seno e ’l volto,
è ’nfinito il dolor che
dentro accolto
si sparge in caldo
pianto e si mantene,
né scema una giammai di
tante pene
perch’il mio core in
dolorose stille
le versi a mille a mille;
ma, s’io piango e mi
dolgo, ei piú m’invoglia
di lacrime e di doglia:
onde l’amor gradito
esser dovrebbe,
che senza fin, come il
dolor, s’accrebbe.
E s’alcun di mercede o
di pietate
obligo mai vi stringe,
esser non deve
circoscritto da fine
angusto e breve:
perch’è ragion che sí
pietosa abbiate,
com’io dolente, L’alma e
no’l celiate.
Felice il mio dolor se
’l duro affetto
sí v’ammollisse il
petto,
ch’a me voi ne mandaste
i messaggieri
d’amor, dolci pensieri!
Ma per continua prova ei
non vi spetra
ché sete quasi dura e
fredda pietra.
Né pur due lagrimette
ancor de’ lumi,
crudel’ vi trassi; e,
s’al partir mostraste
doglia o pietà d’opre
gentili o caste
quest’è fera cagion
ch’io mi consumi
e mi distempri in
lagrimosi fiumi.
Forse talor, di me fra
voi pensando,
dite: «Ei si strugge
amando;
ma non fia ch’ei mi
piaccia o tanto
o quanto per amore o per
pianto;
e vana speme l’error suo
lusinga
qual d’ uom che l’ombre
in sogno abbracci e stringa».
Ma siate pur crudel
quanto a voi piace,
ché, s’al candido petto
io mai non toglio
tutto il freddo rigore e
l’aspro orgoglio,
né voi torrete a me quel
che mi sface
mortal dolore o
quell’amor vivace;
né mi torrete mai che
bella e viva
non vi formi e descriva,
per voi dolce stimando
ogni mia sorte
e dolce ancor la morte,
s’avverrà mai che per
voi bella e cruda
Amor quest’occhi
lacrimando chiuda.
Vanne, mesta canzone,
ov’è lieta madonna; e,
s’ella gira
i begli occhi senz’ira,
dille che l’amor mio
sempre s’avanza,
nudrito di memoria e di
speranza.
(1)
How like a winter hath my absence
been
From thee, the pleasure of the
fleeting year!
What freezings have I felt, what dark
days seen!
What old December's bareness every
where!
And yet this time removed was
summer's time
The teeming autumn, big with rich
increase,
Bearing the wanton burden of the
prime,
Like widow'd wombs after their
lords' decease:
Yet this abundant issue seem'd to me
But hope of orphans and unfather'd
fruit;
For summer and his pleasures wait on
thee,
And, thou away, the very birds are
mute:
Or, if they sing, 'tis with so dull
a cheer,
That leaves look pale, dreading the
winter's near.
(2)
From you have I been absent in the
spring,
When proud pied April, dressed in
all his trim,
Hath put a spirit of youth in every
thing,
That heavy Saturn laughed and leapt
with him.
Yet nor the lays of birds, nor the
sweet smell
Of different flowers in odour and in
hue,
Could make me any summer’s story
tell,
Or from their proud lap pluck them
where they grew:
Nor did I wonder at the lily’s
white,
Nor praise the deep vermilion in the
rose;
They were but sweet, but figures of
delight,
Drawn after you, you pattern of all
those.
Yet seemed it winter still, and you
away,
As with your shadow I with these did
play.
Nessun commento:
Posta un commento