venerdì 29 novembre 2013

Bibliomania e bibliofollia / 5 - Francesco Petrarca, Il mio amore insaziabile per i libri

"Nei libri", scrive Francesco Petrarca, "c'è qualcosa di singolare: l'oro, l'argento, le gemme, le vesti di porpora, le case adorne di marmi, i campi ben coltivati, i dipinti, i cavalli ben bardati, e le altre cose di questo genere danno un piacere muto e superficiale; i libri dilettano nel fondo dell'animo, parlano con noi, ci consigliano e con noi si uniscono con viva e vivace familiarità; né solamente ciascuno di essi penetra nell'animo del lettore, ma suggerisce il nome di altri; e l'uno gli dà il desiderio dell'altro".
I libri della vita formano un cosmo vivo e personale: ognuno rimanda all'altro e ognuno fa amare l'altro: Platone chiama Solone, Svetonio Plinio, Cicerone Senofonte. In Petrarca tutto parla di un ordine classico, sovranamente inteso: ogni suo libro è una ricapitolazione dell'universo, ordinato in gerarchie immutabili; i pensieri ivi espressi sono colonne su cui poggiano architravi concettuali equilibrati e inscalfibili; tutte le pagine vengono disegnate calligraficamente, su ottima carta, con minuzia implacabile, e ideate per una durata degna di un classico, poiché i concetti ch'essa esprime sono eterni, come furono eterne la la tradizione greca, poi quella romana e, quindi, a compimento fatale, la cristiana; e nessuna critica contingente può scuotere l'andamento stoico del Petrarca prosatore: in esso vige una fermezza d'animo e a un sentimento d'accettazione del destino mutuato da Seneca e ch'egli volge, grazie ai Padri della Chiesa, come l'amato Sant'Agostino, in un quieto pessimismo.

Ma, come in Seneca, la materia sottostante a tale epidermide impeccabile, e agitata da sentimenti contrastanti e, forse contrastati: la personalità di Petrarca, a distanza di sette secoli, rimane un piacevole enigma da risolvere.
Amante della solitudine transalpina di Valchiusa eppure amabile conversatore e, in fondo, uomo di mondo; chierico e spregiatore della carne, ma padre di due figli (Giovanni e Francesca, cui riservò sempre cure e attenzione), discesi da (diversi?) lombi sconsacrati dall'istituzione matrimoniale; cantore della vanità del mondo eppur sobillatore della propria laurea poetica, alfine assegnata, con rulli di grancassa, al Campidoglio, nell'aprile del 1341; elogiatore del populismo di Cola di Rienzo e, insieme, penna servile, e devota alle signorie in cui era frantumata l'Italia.
E, naturalmente, insaziabile lettore e collezionista: "Cercami, caro Giovanni, questi libri qui, tu sai cosa amo, e trovali, dovessi rivoltare le biblioteche di Francia, Spagna e Britannia ... ". Ecco cosa scrive Francesco al priore di Firenze Giovanni dell'Incisa, suo parente e amico, e degno, perciò, di una sublimazione onomastica tutta petrarchesca: Giovanni Anchiseo.
Ma chi era allora il poeta?
Forse questa la chiave di lettura: Petrarca venera il tempio della classicità in cui egli intravede un culto del bello senza pari. In questo è umanista integrale, come tutti gli Italiani forti del periodo, dall'Alighieri a Cavalcanti. Ma per ritirarsi e officiare i riti della poesia e dell'arte occorre garantirsi le spalle, sdoppiarsi in due Petrarca - il poeta di Valchiusa e l'amico dei potenti (i Colonna, i Visconti).
Avremo quindi, secondo tale interpretazione, neanche troppo azzardata, un Petrarca bifronte, fintamente ipocrita, che ha pure il pregio di anticipare psicologicamente il mito dell'artista moderno e schizofrenico, sospeso fra accettazione delle miserie quotidiane e la celebrazione solitaria della bellezza.

Francesco Petrarca, Il mio amore insaziabile per i libri

Lettere familiari, III, 18. Scritta nel 1346

Lettera inviata a Giovanni Anchiseo (Giovanni dell'Incisa). Lo incarica della ricerca di alcuni libri.

"Ti dirò, o fratello, quello che spesso per dimenticanza o pigrizia ho taciuto. Se posso vantarmi con te, mi vanterò di quello soltanto di che è onesto vantarsi; ché già dagli ardori delle umane passioni, se non tutto, almeno in gran parte mi ha liberato la divina pietà; poiché è questo un dono del cielo, sia che mi derivi dalla bontà della mia natura, sia dall'età. Molte cose osservando e pensando, ho compreso finalmente quanto valgano questi affetti che ribollono nel cuore dell'uomo.
Ma perché tu non mi creda libero da ogni umano difetto, sappi che io sono dominato da una passione insaziabile, che fino ad oggi non ho potuto né voluto frenare, convinto come sono che il desiderio di cose oneste non può 'esser disonesto. Vuoi tu sapere di che malattia si tratti? non mi sazio mai di libri. Eppure, ne ho più del bisogno; ma accade dei libri come delle altre cose: il riuscire a far danaro è sprone all'avarizia.
Anzi ne' libri c'è qualcosa di singolare: l'oro, l'argento, le gemme, le vesti di porpora, le case adorne di marmi, i campi ben coltivati, i dipinti, i cavalli ben bardati, e le altre cose di questo genere danno un piacere muto e superficiale; i libri dilettano nel fondo dell'animo, parlano con noi, ci consigliano e con noi si uniscono con viva e vivace familiarità; né solamente ciascuno di essi penetra nell'animo del lettore, ma suggerisce il nome di altri; e l'uno gli dà il desiderio dell'altro. Per citar qualche esempio, l'Accademico di Cicerone mi rese caro e gradito Marco Varrone; nel libro degli Uffici imparai il nome di Ennio; presi amore a Terenzio dalla lettura delle Tusculane; dal libro Della Vecchiezza conobbi le Origini di Catone e l'Economico di Senofonte; e quest'ultimo nel suddetto libro degli Uffici imparai essere stato tradotto dà Cicerone.
Così il Timeo di Platone mi rivelò l'ingegno di Solone; e la morte di Catone il Pedone; e l'interdetto del re Tolomeo Egesia di Cirene; e per le lettere di Cicerone mi fidai di Seneca prima che dei miei occhi. A far ricerca del libro di Seneca Contro le superstizioni m'indusse Agostino; Servio mi indicò l'Argonautica di Apollonio; molti, e soprattutto Lattanzio, mi fecero desiderare i libri della Repubblica; e Svetonio la Storia di Plinio; e Aulo Gellio l'eloquenza di Favorino; e la elegante brevità di Floro m'indusse a ricercare quel che ci resta di Tito Livio.
Lascio da parte le opere più note e famose, che non abbisognano di testimonianze, e che tuttavia, se son lodate da persona illustre, più profondamente s'imprimono nell'animo nostro; com'è nelle Declamazioni di Seneca, dove si fanno le lodi di Cicerone, principe degli oratori e sommo ingegno; e nei Saturnali, dove si mostrano da Eusebio le multiformi eleganze di Virgilio; si aggiunga la reverente e ossequiosa testimonianza di Papinio Stazio intorno all'Eneide, quando ammonisce la sua Tebaide, che sta per veder la luce, a seguirne e adorarne le vestigia; e quello che Orazio Flacco o, meglio, tutti concordemente riconoscono in Omero, principe di tutti i poeti. Troppi più ne rammento di quel che sia necessario; e troppo lungo anche sarebbe ricordare quanti peregrini nomi d'autori io abbia da giovinetto raccolto leggendo il grammatico Prisciano, e poi Plinio Secondo, e ultimamente Nonio Marcello, e quante volte mi sia venuta l'acquolina in bocca. Ma per tornare donde son partito, nessuno si meraviglierà che l'animo sia grandemente acceso ed eccitato da questi nomi; ciascuno de' quali ha le sue scintille e i suoi aculei, alcuni ben visibili altri nascosti, che a vicenda si aiutano.
E perciò - me ne vergogno, ma debbo confessarlo francamente e fare omaggio alla verità - più scusabile, per non dire più generosa, mi appare la passione del tiranno d'Atene e del re d'Egitto che non quella di un nostro generale; e più nobile la passione per i libri di Pisistrato e poi quella di Tolomeo Filadelfo, che non quella di Grasso per l'oro, sebbene Grasso abbia più imitatori. Ma perché Alessandria o Atene non mettano sotto i piedi Roma, e alla Grecia o all'Egitto non ceda l'Italia, anche noi abbiamo avuto principi amanti degli studi; e così numerosi, che sarebbe difficile contarli, e così appassionati, che a qualcuno fu caro più il nome di filosofo che di re; e appassionati, dico, non tanto per i libri, quanto per il loro contenuto. Poiché vi sono molti che raccolgono libri, come anche altre cose, non per fame uso, ma per il desiderio di possederli, e non per coltivare la mente, ma per adornare la propria camera.
E per tacer d'altri, ebbero cura della biblioteca di Roma gl'imperatori Giulio Cesare e Cesare Augusto; e a sì importante carica fu dal primo preposto Marco Varrone, per nulla inferiore, anzi assai superiore a Demetrio Falereo - sia detto con sua buona pace - che in tale ufficio si acquistò gran nome presso gli Egiziani; dal secondo Pompeo Macro, uomo anch'esso dottissimo. Sommamente amò la biblioteca greca e latina Asinio Pollione, oratore illustre, che dicono per primo l'aprisse al pubblico. Privati esempi sono invece l'insaziabile desiderio di libri di Catone, di cui ci attesta Cicerone, e l'ardore di Cicerone stesso nel farne ricerca, di cui ci fanno fede le sue molte lettere ad Attico, al quale, con molte istanze e preghiere, si raccomanda non meno che io a te. Ché se a quel ricchissimo ingegno è lecito cercar l'aiuto de' libri, che pensi che si abbia a dire di un povero?
Né ancora ho detto quel che per ultimo era da dire, e che appena sembrerebbe credibile, se non lo rendessero verosimile la larga cultura di quell'uomo dottissimo e la sua amicizia coi principi: si dice che Amonico Sereno possedesse una biblioteca di sessantaduemila volumi, i quali tutti lasciò morendo al minore Gordiano, suo amato discepolo, che era allora imperatore. Ciò sia detto a scusa del mio vizio e a conforto per cosi illustri compagni.
E tu, se davvero mi vuoi bene, a qualcuno dei tuoi colti amici dà quest'incarico: che vadano in cerca per la Toscana, frughino negli scaffali de' religiosi e degli altri uomini studiosi, se possa uscirne fuori qualcosa che valga non so se ad acquietare o ad acuire la mia sete.
Del resto, sebbene non ti sia ignoto in quali laghi io soglia pescare e in quali boschetti uccellare, tuttavia, perché tu non t'inganni, aggiungo qui separatamente la nota di quel che maggiormente desidero; e perché tu vi metta più impegno, sappi ch'io ho fatto la stessa preghiera ad altri amici in Inghilterra, in Francia, in Spagna.
Fa' dunque in modo che tu non sembri, per amicizia e buona volontà, inferiore ad altri: e sta' bene" (1).

(1) Familiares, III, 18. Ad Iohannem Anchiseum, cui librorum inquisitio committitur.

"Quod sepe olim vel oblivio vel torpor abstulit, attingam, frater. Si gloriari licet apud te, gloriabor in illo in quo solo gloriari tutum est: fere iam ex omnibus humanarum cupiditatum ardoribus, etsi non totum, magna tamen ex parte, divina me pietas eripuit; e celo enim est, seu id michi nature bonitas seu dies prestiterit. Multa quidem videndo multumque cogitando, intelligere tandem cepi quanti sint studia hec, quibus mortale genus exestuat.
Ne tamen ab omnibus hominum piaculis immunem putes, una inexplebilis cupiditas me tenet, quam frenare hactenus nec potui certe nec volui; michi enim interblandior honestarum rerum non inhonestam esse cupidinem. Expectas audire morbi genus? libris satiari nequeo. Et habeo plures forte quam oportet; sed sicut in ceteris rebus, sic et in libris accidit: querendi successus avaritie calcar est. uinimo, singulare quiddam in libris est: aurum, argentum, gemme, purpurea vestis, marmorea domus, cultus ager, picte tabule, phaleratus sonipes, ceteraque id genus, mutam habent et superficiariam voluptatem; libri medullitus delectant, colloquuntur, consulunt et viva quadam nobis atque arguta familiaritate iunguntur, neque solum se se lectoribus quisque suis insinuat, sed et aliorum nomen ingerit et alter alterius desiderium facit. Ac ne res egeat exemplo, Marcum michi Varronem carum et amabilem Ciceronis Achademicus fecit; Ennii nomen in Officiorum libris audivi; primum Terrentii amorem ex Tusculanarum questionum lectione concepi; Catonis Origines et Xenophontis Economicum ex libro De senectute cognovi, eundemque a Cicerone translatum in eisdem officialibus libris edidici.
Sic et Platonis Thimeus Solonis michi commendavit ingenium, et Platonicum Phedronem mors Catonis, et Ptholomei regis interdictum cyrenaicum Hegesiam, et de Ciceronis epystolis Senece priusquam oculis meis credidi. Et Senece Contra superstitiones librum ut querere inciperem, Augustinus admonuit, et Apollonii Argonautica Servius ostendit, et Reipublice libros cum multi tum precipue Lactantius optabiles reddidit, et Romanam Plinii Tranquillus Historiam et Agellius eloquentiam Favorini itemque Annei Flori florentissima brevitas ad inquirendas Titi Livii reliquias animavit; ut notissima et vulgatissima illa preteream, que teste non egent, et tamen, cum accesserit testis illustrior, altius in animum descendunt; qualis est in Declamationibus Senece laudatus ille ciceroniane facundie principatus ingeniique singulare preconium; et illud in Saturnalibus multiforme Maronis eloquium ab Eusebio demonstratum; et illud Statii Pampinii poete reverens submissumque testimonium de virgiliana Eneyde, cuius "longe sequenda et adoranda vestigia" Thebaydem suam, in publicum exituram, admonet; et illud ab Horatio Flacco, imo vero ab omnibus concorditer delatum Homero poetarum principi.
Pluribus ago quam necesse est; nam illa quidem longa nimis recordatio, Prisciani grammatici iuvenilis olim lectio quot michi librorum peregrina nomina congesserit, quot postmodum Plinius Secundus, quot novissime Nonius Marcellus, quotiensque salivam excitaverint.
Nemo ergo mirabitur, ut redeam unde digressus sum, vehementer eis animos inflammari atque configi, quorum singula suas scintillas suosque aculeos palam habent aliosque clanculum in sinu gestant quos sibi invicem subministrant.
Itaque - pudet equidem, sed fatendum ingenue et cedendum vero est - excusabilior, ne dicam generosior semper michi cupiditas visa est Atheniensis tyranni Egiptiique regis quam nostri ducis; aliquantoque nobilius Pisistrati primum, deinde Ptholomei Philadelphi studium quam Crassi aurum, etsi multo plures imitatores Crassus habeat.
Sed ne Rome Alexandria vel Athene, et Italie Grecia vel Egiptus insultet, et nobis studiosi principes contigerunt, hique tam multi, ut eos vel enumerare difficile sit, tamque huic rei dediti, ut inventus sit cui philosophie quam imperii carius nomen esset; et studiosi, inquam, non tam librorum, quam libris contentarum rerum. Sunt enim qui libros, ut cetera, non utendi studio cumulent, sed habendi libidine, neque tam ut ingenii presidium, quam ut thalami ornamentum.
Atque, ut reliquos sileam, fuit romane bibliothece cura divis imperatoribus Iulio Cesari et Cesari Augusto; tanteque rei prefectus ab altero - pace Demetrii Phalerii dixerim, qui in hac re clarum apud Egiptios nomen habet - nichil inferior, ne dicam longe superior, Marcus Varro; ab altero Pompeius Macer, vir et ipse doctissimus. Summo quoque grece latineque bibliothece studio flagravit Asinius Pollio orator clarissimus, qui primus hanc Rome publicasse traditur.
Illa enim privata sunt: Catonis insatiabilis librorum fames, cuius Cicero testis est, ipsiusque Ciceronis ardor ad inquirendos libros, quem multe testantur epystole ad Athicum, cui eam curam non segnius imponit, agens summa instantia multaque precum vi, quam ego nunc tibi. Quodsi opulentissimo ingenio permittitur librorum patrocinia mendicare, quid putas licere inopi?
Necdum attigi quod hac in parte supremum erat, et quod vix credibile videretur, nisi longum doctissimi viri studium et amicitia principum ad verisimilitudinem revocaret: Amonicus Serenus bibliothecam habuisse memoratur sexaginta duo librorum milia continentem, quos omnes Gordiano minori, qui tunc erat imperator, amantissimo discipulo suo, moriens reliquit; que res non minus illum quodammodo quam imperium honestavit.
Hec pro excusatione vitii mei proque solatio tantorum comitum dicta sint. Tu vero, si tibi carus sum, aliquibus fidis et literatis viris hanc curam imponito: Etruriam perquirant, religiosorum armaria evolvant ceterorumque studiosorum hominum, siquid usquam emergeret leniende dicam an irritande siti mee ydoneum.
Ceterum, etsi non ignores quibus lacubus piscari quibus ve fruticetis aucupari soleo, nequa tamen falli queas, his seorsum literis quid maxime velim interserui; quoque vigiliantior fias, scito me easdem preces amicis aliis in Britanniam Galliasque et Hispanias destinasse.
Ne cui ergo fide vel industria cessisse videaris, enitere et Vale".

1 commento:

  1. Ciao a tutti, articolo interessante.

    Segnalo questa risorsa: http://petrarca.letteraturaoperaomnia.org/index.html

    contenente i testi completi per chi volesse approfondire maggiormente la poetica dell'autore

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