Viviane Sassen, Lexicon |
Maria
Teresa Carbone
Cristina
Reggio
Dopo
cinque mesi, domenica 24 novembre si è chiusa la 55. edizione della Biennale d'arte
di Venezia. Vi proponiamo un piccolo dizionario del finissage, da
commentare, integrare, discutere.
Alberi
Albero
1. Allʼingresso dei giardini, nel primo Padiglione, quello del
Belgio, si trovava un enorme albero trafitto, come un corpo umano, un
San Sebastiano vegetale in lenta agonia. Era lʼopera dal titolo
Kreupelhout - Cripplewood di Berlinde De Bruyckere, un
artista belga che immerge gli spettatori in una atmosfera velata,
ovattata, nebbiosa, volutamente in contrasto con la luce cristallina
dei giardini. Lʼalbero gigante abbattuto sembrava respirare, pulsare
di vita stremata: un enorme tragico Gulliver morente intorno al quale
ci siamo sentiti lillipuziani, stranieri, impotenti, curiosi,
estranei.
Albero
2. Nel 2011 un albero si è improvvisamente abbattuto sul piccolo
padiglione finlandese disegnato da Aalto, danneggiandolo. Lo spazio è
stato poi ripristinato, ma due anni dopo il padiglione dei Paesi
nordici (assegnato in questa edizione alla Finlandia) è stato
trasformato da Terike Haapoja in un laboratorio, dove gli alberi –
i Falling Trees cui è stata intitolata l'intera
installazione, comprensiva anche della mostra fotografica di Antti
Laitinen al padiglione Aalto – hanno fatto sentire il suono
ansimante del loro respiro, in risposta a quello dei visitatori. La
tecnologia è diventata così il tramite comunicativo tra due mondi
all'apparenza distanti e separati, un invito a porsi in ascolto di
voci inudibili.
Buio
La
diffusione della videoarte ha abituato gli spettatori delle biennali
ad affacciarsi in piccoli o grandi spazi completamente rivestiti di
nero nei quali si possono vedere proiettati i video monocanale.
Anche questa edizione ne ha collezionati molti, tra cui quello
dell’inglese Steve McQueen, autore dei due film visti al cinema
Hunger (2008) e Shame (2011), nei quali il fulcro
tematico ed estetico era il corpo del protagonista e i suoi desideri.. Alla 55. Biennale era esposto il suo video del 2002 Once Upon a time
nel quale l’artista ha assemblato, in forma di slides che si
susseguono lentamente una dietro l’altra in dissolvenza, le
immagini che compaiono nel famoso "Disco d’oro", ovvero
il Golden Record realizzato dallo scienziato Carl Sagan e sua
moglie, e lanciato nello spazio a bordo delle sonde NASA Voyager1 e
2 (che ancora sono in viaggio), come biglietto da visita
dell’umanità, diretto ad ipotetici marziani provvisti di occhi per
vedere e orecchie per ascoltare. Nell’opera di McQueen, le
immagini che si mostrano come in un campionario, sono accostate alla
diffusione audio di glossolalie, ovvero linguaggi incomprensibili,
pronunciazioni di lingue ignote e misteriose che accompagnano come
una lallazione infantile, pre-linguistica la catalogazione ottusa
del sapere umano. Altri spazi bui interrompevano di frequente i
percorsi assolati della biennale veneziana: dall’installazione
Katia, di Bart Dorsa, che obbligava gli spettatori a un
percorso a piedi scalzi in uno spazio completamente nero, molti stile
wunderkammen, costellato di immagini, specchi e sculture
ispirate a una giovane donna dal corpo ritorto da una vita disperata,
alle notturne proiezioni “tattili” e interattive della Creazione
di Studio Azzurro per il Padiglione della Santa Sede (grande novità
di questa Biennale), e, poco distante, una cinematografica
interpretazione video della performer e videoartista argentina Nicola
Costantino che ritrae nel 2012 Evita Peron, immergendo lo spettatore
in un gioco di specchi, anchʼesso rigorosamente in un buio
misterioso. E infine unʼultima oscurità, ovvero quella che ha
inghiottito e "imprigionato", per pochi minuti, Giorgio
Napolitano, nel corso della sua visita-lampo allʼArsenale:
curiosamente, infatti , il Presidente della Repubblica, la scorta e
il seguito in visita, hanno dovuto fare una vera gimkana per seguire
senza inciampare, con la pochissima luce disponibile, il viottolo
dellʼinstallazione progettata da Rossella Biscotti, delimitato da
mattoni ricavati dal compostaggio dei rifiuti del carcere femminile
della Giudecca. Poi, finalmente fuori, liberi, nel sole e nellʼodore
del mare.
Detriti
Il
gigantesco cumulo di macerie con cui Lara Almarcegui ha saturato gli
spazi del padiglione della Spagna, impedendo ai visitatori di
spostarsi liberamente da un ambiente all'altro, costringendoli a
percorsi esterni, tangenziali, inattesi, aveva come titolo
Construction Materials. Solo dalla distruzione (in questo caso
i detriti provenivano dalla discarica di Sacca San Mattia, a Murano)
si può andare in cerca di nuove strade? L'interrogativo riecheggiava
nell'installazione di Rossella Biscotti, modellata col compost
raccolto dalle detenute del carcere della Giudecca, che con i loro
sogni hanno dato il titolo all'opera, I dreamt that you changed
into a cat... gatto...ha ha ha. (E detriti, ancora, in The Dry
Salvages di Elisabetta Benassi, una distesa di mattoni ottenuti
con l'argilla proveniente dai luoghi alluvionati del Polesine, tutti
contrassegnati con i nomi dei detriti spaziali che orbitano intorno
alla terra).
Didascalie
Se,
come il califfo delle Mille e una notte, in questi mesi Massimiliano
Gioni si è aggirato in incognito nel Palazzo enciclopedico
che ha voluto allestire nella sua Biennale, non avrà potuto fare a
meno di notare che moltissimi visitatori sceglievano di fotografare,
insieme alle (o al posto delle) opere, le lunghe didascalie che
accompagnavano ognuno dei pezzi esposti. E se ne sarà indubbiamente
compiaciuto, perché le didascalie, in questa edizione della rassegna
veneziana, hanno avuto un ruolo primario, non semplice etichetta,
minimo promemoria per evocare un nome, un titolo, una data, ma
continue e insistite dichiarazioni di intenti (non a caso debitamente
siglate, a ribadire l'autorialità dei testi) per una Biennale che,
in quanto enciclopedica, ha scelto di essere ecumenica, didattica e,
appunto, didascalica.
Libro
La
parola scritta ha attraversato tutto il Palazzo enciclopedico
della 55. Biennale, a partire dal Red Book di Jung, posto
all'inizio del percorso, fino agli Scrapbooks di Shinro Ohtake
o ai Franz Kafka, Diarios II, 1914-1923 di José Antonio
Suárez Londoño. Un atto dovuto, per una rassegna che si è imposta
la forma dell'enciclopedia come matrice, e tuttavia una celebrazione
non priva di ambiguità, nel momento in cui il libro è visto come
“oggetto ormai a rischio di estinzione” (sic dixit Gioni) e
dunque da museificare.
Ossessioni
“Il
Palazzo Enciclopedico è una mostra sulle ossessioni e sul potere
trasformativo dell'immaginazione”, ha scritto il curatore nel testo
introduttivo alla Biennale 55. Le ossessioni sono state il leitmotiv
della rassegna, la parola ricorrente in molte delle didascalie
con cui Gioni e i suoi collaboratori hanno tracciato il
percorso della mostra. In una esposizione sostanzialmente inclusiva,
dove “le distinzioni tra professionisti e dilettanti si sfumano”,
dove tutti sono (siamo) descritti come “conduttori di immagini”,
l'eccentricità, se non la patologia, è diventata il tratto
distintivo dell'artista.
E
catalogo di ossessioni potrebbe intitolarsi la sala di Fischli e
Weiss, in cui si espone la raccolta di circa cento cinquanta piccole
sculture in argilla cruda dal titolo Plötzlich
diese Übersicht (Allʼimprovviso una rivelazione),
in cui i due artisti mettono in figure decine di paradossi, giochi
linguistici e situazioni -limite, scatenando nellʼosservatore la
risata sommessa, la sorpresa ferita e sconsolata, o la soddisfazione
di avere risolto un piccolo tragico rebus.
Soldi
Le
monetine piovevano dall'alto nel padiglione russo, all'interno del
quale Vadim Zakharov, reinterpretando il mito di Danae alla luce
degli effetti che il capitalismo ha avuto nel suo paese (solo nel suo
paese?), aveva ideato un meccanismo complesso, implacabile e ottuso,
che vedeva contrapposti uomini e donne, gli uni passivi servitori di
questo ingranaggio, le altre attive goditrici di questo flusso
dorato. Lontani, entrambi, dalla Grecia livida e malinconica dei tre
video di Stefanos Tsivopoulos, dove le banconote-origami di
un'anziana signora svaporata facevano da contrappunto alla
perlustrazione metodica dei cassonetti da parte di un giovane
incappucciato. A tutti e due, però, pareva dare risposta il
gigantesco William Morris emerso dalle acque come Poseidone per
affondare lo yacht di Abramovic, disegnato su una parete del
padiglione britannico da Jeremy Deller (English Magic). Solo
l'ironia ci salverà?
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