Arthur Rimbaud nel 1871, a diciassette anni |
Jean Nicholas Arthur Rimbaud (Charleville, 20 ottobre
1854 - Marsiglia, 10 novembre 1891)
Due sonetti, due altre brecce entro cui
penetrare in una nuova fortezza letteraria.
Verlaine, Baudelaire, Rimbaud, nomi
che, a forza d'essere aggrovigliati dall'edera dei commenti, e
soprattutto, dai rovi dello scandaloso dato biografico, finiscono per
morire di illeggibilità.
Rimbaud: oltraggioso, omosessuale da
latrina, menefreghista, vizioso, avventuriero, comunista istintuale,
vagabondo e poeta d'un eclettismo talmente precoce e profondo da
apparire terribile.
Tutto vero, s'intende; occorre, però,
ancorare gli aggettivi alla lettura se non vogliamo vederli frullare
come passeri impazziti nella gabbia del luogo comune.
Ecco due sonetti da recitare e meditare
come rosari d'espiazione per tale eventuale colpa.
Il primo, Alla Locanda Verde (Au Cabaret-Vert),
composto nell'ottobre 1870, a sedici anni, parla di uno dei suoi
primi vagabondaggi. Rimbaud è in viaggio verso Charleroi, in Belgio,
dove spera di ottenere una collaborazione nel Journal locale;
ha pochi soldi, e consuma, perciò, il tragitto alternando
spostamenti in treno e lunghe camminate. Arrivato nella cittadina,
trova ristoro presso una locanda (realmente esistita: si chiamava
Maison Verte, in onore al colore dell'insegna, della facciata e del
mobilio).
Alla Locanda Verde è, più che un
sonetto, una breve e complessa composizione musicale.
Inizia lento: vediamo il poeta
strascinare le scarpe usurate su sentieri faticosi. È
stanco.
Giunge infine alla meta. Il ritmo della
poesia si allarga con un sospiro di sollievo: l'atmosfera nella
locanda è calda, amichevole; il viaggiatore si rilassa, allunga le
gambe indolenzite sotto il tavolo, pregusta la cena a base di
crostini e prosciutto; intanto, nell'attesa, lascia vagare lo sguardo
ozioso sulle scenette naif della carta da parati.
La breve stasi ha dilavato le scorie
della fatica; la scena può, quindi, animarsi vivace, con piglio
quasi rabelaisiano: la tenutaria, popputa e ridente, reca il
desinare, una piccola natura morta d'eccezionale calore: il tiepido
prosciutto rosa e bianco, lo spicchio odoroso dell'aglio e i crostini
imburrati riposano in un piatto dai colori vivaci, la birra schiuma
gioiosa da un copioso boccale. Uno stato d'animo di quieta felicità
che il poeta rallenta e perfeziona grazie alla screziatura della
nostalgia; il tardo sole autunnale, infatti, filtra dalle finestre e
colora la spuma della bevanda: l'intera scena si soffonde, quindi,
d'un alone di luce morente e dolcissima, propria dei tramonti
d'ottobre.
Alla Locanda Verde (1)
(Alle cinque della sera)
Da otto giorni ormai
stracciavo le scarpe
Sui sassi delle strade.
Entrai a Charleroi.
- Alla Locanda Verde,
chiesi dei crostini
Di burro e del prosciutto,
freddo a metà.
Beato, sotto la verde
tavola le gambe
Allungo: della
tappezzeria contemplo
I disegni ingenui. - E che
goduria
Quando la serva, tette
grosse e occhio sveglio,
- Non si spaventa mica per
un bacio quella! -
Mi porta ridendo le
tartine al burro
E il prosciutto, tiepido,
in un piatto colorato,
Prosciutto rosa e bianco
profumato da uno spicchio
D'aglio, e il boccale
colma, immenso, colla spuma
Che un tardo raggio di
sole indora.
L'anno seguente, forse sempre in
autunno, ecco Orazione della sera (Oraison du soir). Il sonetto potrebbe persino
leggersi come virtuale continuazione dell'altro (è ancora ambientato in
una locanda), ma il tono non concede più alla distensione; il
linguaggio, ricco di tecnicismi e strepitose scurrilità, evoca un
travaglio e un'atmosfera senza redenzione.
Il sole è già tramontato: si è alle
soglie d'un notturno. Il diciassettenne Rimbaud siede con la pipa
Gambier stretta fra i denti, collo e ventre ricurvi sul tavolo, il
boccale convulso stretto nel pugno. Nell'aria fluttuano, dense, le
nuvolaglie del tabacco.
Egli è immerso in una fantasticheria
molteplice e dolorosa. I sogni, impalpabili come le esalazioni fumose
o i ricordi, bruciano acidi l'anima come le merde fanno coi fondi delle
vecchie piccionaie. Ricordi, sogni, rimorsi: veleni che, quali linfe oscure, trasudano dal giovane oro del cuore (l'alburno, ovvero la parte più
vitale e recente dell'albero) pregiudicando qualsiasi rifugio
nell'innocenza.
Alfine il poeta si scuote. Esce. Fuori,
il bisogno, trattenuto a lungo e, perciò, doppiamente impetuoso, si
libera alto, lungo e solenne contro i cieli oscuri, come una liturgia
blasfema (l'issopo è pianta officinale delle celebrazioni
religiose).
Rimbaud riesce a concentrare, in due
righe che parlano d'un comunissimo atto triviale, non solo il senso
d'una liberazione fisica (la minzione in sé) e interiore (dai veleni
dell'esperienza); allo stesso tempo, ergendosi a divinità sacrilega
forte del potere della parola, reca una sfida irriguardosa contro
l'angustia d'ogni convenzione civile e morale: un assalto al cielo,
bruciante e anarchico (e sprezzante, nella sua compiaciuta
volgarità), del tutto coerente con la poetica spontanea e
ribellista dell'autore.
Trova posto, infine, un ulteriore
sberleffo: i girasoli (ironicamente sublimati in eliotropi),
spettatori impettiti della rivolta come i borghesi senza volto di un
quadro di René Magritte, concedono, muti, l'assenso all'irriverente
aspersione.
Orazione della sera (2)
Qui seduto, come un angelo
dal barbiere,
Vivo stringendo un boccale
bello scanalato,
Collo e ipogastrio curvi,
una Gambier tra
I denti, sotto l'aria
gonfia di impalpabili veli.
Mille sogni, come caldi
escrementi d'una vecchia
piccionaia, recano in me
dolci bruciature
E il mio cuore triste, a
tratti, un alburno pare,
Ove sanguina di cupe linfe il giovane
oro.
E, quando, ringhiottito
con cura ogni sogno,
Mi volto - di boccali me
ne son fatti trenta o quaranta -
E mi raccolgo, pronto a
mollare l'aspro bisogno,
Dolce come il Signore del
cedro e degli issopi,
Io piscio altissimo e
lontano, verso i cieli
Oscuri, e l'assenso
riscuoto dei grandi eliotropi.
(1) Depuis huit
jours, j'avais déchiré mes bottines
Aux cailloux des chemins. J'entrais à
Charleroi.
- Au Cabaret-Vert : je demandai des
tartines
Du beurre et du jambon qui fût à
moitié froid.
Bienheureux, j'allongeai les jambes
sous la table
Verte : je contemplai les sujets très
naïfs
De la tapisserie. - Et ce fut adorable,
Quand la fille aux tétons énormes,
aux yeux vifs,
- Celle-là, ce n'est pas un baiser qui
l'épeure! -
Rieuse, m'apporta des tartines de
beurre,
Du jambon tiède, dans un plat colorié,
Du jambon rose et blanc parfumé d'une
gousse
D'ail, - et m'emplit la chope immense,
avec sa mousse
Que dorait un rayon de soleil arriéré.
(2) Je vis assis,
tel qu'un ange aux mains d'un barbier,
Empoignant une chope à fortes
cannelures,
L'hypogastre et le col cambrés, une
Gambier
Aux dents, sous l'air gonflé
d'impalpables voilures.
Tels que les excréments chauds d'un
vieux colombier,
Mille Rêves en moi font de douces
brûlures :
Puis par instants mon coeur triste est
comme un aubier
Qu'ensanglante l'or jeune et sombre des
coulures.
Puis, quand j'ai ravalé mes rêves
avec soin,
Je me tourne, ayant bu trente ou
quarante chopes,
Et me recueille, pour lâcher l'âcre
besoin :
Doux comme le Seigneur du cèdre et des
hysopes,
Je pisse vers les cieux bruns, très
haut et très loin,
Avec l'assentiment des grands
héliotropes.
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