Stasera, martedì 29 ottobre, per la rassegna "Le vie dei festival", va in scena al Teatro Vascello Gadda e il teatro. Un atto sacrale di conoscenza, lezione/spettacolo di e con Fabrizio Gifuni. Da tempo Gifuni esplora il mondo dell'autore della Cognizione del dolore. Di questa lunga indagine fa parte anche la lettura integrale del "Pasticciaccio brutto" uscita qualche mese fa per Emons, di cui proponiamo qui sotto la recensione di Andrea Cortellessa (uscita sul numero 24 di Alfabeta2).
Carlo
Emilio Gadda
Quer
pasticciaccio brutto de via Merulana
letto da
Fabrizio Gifuni
Emons
Audiolibri, cd mp3, 13h 34’, € 18.90
Andrea Cortellessa
«Colleghi
di alta statura» definì una volta, Gianfranco Contini, Gadda e
Joyce. Ma – al di là della considerazione, inconfutabile, della
rispettiva altezza entro le letterature che hanno avuto la
ventura di fregiarsi di simili campioni – una quantità di voci
critiche illustri hanno tentato di definire tale superiore colleganza
(a partire da Contini stesso: che li accomunava nella cifra d’un
«manierismo espressionistico» capace di mostruosamente
miscelare «elementi linguistici disparati, maneggiati con estrema
sapienza, volta a rendere, con effetti di grottesco enorme […], il
caos d’una cultura e d’un mondo in crisi»). Un vettore di ricerca comune va
senz’altro indicato nella componente orale: nella colossale
partitura vocale (e ovviamente plurivoca, oltre che
plurilinguistica; e insomma, epica) cui i due autori giungono
col rispettivo opus ultimum, Finnegans Wake e Quer
pasticciaccio brutto de via Merulana. Forse proprio in quanto
memore del terrore esaltato che i frammenti del Work in progress
avevano fatto serpeggiare negli anni Venti e Trenta, nel 1957
all’apparire del Pasticciaccio – e dell’impegnativo
paragone – il sempre cauteloso Gadda si schermì, nei confronti
degli «esperimenti intellettualistici e disperati» del collega.
Ma se è vero che il
Pasticciaccio rappresenta un vero e proprio salto di piano,
rispetto a quanto lo precede, è proprio per la smagliante quanto
frastornante messa in scena dell’oralità, e anzi della vocabilità,
della parola narrativa: un universo tutto verbale, nel quale ogni
evento sulla pagina figura riportato, pronunciato a voce alta, tutto
viene insomma «cinguettato» dai tanti merli canterini che
affollano la strada del titolo – «questi che vien fatto di
chiamare gli indigeni», come scrisse Manganelli. E se è vero, come
ha mostrato Gabriele Frasca nel grande saggio archeologico sulla
narrativa occidentale come messa in scena della voce (La lettera
che muore, Meltemi 2005), che proprio quello di Joyce è
l’esempio di «testo che non si rassegna alla pagina» ma tende a
una dimensione acustica e grammofonata (Ulisse grammofono
s’intitolò nel 1984 una conferenza di Jacques Derrida, in Italia
pubblicata dal melangolo nel 2004: alludendo al monologo del
grammofono, appunto, nel capitolo «Circe» di Ulysses), è
proprio qui che andrà ricercata la radice più fonda della
colleganza in questione. Sta di fatto che non a caso nel
1929, a Cambridge, Joyce volle registrare una propria lettura del
capitolo finneganiano «Anna Livia Plurabelle» (ora ascoltabile
anche su You Tube), mentre per il Pasticciaccio ci dobbiamo
affidare a interpreti secondi, che abbiano più o meno approfondito
la testualità di Gadda. E chi vi si è dedicato senza risparmio,
negli ultimi anni, è stato senz’altro Fabrizio Gifuni: già
strepitoso interprete (per la regia del compianto Giuseppe
Bertolucci) dell’Ingegner Gadda va alla guerra – remix
intelligentissimo del Giornale di guerra e di prigionia e di
Eros e Priapo (nel dvd minimum fax Gadda e Pasolini:
antibiografia di una nazione) – che ora realizza l’incredibile
pièce de résistance della lettura integrale del
Pasticciaccio. Il risultato è non meno che
straordinario: senza mai cedere alla foga demoniaca della precedente
prova gaddiana, ma anzi scegliendo una lettura lenta e ruminante –
quasi a voler misurare carnalmente lo spessore di ogni singola
parola – Gifuni fa riverberare ogni minima screziatura tonale, ogni
ispessimento fonico del testo; ne pantografa ogni crescendo, ne
cesella plasticamente ogni clausola. E (seguendo in qualche modo la
strada già indicata da Luca Ronconi, con la storica riduzione
teatrale del 1996) evidenzia magistralmente il «poliglottismo
interno» (come Contini chiamava quello di Joyce) che – come in
Joyce e più che in Joyce – fa del Pasticciaccio il
luogo unico della «dissipazione della voce narrativa» (Stefano
Agosti): quella per cui il narratore sin dal titolo (Quer…
de…) incista nella diegesi i dialetti iperbolicamente
convocati dalla mimesi dei discorsi diretti. All’intero, rutilante
«sogno del carabiniere» dell’ottavo capitolo, per esempio, Gifuni
imprime dunque la cadenza piemontese del brigadiere Pestalozzi, e
quando s’imbatte in una locuzione romanesca è costretto a dar vita
a uno straordinario impasto fonico dei due dialetti. Per questa via
si giunge all’urlo burino e lancinante dell’Assunta, a quella
conclusione «No, sor dottò, no, no, nun so’ stata io!» che –
me ne rendo conto solo ora, con un brivido – risponde
perfettamente, come in uno specchio oscuro, allo «Yes I said yes I
will Yes» di Molly Bloom.
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