martedì 29 ottobre 2013

Gadda poliglotta nella voce di Gifuni


Stasera, martedì 29 ottobre, per la rassegna "Le vie dei festival", va in scena al Teatro Vascello Gadda e il teatro. Un atto sacrale di conoscenza, lezione/spettacolo di e con Fabrizio Gifuni. Da tempo Gifuni esplora  il mondo dell'autore della Cognizione del dolore. Di questa lunga indagine fa parte anche la lettura integrale del "Pasticciaccio brutto" uscita qualche mese fa per Emons, di cui proponiamo qui sotto la recensione di Andrea Cortellessa (uscita sul numero 24 di Alfabeta2).

Carlo Emilio Gadda
Quer pasticciaccio brutto de via Merulana
letto da Fabrizio Gifuni
Emons Audiolibri, cd mp3, 13h 34’, € 18.90

Andrea Cortellessa
«Colleghi di alta statura» definì una volta, Gianfranco Contini, Gadda e Joyce. Ma – al di là della considerazione, inconfutabile, della rispettiva altezza entro le letterature che hanno avuto la ventura di fregiarsi di simili campioni – una quantità di voci critiche illustri hanno tentato di definire tale superiore colleganza (a partire da Contini stesso: che li accomunava nella cifra d’un «manierismo espressionistico» capace di mostruosamente miscelare «elementi linguistici disparati, maneggiati con estrema sapienza, volta a rendere, con effetti di grottesco enorme […], il caos d’una cultura e d’un mondo in crisi»). Un vettore di ricerca comune va senz’altro indicato nella componente orale: nella colossale partitura vocale (e ovviamente plurivoca, oltre che plurilinguistica; e insomma, epica) cui i due autori giungono col rispettivo opus ultimum, Finnegans Wake e Quer pasticciaccio brutto de via Merulana. Forse proprio in quanto memore del terrore esaltato che i frammenti del Work in progress avevano fatto serpeggiare negli anni Venti e Trenta, nel 1957 all’apparire del Pasticciaccio – e dell’impegnativo paragone – il sempre cauteloso Gadda si schermì, nei confronti degli «esperimenti intellettualistici e disperati» del collega. Ma se è vero che il Pasticciaccio rappresenta un vero e proprio salto di piano, rispetto a quanto lo precede, è proprio per la smagliante quanto frastornante messa in scena dell’oralità, e anzi della vocabilità, della parola narrativa: un universo tutto verbale, nel quale ogni evento sulla pagina figura riportato, pronunciato a voce alta, tutto viene insomma «cinguettato» dai tanti merli canterini che affollano la strada del titolo – «questi che vien fatto di chiamare gli indigeni», come scrisse Manganelli. E se è vero, come ha mostrato Gabriele Frasca nel grande saggio archeologico sulla narrativa occidentale come messa in scena della voce (La lettera che muore, Meltemi 2005), che proprio quello di Joyce è l’esempio di «testo che non si rassegna alla pagina» ma tende a una dimensione acustica e grammofonata (Ulisse grammofono s’intitolò nel 1984 una conferenza di Jacques Derrida, in Italia pubblicata dal melangolo nel 2004: alludendo al monologo del grammofono, appunto, nel capitolo «Circe» di Ulysses), è proprio qui che andrà ricercata la radice più fonda della colleganza in questione. Sta di fatto che non a caso nel 1929, a Cambridge, Joyce volle registrare una propria lettura del capitolo finneganiano «Anna Livia Plurabelle» (ora ascoltabile anche su You Tube), mentre per il Pasticciaccio ci dobbiamo affidare a interpreti secondi, che abbiano più o meno approfondito la testualità di Gadda. E chi vi si è dedicato senza risparmio, negli ultimi anni, è stato senz’altro Fabrizio Gifuni: già strepitoso interprete (per la regia del compianto Giuseppe Bertolucci) dell’Ingegner Gadda va alla guerra – remix intelligentissimo del Giornale di guerra e di prigionia e di Eros e Priapo (nel dvd minimum fax Gadda e Pasolini: antibiografia di una nazione) – che ora realizza l’incredibile pièce de résistance della lettura integrale del Pasticciaccio. Il risultato è non meno che straordinario: senza mai cedere alla foga demoniaca della precedente prova gaddiana, ma anzi scegliendo una lettura lenta e ruminante – quasi a voler misurare carnalmente lo spessore di ogni singola parola – Gifuni fa riverberare ogni minima screziatura tonale, ogni ispessimento fonico del testo; ne pantografa ogni crescendo, ne cesella plasticamente ogni clausola. E (seguendo in qualche modo la strada già indicata da Luca Ronconi, con la storica riduzione teatrale del 1996) evidenzia magistralmente il «poliglottismo interno» (come Contini chiamava quello di Joyce) che – come in Joyce e più che in Joyce – fa del Pasticciaccio il luogo unico della «dissipazione della voce narrativa» (Stefano Agosti): quella per cui il narratore sin dal titolo (Querde…) incista nella diegesi i dialetti iperbolicamente convocati dalla mimesi dei discorsi diretti. All’intero, rutilante «sogno del carabiniere» dell’ottavo capitolo, per esempio, Gifuni imprime dunque la cadenza piemontese del brigadiere Pestalozzi, e quando s’imbatte in una locuzione romanesca è costretto a dar vita a uno straordinario impasto fonico dei due dialetti. Per questa via si giunge all’urlo burino e lancinante dell’Assunta, a quella conclusione «No, sor dottò, no, no, nun so’ stata io!» che – me ne rendo conto solo ora, con un brivido – risponde perfettamente, come in uno specchio oscuro, allo «Yes I said yes I will Yes» di Molly Bloom.

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