lunedì 15 ottobre 2012

mvl Cinema, C'è realtà e "Reality"


Patrizia Vincenzoni
Il mondo che Reality (di Matteo Garrone) ci presenta è quello nel quale finzione e realtà si sovrappongono, dando luogo a un concretismo, orfano, quindi, del piano simbolico che invece rende possibile il sogno, il desiderio e l'affermazione più autentica di sé. Sin dalle prime inquadrature il film ci proietta in una sorta di fronte di guerra mediatica, nel quale sicuramente il bisogno preminente è apparire, ma l'omologazione di massa a questo rito crea, anche visivamente, un'ambientazione interiore e collettiva nella quale si muovono personaggi (o per meglio dire identificazioni in personaggi), che si sostituiscono alle stesse persone, tutte prese in questa ricerca disperata e disperante di identificazioni con i nuovi re Mida del protagonismo a tutti i costi.
Questi soldatini mediatici sono colti nell'impegno di sconfiggere disperazione e povertà anche ambientale (dalla quale emerge la diserzione della Cosa pubblica), partecipando inconsapevolmente a riti per i quali si 'addobbano' come luminarie da accendere alle feste di paese, complici i corpi che mostrano gli eccessi, l"'opulenza" fuori misura delle fisicità e degli abiti con i quali rivestirle, bulimia di cose e di bisogni che fanno dell'entrare nei contenitori televisivi mediatici  l'aspirazione esistenziale più forte e presente, decisiva.
Il ritorno dopo la festa, collettiva ma estranea allo stesso tempo, nella quale si festeggiano più matrimoni contemporaneamente in queste location nelle quali tutto è ridondante e artificioso, come lo è il divertimento con le sue nuove regole, i suoi eccessi, ci proietta in un silenzio dove è possibile la svestizione dei panni indossati dai personaggi e ci restituisce per un attimo le persone colte nella loro spoglia e tenera umanità.

Lo sguardo del regista è empatico e mai giudicante, attento a voler comprendere la parabola umana di un uomo che si lascia condizionare dalla urgenza del dover apparire e diventare famoso, rivestendo però panni identitari che lo dis-identificano da se stesso. C'è un'immagine precisa che in questa sequenza accompagna la famiglia allargata del protagonista nel suo ritorno a casa dopo la festa e sottolinea la dimensione sognante, ma ingannevole della realtà, producendo la percezione di un'ascensione in una dimensione favolistica: i personaggi salgono le scale di un palazzo antico che ha le ferite del tempo e degli accadimenti scavati sulla pietra, mai sanati, lasciati come vestigia di una memoria abitabile per lo più nella dimensione trasfigurata e irreale del sogno.
L'interprete principale, il pescivendolo Luciano, interrompe lo scorrere abituale della propria vita familiare e lavorativa, pur nelle difficoltà che lo portano anche a partecipare ad una truffa, che dà denaro per la sopravvivenza all'umanità che vive attorno alla piazza dove c'è casa e pescheria, per inseguire la possibilità di un successo grazie alla partecipazione al “Grande Fratello”, reality show che ha creato gli “eroi” mediatici, figurine di un culto arcaico che ha perduto, nelle versioni moderne, l'energia fondatrice di tensioni conoscitive. A tale culto si consegna per cercare di realizzare il proprio destino di “famoso”.
I luoghi nei quali si consuma tutto ciò offrono poco spazio fisico e relazionale: la piscina più o meno deserta circondata, perimetrata da sdraio in file serrate ma non occupate, a sottolineare la difficoltà di essere e relazionarsi laddove tale possibilità viene sostituita dalla vacuità del bisogno di apparire, di esserci.
L'assenza del soggetto, catturato e annullato dalle maschere sociali che 'ordinano' bisogni e modi per reperirli, è proposta anche in altre sequenze del film: una fra tutte, la discoteca, moderno antro delle fiabe dove nel chiasso assordante, uno dei protagonisti di una passata edizione del reality show bascula, appeso a un filo di ferro, sulla folla inneggiante e adorante. L'andare del protagonista verso di lui, ridotto a cosificazione dell'immagine di un eroe che compie una sorta di sacrificio, deprivandolo però della connotazione “sacra” che dà senso anche al quotidiano e fornisce possibilità di assegnare valore e speranza alla vita, segna ancora di più l'andare di Luciano verso la progressiva chiusura delirante che sostituisce drammaticamente il suo rapporto con la realtà e con la percezione di essa.
Allora la piazza, unico spazio vivibile, agorà di quartiere, punto di incontro nel e attraverso il quale condividere e negoziare le regole di interazione, scambi e rapporti delimitati dal perimetro simbolico dell'appartenenza alla comunità, perde anch'essa la funzione di mediazione fra spazio privato e sociale per diventare una realtà oggetto delle proprie attribuzioni deliranti.
Questa incapacità di percepire la realtà cosi come essa si dispone al nostro sguardo, trova il suo compimento nelle sequenze finali del film. Luciano riesce a entrare, nottetempo e di nascosto, nella casa del “Grande Fratello” e tra operatori di camera al lavoro e partecipanti al reality in onda senza interruzione che si aggirano nelle stanze, celle di una sorta di prigione che non riesce a replicare la realtà della vita, nonostante gli sforzi. Ma nessuno si accorge di questa intrusione, nessuno lo vede entrare dentro queste stanze occupate dalla presenza-assenza dei partecipanti. Tutto scorre senza interruzione e l'evento cui assistiamo non ha, in quel luogo-non luogo, nessuno che ne registri e testimoni l'accadere.
L'immagine finale fa pensare a una sorta di allunaggio psichico, nel quale è udibile solo la risata di Luciano a specificare, ci sembra, il suo perdersi nello spazio senza gravità dell'irrealtà della sua esperienza.

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