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lunedì 2 marzo 2015

Mvl cinema - Nessuno si salva da solo

Nessuno si salva da solo, Italia 2015
Regia: uno
Attori: alcuni
Voto: 0,5

G. Luca Chiovelli

Non ho visto questo film, ma il voto assegnato è quello giusto.
Non l’ho visto, ma è una merdata. Lo so. Conosco questi tizi come le mie tasche. Ne conosco tutte le cuciture più minute, i ciuffetti di stoffa, tutto.
Una recensione teppistica? Futurista? Surrealista? Al 99,99% azzeccata. Conosco i miei polli, vi ripeto. E sono anche un blando materialista oggettivo: non ho bisogno, insomma, di pestare continuamente una merda per accertarmi che lo sia davvero. Una regola di vita che applichiamo quotidianamente sulla scorta di quell'inscalfibile detto eracliteo: "Solo per lo sciocco il sole è nuovo ogni giorno". È così. Se non fosse così l'esistenza si frantumerebbe in migliaia di schegge psicotiche. Insomma, se uno scorge del vapore uscire dalla pentola non dovrà immergerci, ahi, la mano; il sillogismo inconscio lavora per lui: vapore, quindi 100 gradi, per cui l’acqua bolle a temperature da ustione, ergo: butto giù il cannolicchio. Utile no?
E io la applico anche qui. Leggo i nomi, vedo le facce, e parte il sillogismo escrementizio.
C’è bisogno di vedere questi film per giudicarli? No.
Sono cattivo? Ma sì, forse lo sono. E se lo sono, lo sono in proprio, questo ci tengo a dirlo. Non ho bisogno che qualcuno mi dica cosa scrivere o pensare, per carità. Tutto quello che vergo cola dal mio cervello. Non ho bisogno di taglia e cuci o copia e incolla di altrui stronzate. Se la devo scrivere, una stronzata, la scrivo in proprio. Se debbo scrivere un pezzo come questo, da maleducato, incivile, irrispettoso monellaccio, lo scriverò da me, costruendo il tutto mattone su mattone; con i miei propri mattoni, però.
Ma torniamo al filmucolo. Ci sono altre ragioni che mi hanno vietato di gustare l'opericciola. Il costo del biglietto, ovvio, e l'indotto a ridosso del biglietto - a discapito del proprio bilancio mensile - che si crea inevitabile: 8,5 euri (biglietto) + 8,5 euri (2° biglietto) + 5 euri (bisboccia al baretto pre-visione) + 20 (blanda bisboccia post-visione) = 42 euri.
Sapete cosa si compra con 42 euri al Todis?
Cinquanta, siori e siore, ben cinquanta (50) cartoni di latte parzialmente scremato. Da un litro.
Qualcuno potrebbe obiettare: potresti eliminare qualche voce.
Sì, ma quale? Il cinema senza aperitivi, caffè e pizze (prima o dopo) non è il cinema da fine settimana. Dobbiamo pur vivere, godendo di tali minutaglie mondane. L'accessorio in tal caso è spesso l'essenziale.
L’uovo di Colombo: si potrebbe eliminare l’inessenziale: la visione del film. Altrimenti non vedo vie d’uscita (infatti è ciò che è accaduto).
Purtroppo (questa è una costante della mia vita) non ricado neanche nelle magiche categorie con sconto annesso: giornalisti leccaculo, operatori culturali, comunali in libera uscita, militari, vecchiardi, latori di speciali carte di credito, efori, ministeriali, disabili, infortunati civili, reduci dell'assedio di Costantinopoli, raccomandati, politicanti, assessori al demanio privato, consiglieri di stato, giudici amministrativi, cialtroni provinciali, gaglioffi locali, satrapi, proconsoli della Bitinia, zingari parastatali.
Certo, uno potrebbe fingersi monco come Tognazzi ne I mostri, ma quelli alla biglietteria son furbini.
E poi c'è il problema del cornetto acustico. Quello costa. Non posso permettermelo. Lo conosciamo tutti (il problema) anche se, per quieto vivere e ossequio alla moda, facciamo finta di nulla: per vedere un film italiano della nuova era della mediocrità (e questo lo è in modo paradigmatico, preclare, accecante) c'é bisogno del cornetto acustico.
Gli attori italiani ... i dialoghi degli attori italiani ... se attori adulti essi bofonchiano ... se adolescenti hanno la zeppola ... se bimbi (i micidiali infanti italiani che recitano nei film italiani) biascicano come ubriachi ... Erode deve aver visto un film italiano, ah sì, non ho dubbi.
Quando gli attori italiani nei film italiani della nuova era del nulla sottovuoto si scambiano tenere parole d'amore o sibilano la loro inquietudine crepuscolare o rampognano il destino, vien voglia di alzarsi in pieno cinema e urlare, contro quel penoso ciangottio: "Prego?".
La s-c-a-n-s-i-o-n-e delle parole ... che il dialogo sia di qualità diarroica passi, ma fammelo capire .... volete sapere come si scandiscono le battute: guardate recitare Franco Volpi in un vecchio sceneggiato RAI ... Il segno del comando, Coralba, A come Andromeda oppure Il sospetto.
Il sospetto, sceneggiato del 1972 tratto dal romanzo omonimo di Friedric Dürrenmatt: un grande, grandissimo Franco Volpi nei panni del superiore del Commissario Barlach: fintamente condiscendente, rispettoso della forma, un po’ untuoso, sbrigativo ... e come s-c-a-n-d-i-s-c-e le parole delle battute ... ah, che meraviglia ... e gli altri attori, poi ... Ferruccio De Ceresa è un medico scrupoloso e tormentato, Paolo Stoppa è Barlach, uomo divorato dal sospetto, Adolfo Celi, luminare misterioso, ambiguo e pericoloso; c’è anche un ammirevole Mario Carotenuto nelle vesti di Gulliver, l'Ebreo Errante ... e chi era 'sta gente? Paolo Stoppa recitò sotto la regia di Luchino Visconti nell'immediato dopoguerra, Celi fu un protagonista del teatro brasiliano (sì, brasiliano), De Ceresa veniva dai palcoscenici genovesi, e da quelli di Strehler e De Filippo, e così via.
Ma il cinema italiano oggi biascica, zeppola, bofonchia ... quale estenuante chiacchiericcio ... un romanzucolo ... stamo a cavallo ... e chi recita poi ... gente che non porterei con me a concimare gli ultimi olivi ... non quali concimatori, beninteso … ma chi sono questi figuri poi ... solo il nostro isolamento culturale dalle correnti culturali del mondo ... l'autismo critico, la partigianeria del volemose bene, il bigottismo di sinistra, la credulità da boccaloni nelle recensioni dei leccapiedi (con la destra scrivo con la sinistra prendo), la faciloneria, la grossolanità, il decadimento totale del gusto e un continuo e feroce allenamento al mediocre può convincerci che questi siano attori sceneggiatori registi ... non sono niente  … niente … solo la ciclopica coglioneria, per usare un termine del più grande diagnosta sociale dell’Italia postunitaria, Silvio Berlusconi … solo quella può convincere gente che addenta un panetto di merda a dichiarare che, in fondo, a ben gustare, proprio lì, in fondo al velopendulo, si ritrova (nel panetto sommenzionato) un certo retrogusto - gran pregio organolettico - di cioccolato fondente … era un pochino amaro, a dir il vero, ma di una pastosità signora mia …
Sto per crepare, ragazzi miei, lo sento.
Quale consolazione prima di tirare le cuoia? Una sola: che di questa Italia, di questo film, di questo ciarpame, non rimarrà niente in piedi, nemmeno una minima nota a pie’ di pagina della più scrofolosa storia del cinema. Niente. Niente.

martedì 14 maggio 2013

mvl Cinema, "Un giorno devi andare", nel segno di un "io" etico


Un giorno devi andare: un film di Giorgio Diritti. Con Jasmine Trinca, Anne Alvaro, Sonia Gessner, Pia Engleberth, Amanda Fonseca Galvao. Durata 110 minuti - Italia, Francia 2013

Patrizia Vincenzoni
Terzo film del regista bolognese nel quale l'estetica poetica sembra essere il prodotto di una soggettiva interrogazione sul senso dell'esistenza, cui si incrociano tematiche di interesse generale. Questa volta Diritti parte dalla perdita, dalla elaborazione del lutto attraversando contesti e accadimenti a forte impatto affettivo e sociale. Tale processo di ri-significazione trova nel suo incontro con comunità umane ai margini del mondo, dimenticate, snodi importanti, punti di attraversamento personali e collettivi.

Augusta, interpretata da una Jasmine Trinca che si offre alla macchina da presa con una spontaneità che ben sottolinea i diversi passaggi emotivi del percorso che il personaggio attua, decide di accompagnare una suora, amica della madre, in Brasile spinta da una doppia perdita: una gravidanza non portata a termine e la separazione, subita, dal marito. La vediamo iniziare un viaggio lungo il fiume che attraversa l'Amazzonia a bordo di una barca con la suora impegnata a portare il Vangelo agli indios che vivono lungo le sue sponde. Augusta sente il bisogno di proseguire per conto proprio, avvicinandosi in modi diversi agli abitanti del fiume e prendendo in affitto una stanza in una favela a Manaus.
In modo parallelo vediamo la madre di Augusta iniziare a sua volta un suo percorso, cercando di uscire a sua volta dal lutto relativo alla morte non recente del marito, grazie alla graduale partecipazione a una comunità religiosa arroccata alle pendici di una montagna, nel nord dell'Italia.
Diritti ci fa vedere le contraddizioni della comunità religiosa impegnata nei villaggi, nella quale entra anche una logica decisionale che non tiene conto del tutto delle prospettive culturali e dei bisogni degli indigeni.

venerdì 10 maggio 2013

mvl Cinema, "Miele" amaro


Patrizia Vincenzoni
Al suo esordio come regista, l'attrice Valeria Golino sorprende per la maturità stilistica ed espressiva con la quale ha diretto un film che tratta del suicidio assistito, un film sceneggiato e girato in modo misurato e autorevole, senza alcuna presa di posizione ideologica, ma capace di sollecitare una serie di domande e riflessioni su un argomento attualmente così controverso, avvalendosi delle interpretazioni intense e dialetticamente sintoniche di Jasmine Trinca e di Carlo Cecchi.
Miele è il nome fittizio di Irene, una giovane donna che aiuta a morire malati terminali facendone un lavoro che svolge in modo determinato, spinta anche da un senso di pietà che si declina in modo rituale e emotivamente non coinvolgente.
La prima immagine con cui si apre il film riprende, al di là di una porta a vetri, la protagonista mentre compie gli atti finali del suo lavoro: spesso la vediamo oltre un vetro, posizione che sembra significare una non integrazione di parti d'esperienza di sé e una impossibilità di contatto reale anche con l'ambiente umano.
La casa che abita di fronte al mare, disadorna e lasciata vivere di vita propria, che le corrisponde e la ritaglia nella sua umanità devitalizzata, sembra essere il luogo che accoglie il bisogno di provvisorietà e di frammentazione che la caratterizza. E poi c'è il mare, l'immersione quotidiana con l'elemento naturale al quale possiamo anche attribuire significati simbolici man mano che si snoda il racconto del film. Le immagini delle nuotate con la macchina da presa posizionata verso il fondo rilevano le bracciate impetuose e la foga con la quale cerca un contatto rivitalizzante e ristrutturante a un senso di Sé ferito e discontinuo. È come se cercasse un abbraccio impossibile con l'elemento materno rappresentato dal mare e questa ricerca la estenua, la restituisce, ogni volta, naufraga sulla spiaggia racchiusa dentro la corazza difensiva della tuta che 'indossa'.

lunedì 15 ottobre 2012

mvl Cinema, C'è realtà e "Reality"


Patrizia Vincenzoni
Il mondo che Reality (di Matteo Garrone) ci presenta è quello nel quale finzione e realtà si sovrappongono, dando luogo a un concretismo, orfano, quindi, del piano simbolico che invece rende possibile il sogno, il desiderio e l'affermazione più autentica di sé. Sin dalle prime inquadrature il film ci proietta in una sorta di fronte di guerra mediatica, nel quale sicuramente il bisogno preminente è apparire, ma l'omologazione di massa a questo rito crea, anche visivamente, un'ambientazione interiore e collettiva nella quale si muovono personaggi (o per meglio dire identificazioni in personaggi), che si sostituiscono alle stesse persone, tutte prese in questa ricerca disperata e disperante di identificazioni con i nuovi re Mida del protagonismo a tutti i costi.
Questi soldatini mediatici sono colti nell'impegno di sconfiggere disperazione e povertà anche ambientale (dalla quale emerge la diserzione della Cosa pubblica), partecipando inconsapevolmente a riti per i quali si 'addobbano' come luminarie da accendere alle feste di paese, complici i corpi che mostrano gli eccessi, l"'opulenza" fuori misura delle fisicità e degli abiti con i quali rivestirle, bulimia di cose e di bisogni che fanno dell'entrare nei contenitori televisivi mediatici  l'aspirazione esistenziale più forte e presente, decisiva.
Il ritorno dopo la festa, collettiva ma estranea allo stesso tempo, nella quale si festeggiano più matrimoni contemporaneamente in queste location nelle quali tutto è ridondante e artificioso, come lo è il divertimento con le sue nuove regole, i suoi eccessi, ci proietta in un silenzio dove è possibile la svestizione dei panni indossati dai personaggi e ci restituisce per un attimo le persone colte nella loro spoglia e tenera umanità.

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