Patrizia
Vincenzoni
Al
suo esordio come regista, l'attrice Valeria Golino sorprende per la
maturità stilistica ed espressiva con la quale ha diretto un film
che tratta del suicidio assistito, un film sceneggiato e girato in
modo misurato e autorevole, senza alcuna presa di posizione
ideologica, ma capace di sollecitare una serie di domande e
riflessioni su un argomento attualmente così controverso,
avvalendosi delle interpretazioni intense e dialetticamente
sintoniche di Jasmine Trinca e di Carlo Cecchi.
Miele
è il nome fittizio di Irene, una giovane donna che aiuta a morire
malati terminali facendone un lavoro che svolge in modo determinato,
spinta anche da un senso di pietà che si declina in modo rituale e
emotivamente non coinvolgente.
La
prima immagine con cui si apre il film riprende, al di là di una
porta a vetri, la protagonista mentre compie gli atti finali del suo
lavoro: spesso la vediamo oltre un vetro, posizione che sembra
significare una non integrazione di parti d'esperienza di sé e una
impossibilità di contatto reale anche con l'ambiente umano.
La
casa che abita di fronte al mare, disadorna e lasciata vivere di vita
propria, che le corrisponde e la ritaglia nella sua umanità
devitalizzata, sembra essere il luogo che accoglie il bisogno di
provvisorietà e di frammentazione che la caratterizza. E poi c'è il
mare, l'immersione quotidiana con l'elemento naturale al quale
possiamo anche attribuire significati simbolici man mano che si snoda
il racconto del film. Le immagini delle nuotate con la macchina da
presa posizionata verso il fondo rilevano le bracciate impetuose e la
foga con la quale cerca un contatto rivitalizzante e ristrutturante a
un senso di Sé ferito e discontinuo. È come se cercasse un
abbraccio impossibile con l'elemento materno rappresentato dal mare e
questa ricerca la estenua, la restituisce, ogni volta, naufraga sulla
spiaggia racchiusa dentro la corazza difensiva della tuta che
'indossa'.
L'incontro
con l'ingegnere Carlo Grimaldi che chiede il suo aiuto per compiere
il suicidio, rompe la routine cui Irene/Miele si è consegnata,
facendo della frammentazione (ben delineata anche dalle sequenze di
immagini del film) e dell'isolamento le principali coordinate
esistenziali. Questo vivere lontana dagli altri è sostenuto anche
dalla necessità di tenere celata la realtà del suo operato che le
impone anche la regola di essere presente, restando però sullo
sfondo, una volta esaurite le prassi che le spettano, in queste
camere dove si consuma la sofferenza nei confronti di una vita non
più accettata cosi come è. Vite nelle quali la presenza della
malattia terminale costituisce per Irene/Miele il motivo etico della
sua scelta, come afferma all'ingegnere che non ha una grave malattia
fisica, ma una depressione esistenziale e un'insofferenza profonda
verso ogni forma di volgarità diffusa e la ripetizione fine a se
stessa che assegna alla sua vita e a ciò che, egli dice, lo
circonda.
Inizia
un rapporto significativo, nel quale le funzioni paterne assunte da
Carlo permettono a Irene di raccontare di sé offrendo all'altro la
sua fragilità e la sua sofferenza emotiva. Tale intimità permette
l'emersione del dolore affettivo per la morte della madre, fino ad
allora obliato. La memoria anche emotiva riaffiora con le immagini
dell'infanzia, flashback che rendono possibile un superamento della
dissociazione e un'assunzione di quegli elementi affettivo-cognitivi
traumatici relativi alla morte della madre. Il legame affettuoso
breve e intenso che hanno li aiuta a rivedere decisioni e a
contattare l'affetto così a lungo esiliato dal loro sentire e dalle
loro vite. Entrambi, anche se in modo totalmente diverso, raggiungono
la possibilità di abbandonare difese e isolamento emotivo e arrivare
a una consapevolezza che restituisce un senso di Sé unitario e
coerente, permettendo a Irene di riaprirsi alla fiducia e speranza
verso la vita.
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