Maria Cristina Reggio
Quante volte un figlio diventa unʼarma che si scaglia contro il proprio genitore? Non è neppure necessario che questi sia il padre (o la madre) biologico: al figlio, o alla figlia, viene conferito lʼincarico di distruggere il padre e il sistema che egli ha instaurato, anche se questʼultimo non è affatto ordinato ed è il frutto di una rivoluzione interiore o sociale contro un precedente "ordine" precostituito. Quello dellʼuccisone del padre è un tema tragico per eccellenza nella civiltà occidentale: più come paura del padre che come avvenimento messo in atto, giacché tanti sono i padri mitologici che, per timore di esser uccisi dai loro figli, li hanno esiliati, divorati, oppure hanno dato ordine di eliminarli.
Quante volte un figlio diventa unʼarma che si scaglia contro il proprio genitore? Non è neppure necessario che questi sia il padre (o la madre) biologico: al figlio, o alla figlia, viene conferito lʼincarico di distruggere il padre e il sistema che egli ha instaurato, anche se questʼultimo non è affatto ordinato ed è il frutto di una rivoluzione interiore o sociale contro un precedente "ordine" precostituito. Quello dellʼuccisone del padre è un tema tragico per eccellenza nella civiltà occidentale: più come paura del padre che come avvenimento messo in atto, giacché tanti sono i padri mitologici che, per timore di esser uccisi dai loro figli, li hanno esiliati, divorati, oppure hanno dato ordine di eliminarli.
Il padre protagonista di questo dramma moderno, Lʼarma, con la regia di Aureliano
Amadei, tratto da un testo di Duccio Camerini, (in scena al Teatro Vascello
fino al 12 maggio) è un "morto che parla", ovvero un padre
disgraziato, fatto a pezzi da una figlia adottiva e giovinetta: un padre che narra
la propria storia al figlio naturale in una baracca su una montagna dove ha
vissuto con quella stessa figlia, lontano
dal mondo. Ma in scena niente baracche e
montagne: solo un beckettiano albero secco sotto al quale siedono, uno accanto
allʼaltro, i tre personaggi, poi altri pezzi di tronchi recisi disseminati sul
palco, con asce e falcetti conficcati nella "legnosa carne" degli
alberi, una pedana che si muove orizzontalmente azionata a braccia dagli attori
e, sul fondo la proiezione di grande cielo
in tempesta che cambia colore.
Durante tutto lo spettacolo, i tre protagonisti fanno poco: si avvicinano e si allontanano, entrano ed escono in scena salendo e scendendo dal pavimento della pedana nella quale si aprono alcune botole, ma soprattutto parlano moltissimo, sovrapponendo lʼuna sullʼaltra le loro voci, al punto che, per gli spettatori, è difficile seguire il filo dei discorsi e la successione temporale degli eventi, per non parlare dei fatti narrati. Per esempio, solo da qualche battuta sporadica si scopre che il regista ha scelto di fare parlare il padre come se fosse vivo e vegeto, sovrapponendo i piani temporali delle esistenze dei tre personaggi, mentre la sua voce dovrebbe in realtà provenire da un registratore che il figlio trova nella baracca, dopo la morte del padre.
Durante tutto lo spettacolo, i tre protagonisti fanno poco: si avvicinano e si allontanano, entrano ed escono in scena salendo e scendendo dal pavimento della pedana nella quale si aprono alcune botole, ma soprattutto parlano moltissimo, sovrapponendo lʼuna sullʼaltra le loro voci, al punto che, per gli spettatori, è difficile seguire il filo dei discorsi e la successione temporale degli eventi, per non parlare dei fatti narrati. Per esempio, solo da qualche battuta sporadica si scopre che il regista ha scelto di fare parlare il padre come se fosse vivo e vegeto, sovrapponendo i piani temporali delle esistenze dei tre personaggi, mentre la sua voce dovrebbe in realtà provenire da un registratore che il figlio trova nella baracca, dopo la morte del padre.
Se, dunque, ai fini della comprensione del testo scenico,
non è importante la successione lineare dei dialoghi, e neppure quella degli eventi e delle azioni, cosa
resta di questo spettacolo visto al Vascello, che pure colpisce
come se fosse un montaggio filmico di sequenze sonore frantumate, tanto
brevi quanto intense? La risposta viene da un elemento scenico incongruente e
per questo curioso, che "colpisce" lʼattenzione, proprio per via della sua apparente inutilità. Infatti al centro del palco cʼè una pedana,
che figurativamente rappresenta in forma simbolica la baracca, ma che
svolge, piuttosto, la funzione di un
dispositivo sonoro. Infatti, il suo spostamento, azionato dallo sforzo fisico
dei personaggi che letteralmente "tirano" una corda che la fa
scorrere in orizzontale, non serve a creare alcun cambio di scena, ma genera solo un suono di vento impetuoso, di
tormenta, che ricorda il rumore spaventoso dei temporali in montagna. È un
boato, un fruscio che assorbe tutti gli altri rumori e "si porta via"
letteralmente i dialoghi, perché in gergo tecnico "audio" si dice
che li maschera, ovvero li nasconde.
É questo un vento montano che situa il dramma in una
solitudine infinita, un vento doloroso che fa porre attenzione non tanto alle
parole, quanto al grido angoscioso delle voci dei tre personaggi. Grida che si
sovrastano, voci che forse hanno tanto da dire, ma che nessuno rivolge direttamente
all'altro, perché ciascuno affronta un proprio sordo monologo, rivolto solo al
proprio passato e agli spettatori: rabbioso e disperato il calore della voce
del padre interpretato dallʼesperto Giorgio Colangeli, adeguatamente incerta e
rassegnata, ricca di pause, la voce imberbe di Andrea Bosca nei panni del
figlio, aspra e marcata da un'innocente quanto adolescente cadenza romanesca,
la voce stentorea della figlietta omicida, impersonata da una bravissima e acerba
esordiente, Maria Chiara Di Mitri.
Il compito di queste voci è di "forzare", ciascuna,
lʼattenzione degli spettatori sul personaggio a cui appartiene , creando quellʼeffetto
di primo piano che nel cinema è affidato allʼinquadratura, e che,
attraverso un rapido montaggio
cinematografico sincopato che qui assomiglia più alla televisione che al
cinema, "rompe" la linearità del racconto, proiettando, sullo
schermo, uno dietro lʼaltro, immagini forti, squarci di racconto, brevi
"flash" che sminuzzano il tempo in rapidi passaggi dal presente al
passato e viceversa. Il risultato è
interessante dal punto di vista sperimentale, ma, forse, rischia di
sovraccaricare quegli spettatori che si sforzano ancora ad ogni costo di infilare
una dietro lʼaltra le situazioni di una pièce teatrale e di comprendere le
battute e le risposte che danno senso ai dialoghi dei personaggi di un dramma.
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