Ti racconto un libro:
Fouad Laroui, L'esteta radicale, Del Vecchio, traduzione di Cristina Vezzaro, pp.156, euro 13
Fouad Laroui, L'esteta radicale, Del Vecchio, traduzione di Cristina Vezzaro, pp.156, euro 13
Fabio
Cenciarelli
La
scelta di un libro è sempre stata per me come una piccola caccia al
tesoro. Imbattermi ne L'esteta
radicale
di Fouad Laroui lo ritengo sicuramente un colpo di fortuna.
Fouad
Laroui, nato a Oujda nel 1958, ma originario di El Jadida (vicino
Casablanca), è uno scrittore marocchino che vive da vent'anni in
Europa. In un divertente aneddoto racconta come la sua scelta di
voler proseguire gli studi universitari in Francia con indirizzo
letterario sia stata poi arbitrariamente direzionata dal fatidico
professor Pizzagalli, un nome che certamente Laroui non ha
dimenticato, verso gli studi di Matematica superiore. Così Laroui,
dopo una laurea in ingegneria in Francia, arriverà a insegnare
economia, scienze ambientali, poi epistemologia e finalmente
letteratura francese ad Amsterdam dove si trasferirà.
Non
è un azzardo osservare che questa sua poliedricità risalti in modo
piuttosto evidente, anche se sotto una forma più esplicitamente
letteraria, nella raccolta di racconti brevi che compongono L'esteta
radicale.
Una serie di storie che traggono il pretesto dalle conversazioni di un
gruppo di amici riuniti a un tavolo del Cafè de l'Univers, a
Casablanca. Se alcune storie partono direttamente dalle voci di
Hamid, Rachid, Ali o Nagib, altre invece sono narrazioni in qualche
modo indirette, non si servono cioè dell'introduzione di nessuno dei
giovani marocchini che ingannano il loro tempo seduti a questo bar
dal nome così evocativo.
Il
titolo originale del libro (Le Jour où Malika ne s'est pas
mariée) è quello del primo degli otto racconti e per quanto la
scelta del titolo per l'edizione italiana possa apparire fuorviante,
la ritengo invece azzeccata quanto accattivante. Proprio L'esteta
radicale (il sesto degli otto racconti complessivi) è infatti
quello che più ha toccato le mie corde – confermandomi, ma questa
è una considerazione del tutto personale, come nella complessiva
riuscita di un libro giochi il suo ruolo anche un buon
confezionamento.
Riguardo
al racconto in questione, se da una parte è a dir poco esilarante la
disquisizione del commissario Dubonnet e del suo subalterno Larcher
intorno al luogo di un tragico incidente, è altrettanto curioso
scoprire il motivo di un titolo così altisonante. L'equivoco intorno
a un risibile problema di estetica del protagonista diventa il
pretesto per mettere in evidenza i più diffusi luoghi comuni sulla
cultura araba. Ad
ogni modo lo stile ironico e sottilmente amaro di Laroui, la sua
sensibilità cristallina e l'originalità delle sue trovate che,
attingendo a banali stereotipi, danno poi il là a considerazioni di
più ampia portata, fanno delle storie di Laroui un mosaico di
spaccati da non perdere. I racconti dell'autore marocchino diventano
così un'occasione ulteriore per riflettere su quello che ancora oggi
risulta essere un gap significativo (e ancora tutto da colmare) tra
due mondi, quello arabo e quello occidentale, che sembrano avere come
unico filtro comune quel vecchio televisore stilizzato che appare
sulla copertina. Un filtro che quasi inevitabilmente distorce le due
realtà, facendo trasparire esclusivamente gli aspetti più
grossolani e forse anche superficiali di due culture, distanti sì ma
non per questo impossibili da conciliare.
Due link interessanti:
Nota: Il Prix Goncourt de la nouvelle 2013 è stato assegnato a Fouad Laroui per la sua ultima raccolta di racconti, L'étrange affaire du pantalon de Dassoukine (Juilliard)
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