Il 3 Novembre 1944 il maggiore della Wermacht Klaus Erhardt, compagnia guastatori della 305^ divisione, assieme al proprio sottufficiale Strauss, si presenta alla caserma delle Brigate Nere di Sarzana, presso l’albergo Laurina; in un tedesco scandito e apodittico intima al piantone di metterlo immediatamente in contatto con il Comandante del presidio: formazioni partigiane minacciano il nodo ferroviario della cittadina; si rende necessaria, quindi, una strategia di difesa tempestiva e comunemente concertata. Il milite, forse soggetto alla fascinazione del grado, socchiude il portone; sopraggiunge anche il vice comandante fascista; egli non ama i propri alleati: osserva alternativamente il proprio sottoposto e i due ufficiali germanici in tenuta verde oliva; un nervo dell’occhio, teso da un istinto animale, forse intona involontariamente le fattezze in un’interrogazione di sospetto; è il prodromo di un rifiuto? Il momento, quasi banale nella propria apparente normalità, cambia, però, natura e si anima fulmineo: Erhardt e Strauss, improvvisamente, spazzano l’aria con le raffiche roventi delle machinenpistole e forzano il blocco mentre i fascisti, feriti, urlano al tradimento rovinando nel proprio sangue ...
Il
maggiore, in realtà, è il capitano della marina tedesca Rudolf Jacobs, Strauss
il proprio attendente, l’austriaco Paul; entrambi erano passati nella
formazione partigiana Ugo Muccini esattamente due mesi prima ed ora
capeggiavano un manipolo di forze miste (italiani, tedeschi, russi, polacchi).
Il
colpo di mano fallirà: Rudolf Jacobs troverà la morte, Paul rimarrà ferito (1).
Da
allora la figura del tedesco partigiano subirà una damnatio memoriae di quasi venti anni; egli attrasse l'inevitabile silenzio
dell’una e dell’altra parte poiché partecipava in egual misura all'onta dell’aguzzino
e del traditore (in Germania era repertato come ‘disperso’). Solo nel 1957 la
moglie seppe il modo in cui era morto.
Ora
Rudolf Jacobs è medaglia d’argento al valor militare.
Nel
1985 la RAI girò un documentario, Tradimento
(diretto da Ansano Giannarelli), in cui venivano ripercorse le vicende assieme
al figlio, Rudolf junior; nel 1990 la città natale, Brema, gli dedicherà una
mostra. Sarà però il regista Luigi Faccini (nativo di Lerici) a farne un
personaggio centrale della Resistenza, prima con un libro, L’uomo che nacque morendo (del 2005), poi con il docu-film omonimo (2011), girato con l'ausilio di Marina Piperno.
Nella
doppia ricostruzione, necessariamente romanzata, Faccini profonde lodevoli
ricerche d’archivio, ipotesi, accenni, tentativi. Il torso del carattere di
Jacobs viene finalmente sbozzato con più sicurezza, nonostante inevitabili lacune
documentali che, tuttavia, hanno il pregio di accrescere l’aura leggendaria di una
vita al limite. E la decisione di Jacobs, quella di farsi disertore e poi
combattente contro la propria patria, esornata da una frase nobilissima (“Darei la mia vita pur di abbreviare di un
solo minuto questa guerra insensata”), sembra, a prima vista, la
risoluzione d’un animo democratico in cui il senso morale non viene taciuto dai
giuramenti e dalla lealtà verso la propria nazione.
E
forse è così.
Tale
lettura risulta, però, inappagante. Nonostante il lavoro di Faccini, la sequenza
di aneddoti risulta frammentaria come una serie di sparse diapositive d’una
pellicola sconosciuta. La nostra sensibilità intuisce una sostanza più ampia, e
ancora imperscrutata. Si sente il dovere, quindi, di ricostruire il fondale psicologico
contro cui l’atto di Jacobs possa risaltare con più nettezza.
Tahar
Ben Jelloun dirà: “Per capire la vita di
un uomo, si deve inghiottire il mondo intero”. Diciotto secoli addietro Plotino
l’aveva preceduto: “Ogni cosa è tutte le
cose. Il sole è tutte le stelle, e ciascuna stella è tutte le stelle e il sole”.
Un dio, insomma, potrebbe misurare e valutare tutte le minime variazioni di un
cuore umano (poiché in lui è la conoscenza immediata delle anime di tutto il
creato), ma, ai nostri occhi, anche l’azione più leggibile è rigata dall’ombra.
Persino le nostre stesse decisioni a volte ci sorprendono, accese come sono da pulsioni
che rimangono celate.
Per
capire davvero il partigiano Jacobs dovremo, quindi, accontentarci solo di una
povera illazione, questa: che il corpo profondo dell’anima germanica (Kultur) entrò, per dodici anni, in un
conflitto immane e sotterraneo con l’anima democratica europea (Zivilisation) e che molti tedeschi, e
tra questi il capitano della Kriegsmarine Rudolf Jacobs, lo risolsero in favore
della libertà esercitando una violenza eroica contro la lealtà e l’onore del
sangue che incombevano da un passato millenario.
Tali
due metafore (Kultur e Zivilisation) si trovano delineate in
uno scritto di Thomas Mann del 1918, Considerazioni
di un impolitico. Non era ancora il Mann cantore europeo della democrazia,
anzi; nel 1915 aveva licenziato Pensieri
in guerra (Gedanken im Kriege) in
cui berciava: “Guerra! La sentimmo come
purificazione, liberazione e un’immensa speranza”. Le Considerazioni sono addirittura più oltranziste; egli enuncia, in
breve: “La germanicità è cultura, anima, libertà, arte e non civilizzazione,
società, diritto di voto, letteratura”. Questi due magneti possenti, Kultur e Zivilisation, attraggono il metallo di altri concetti: Kultur è terra, sangue, istinto,
immediatezza, idee senza parole, ascesa, aristocrazia, totalità, altezza, forza;
Zivilisation è politica, democrazia,
chiacchiera, decadenza, mercantilismo, plebe intellettuale, frivolezza, ordinarietà.
In seguito Thomas Mann si distaccherà nettamente da tale visione (anche in
seguito alla rovinosa e umiliante sconfitta subita dalla Germania nella Grande
Guerra); nel 1933, quattro anni dopo il Nobel, all’ascesa di Hitler, sceglierà
l’esilio, accompagnato dalle opportune fanfare libertarie; che suonano ancor
oggi.
Ma
quello scritto, potentemente sincero, rivela ciò che agiva nei recessi dell’anima
tedesca.
La
Kultur era il cuore stesso del
germanesimo, quell’impasto inestricabile di fatalismo e decisione che si può persino scorgere nei radi componimenti
della lirica pagana germanica sopravvissuta. Ma tale essenza, che, piaccia o
no, volle incarnarsi storicamente nel nazismo, era minata proprio dalla
civilizzazione, entrata, quale contravveleno, nel sangue antico del popolo. I
tedeschi, in diversa misura, avvertirono oscuramente che la loro anima eterna,
addolcita da millenni di convivenza civile con gli altri popoli europei, questa
volta errava mostruosamente.
Solo
tale cattiva coscienza può spiegare il gesto, ora forse in piena luce, di
Jacobs; e quello di numerosi esiliati e resistenti interni (2);
spiega, inoltre, la sconfitta inevitabile; e rende ragione del perché alcuni intellettuali
eminenti che subirono il fascino del nazismo avvertissero i richiami del demone
segreto del rimorso, tanto più forte quanto più sensibile era la personalità
coinvolta: Carl Schmitt intrattenne relazioni epistolari con Jacob Taubes; Martin
Heidegger amò Hannah Arendt, Gottfried Benn la poetessa Else Lasker-Schüler
(che gli dedicherà questo bel distico: “E
il tuo labbro che era uguale al mio/ora è puntato, cieco, come una freccia su
di me”). Taubes, Arendt, Schüler, tre ebrei.
Quattro
anni dopo la fine della guerra, sarà Borges a sintetizzare, in poche righe, tale
conflitto interiore:
“Essere nazisti … è, alla lunga,
un’impossibilità mentale e morale … Nessuno, nella solitudine centrale del suo
io, può desiderare che trionfi. Arrischio questa ipotesi: Hitler vuol essere
sconfitto. Hitler, in modo cieco, collabora con gl’inevitabili eserciti che lo
annienteranno, come gli avvoltoi di metallo e il drago (che non dovettero
ignorare ch’erano mostri) collaboravano, misteriosamente, con Ercole”.
Ma
la scelta del capitano Jacobs appare ancor più eroica poiché la rivolta non si
limitò né alla fuga né al compromesso né all’omertà e fu agita in piena
coscienza e nell’incertezza della vittoria. Si ribellò non solo al proprio
tempo, ma al tempo infinito del popolo al quale apparteneva; da vero cittadino
del mondo.
Morì
e fu sepolto a Sarzana, dove anche un altro celebre esule, Guido Cavalcanti, consumò
gli ultimi giorni (3),
consunto dalle febbri malariche. E forse fu qui che il poeta, esiliato anche per ordine d'uno dei priori di Firenze, Dante Alighieri (il ‘primo amico’), compose la
celeberrima Perch’i’ no spero, ripresa
pure da Thomas Eliot.
Guido Cavalcanti, che sa di non tornare e di
non rivedere i volti cari (4),
congeda la semplice ballata (ballatetta, la chiama) e le ingiunge di andare,
piana e leggera, alla sua donna per recare notizie di sé e del suo amore
sincero.
Noi,
713 anni dopo, la facciamo nostra e la dedichiamo a Jacobs, che lasciò in
patria moglie e figli, e non ebbe modo di spiegare la grandezza e il
significato del suo gesto.
Perch’i’
no spero di tornar giammai,
ballatetta,
in Toscana,
va’
tu, leggera e piana,
dritt’
a la donna mia,
che
per sua cortesia
ti
farà molto onore.
Tu
porterai novelle di sospiri
piene
di dogli’ e di molta paura;
ma
guarda che persona non ti miri
che
sia nemica di gentil natura:
ché
certo per la mia disaventura
tu
saresti contesa,
tanto
da lei ripresa
che
mi sarebbe angoscia;
dopo
la morte, poscia,
pianto
e novel dolore.
Tu
senti, ballatetta, che la morte
mi
stringe sì, che vita m’abbandona;
e
senti come ’l cor si sbatte forte
per
quel che ciascun spirito ragiona.
Tanto
è distrutta già la mia persona,
ch’i’
non posso soffrire:
se
tu mi vuoi servire,
mena
l’anima teco
(molto
di ciò ti preco)
quando
uscirà del core.
Deh,
ballatetta mia, a la tu’ amistate
quest’anima
che trema raccomando:
menala
teco, nella sua pietate,
a
quella bella donna a cu’ ti mando.
Deh,
ballatetta, dille sospirando,
quando
le se’ presente:
«Questa
vostra servente
vien
per istar con voi,
partita
da colui
che
fu servo d’Amore».
Tu,
voce sbigottita e deboletta
ch’esci
piangendo de lo cor dolente,
coll’anima
e con questa ballatetta
va’
ragionando della strutta mente.
Voi
troverete una donna piacente,
di
sì dolce intelletto
che
vi sarà diletto
starle
davanti ognora.
Anim’,
e tu l’adora
sempre,
nel su’ valore.
Luigi
Monardo Faccini, L’uomo che nacque
morendo, Ippogrifo, 2005
Paolo
Galantini, Ricordo del partigiano tedesco
Rudolf Jacobs, in “La Resistenza nello Spezzino e nella Lunigiana”, Ed.
I.S.R., 1973.
Andrea
Ranieri, Il nazista che fece la
Resistenza, “L’Unità”, 25 Aprile 2004
AA.vv.
(a cura di Arnaldo Benini e Arno Schneider), Thomas Mann nella storia del suo tempo, Passigli, 2007
Thomas
Mann, Considerazioni di un impolitico,
Adelphi, 1997
Jorge
Luis Borges, Annotazione al 23 Agosto
1944, in L’Aleph, Feltrinelli,
1989
Peter
Hoffmann, Tedeschi contro il nazismo. La
Resistenza in Germania, Il Mulino, 1994
Luigi Monardo Faccini, Rudolf Jacobs (DVD), Ippogrifo Liguria, 2011
Luigi Monardo Faccini, Rudolf Jacobs (DVD), Ippogrifo Liguria, 2011
Ansano Giannarelli, Tradimento, RAI, 1985 (Documentario)
(1) L’attendente di Rudolf Jacobs è
una figura ancor più tragica. Fedele al proprio ufficiale (non voleva
abbandonarne il cadavere ai fascisti), durante il conflitto riuscì a passare la
linea e approdare nei territori liberati. Fu gettato in un campo di prigionia e
trattato come nemico. Non se ne conosce il nome. Sarebbe bello se i posteri gli rendessero giustizia.
(2) Peter Hoffmann, Tedeschi contro il nazismo. La Resistenza in
Germania, Il Mulino, 1994.
(3) In realtà morirà a Firenze pochi
giorni dopo il rientro.
(4) Nello sceneggiato RAI Vita di Dante (1965), Luigi Vannucchi,
che interpreta Guido, recita la poesia sul letto di morte, con una licenza
poetica che approviamo in pieno.
Grazie di cuore per un post profondo e commovente. Jacobs rientra in una galleria fotografica di Persone Meritevoli senza steccati, persone comuni, grandi artisti, scienziati, che formano per me la summa del Bene.
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