Ti racconto un libro:
Barbara Raggi, Baroni di razza,
Editori Riuniti, pp. 216, euro 22,90
G. Luca Chiovelli
Questo saggio si potrebbe tranquillamente titolare La casta. Appendice I. L’accademia italiana sotto il fascismo. Quasi tutti abbiamo perlomeno dato un’occhiata al libro di Stella e Rizzo, ci siamo indignati per il comportamento di coloro che abbiamo votato per decenni (ma non per il nostro comportamento che li ha legittimati), poi siamo tornati alle nostre occupazioni con il trito sentimento che accompagna sovente il lettore medio durante tale escursioni di coscienza civica: il presente non che è una degenerazione del passato, allora si stava meglio, nel dopoguerra vi era più sobrietà e tante belle cose. Gli stessi autori, abbastanza chiaramente, autorizzavano una tale interpretazione.
Purtroppo non è così.
Di cosa parla il libro della Raggi? Apparentemente di come un folto gruppo di accademici italiani (anche di livello altissimo) assecondarono la politica razzista del regime fascista decretando, di fatto, l’applicazione delle leggi razziali del 1938 (e del conseguente Tribunale della Razza dove alcuni magistrati attribuivano o meno patenti di italianità a individui e famiglie); e di come, tale gruppo di baroni, di razza appunto, sfuggì alle epurazioni del dopoguerra riconquistando carriere, privilegi, stipendi e pensioni ad onta delle scelte infami operate.
Barbara Raggi, Baroni di razza,
Editori Riuniti, pp. 216, euro 22,90
G. Luca Chiovelli
Questo saggio si potrebbe tranquillamente titolare La casta. Appendice I. L’accademia italiana sotto il fascismo. Quasi tutti abbiamo perlomeno dato un’occhiata al libro di Stella e Rizzo, ci siamo indignati per il comportamento di coloro che abbiamo votato per decenni (ma non per il nostro comportamento che li ha legittimati), poi siamo tornati alle nostre occupazioni con il trito sentimento che accompagna sovente il lettore medio durante tale escursioni di coscienza civica: il presente non che è una degenerazione del passato, allora si stava meglio, nel dopoguerra vi era più sobrietà e tante belle cose. Gli stessi autori, abbastanza chiaramente, autorizzavano una tale interpretazione.
Purtroppo non è così.
Di cosa parla il libro della Raggi? Apparentemente di come un folto gruppo di accademici italiani (anche di livello altissimo) assecondarono la politica razzista del regime fascista decretando, di fatto, l’applicazione delle leggi razziali del 1938 (e del conseguente Tribunale della Razza dove alcuni magistrati attribuivano o meno patenti di italianità a individui e famiglie); e di come, tale gruppo di baroni, di razza appunto, sfuggì alle epurazioni del dopoguerra riconquistando carriere, privilegi, stipendi e pensioni ad onta delle scelte infami operate.
Questo però è il livello visibile. Sotto l’epidermide incombe una verità semplice da svelare, ma che nessuno ama riconoscere ovvero che la classe intellettuale italiana, composta da magistrati, scienziati, umanisti, artisti (quella che supporta tuttora la casta di Stella e Rizzo) era ed è, oggi Maggio 2013, vergognosamente conformista e illiberale. Più avanti definiremo in maniera più stringente il termine conformista.
Quando, il 28 Agosto 1931, Mussolini chiese ai docenti universitari italiani di giurare fedeltà alla monarchia e al fascismo, solo uno sparuto gruppo (uno su mille, come vantò la stampa fascista con i consueti toni gradassi) dichiarò esplicitamente, come il Bartleby di Melville, “I prefer not”[1]; vogliamo ricordarne i nomi:
Ernesto Buonaiuti (storia del cristianesimo)
Mario Carrara (antropologia criminale)
Gaetano De Sanctis (storia antica)
Giorgio Errera (chimica)
Giorgio Levi Della Vida (lingue semitiche)
Piero Martinetti (filosofia)
Fabio Luzzatto (diritto civile)
Bartolo Nigrisoli (chirurgia)
Francesco Ruffini (diritto ecclesiastico)
Edoardo Ruffini Avondo (storia del diritto)
Lionello Venturi (storia dell'arte)
Vito Volterra (fisica matematica)
Possiamo aggiungervi Giuseppe Antonio Borgese e Piero Sraffa, volontariamente esuli. I tre tronconi politici dell’Italia novecentesca (cattolici, comunisti e liberali), rappresentati icasticamente dal Papa, da Palmiro Togliatti e da Benedetto Croce, si acconciarono, con motivazioni più o meno articolate, a prestare giuramento di fedeltà a chi, teoricamente, negava i fondamenti delle loro dottrine (cattoliche, comuniste e liberali).
Di un corpo di intellettuali così docile il fascismo non poteva che disporre a piacimento, ricevendone in cambio entusiasmi, compiacimenti, silenzi, in una simbiosi malsana che affratellava tutti.
Il 15 Luglio del 1938 viene pubblicato il Manifesto della Razza, che, pur ascritto in larga parte a Benito Mussolini stesso, risulta esteso da una decina di scienziati. Vogliamo ricordarne i nomi:
- Lino Businco, Assistente alla cattedra di patologia generale all'Università di Roma
- Lidio Cipriani, Professore incaricato di Antropologia all'Università di Firenze
- Arturo Donaggio, Direttore della Clinica Neuropsichiatrica dell'Università di Bologna, Presidente della Società Italiana di Psichiatria
- Leone Franzi, Assistente nella Clinica Pediatrica dell'Università di Milano
- Guido Landra, Assistente alla cattedra di Antropologia all'Università di Roma
- Nicola Pende, Direttore dell'Istituto di Patologia Speciale Medica dell'Università di Roma
- Marcello Ricci, Assistente alla cattedra di Zoologia all'Università di Roma
- Franco Savorgnan, Professore Ordinario di Demografia all'Università di Roma, Presidente dell'Istituto Centrale di Statistica
- Sabato Visco, Direttore dell'Istituto di Fisiologia Generale dell'Università di Roma, Direttore dell'Istituto Nazionale di Biologia presso il Consiglio Nazionale delle Ricerche
- Edoardo Zavattari, Direttore dell'Istituto di Zoologia dell'Università di Roma
Nel Settembre dello stesso anno, conseguentemente, vengono firmati da Mussolini, e promulgati dal Re, Vittorio Emanuele III, i decreti di espulsioni degli ebrei (docenti e alunni) dalle scuole italiane. Altri ne seguiranno. Mussolini, che aveva ricevuto Hitler a Roma nel Maggio del 1938, vagheggiava una razza pura, biologicamente definita (proposizione 3 del Manifesto della Razza: “Il concetto di razza è concetto puramente biologico”). In seguito mitigò tale assunto (anche per conciliarlo colla visione del Vaticano, meno biologistica, ma pur sempre conciliante con una diminuzione dei diritti degli ebrei); la razza italiana, nelle elaborazioni degli scienziati fascisti, divenne il risultato di una assimilazione di elementi ariani, nordici, da parte di un sostrato autoctono e locale – assimilazione portata alla perfezione spirituale e civile da parte dell’Impero Romano che la fissò per sempre. In tal modo veniva fondato un concetto di razza specificamente italiano (diverso quindi da quello germanico) ed esclusivo (inteso a rifiutare la patente di italianità a camiti e semiti – africani, ebrei e arabi – ritenuti forze di disgregazione sociale e di impoverimento delle virtù nazionaliste e belliche).
Gli accademici e alcuni altissimi magistrati dello Stato coinvolti seguirono tale folle parabola politica e la assecondarono con i mezzi culturali e professionali a loro disposizione. Sul campo rimasero decine di migliaia di italiani morti o esiliati e il cadavere della verità.
Lo spettacolo doveva farsi ancora più grottesco nel dopoguerra; proprio coloro che avevano giustificato l’ingiustificabile durante il fascismo (con conseguenze sanguinose) riconquistarono, dopo brevi schermaglie burocratiche, i privilegi e le cariche dapprima detenuti. Barbara Raggi segue le circonvoluzioni linguistiche e concettuali di Acerbo, Pende o Azzariti che, di fronte ai pari casta del Consiglio di Stato o delle varie Commissioni di Epurazione (in tali consessi i termini ‘scientificità’, ‘professionalità’, ‘buona fede’, ‘buon italiano’ ricorrono come mantra buddisti), riescono, con arroganza corporativa e ricattatoria, ad accreditare la propria innocenza e scivolare nel nuovo ordinamento repubblicano in una continuità avvilente con il regime. Se le università occultarono registri e prove, il Parlamento e gli organismi preposti alle epurazioni finsero una resistenza più formale che sostanziale; e persino alcuni antifascisti come Guido Calogero presero le loro parti. Le carriere proseguirono onuste di riconoscimenti e gloria (Azzariti diverrà collaboratore di Togliatti e Presidente della Corte Costituzionale, Acerbo riceverà una medaglia d’oro dal Presidente della Repubblica Antonio Segni, Visco riotterrà la cattedra ai Lincei riciclandosi come antifascista etc etc).
Come interpretare tale disfatta civile? Qui soccorre proprio il concetto psicologico-sociale di conformismo sopra menzionato. Le classi intellettuali applicano il conformismo, il popolo (inteso come corpo estraneo alle sorti direttive della nazione) l’obbedienza. Il conformismo, ovvero l’accettazione acritica di un’ideologia (in tal caso il razzismo) è volontaria, imitativa, non gerarchica. Chi obbedisce, invece, recepisce un ordine esplicito da un superiore e, che lo voglia o no, è tenuto ad eseguirlo. Chi si conforma, insomma, come Acerbo, Visco, Azzariti, Pende, lo fa volontariamente, spesso da pari a pari, e opera sacrificando ed adeguando la propria personalità e le proprie idee all’autorità contingente (in questo caso il fascismo) in modo da realizzare gli scopi più immediati e vili, quali carriere e avanzamenti. Per questo lo studioso Giorgio Israel potrà affermare: “la campagna e i provvedimenti razziali furono rigettati dalla grande maggioranza della popolazione italiana … il massimo consenso si manifestò – oltre che, com’è ovvio, negli ambienti più oltranzisti del partito fascista e negli apparati di Stato più fedeli al regime – fra gli intellettuali e i docenti universitari”[2].
E tale conformismo, ripetiamo, peculiare alle classi dirigenti italiane (magistrati, giornalisti, artisti, accademici), è il collante di una casta cortigiana che operò sì durante l’Unità d’Italia (Il gattopardo) e il fascismo (Il conformista di Moravia), ma rinacque indenne sotto il monocolore democristiano, il compromesso storico, ed è attiva oggi durante un berlusconismo onnicomprensivo e, ormai, ventennale. L’ideologia del Ventennio, per usare le parole di Pasolini, fu un’ideologia criminale, ma passeggera e non riuscì mai a scalfìre la piaggeria atavica di un ceto intellettuale polimorfo, capace di passare da fascista ad antifascista in una notte e di adattarsi, come lo Zelig di Woody Allen, a situazioni politiche irriducibilmente diverse. E se il libro della Raggi esamina i colpevoli diretti delle vergogna razziale, non può tacersi che il loro reinserimento nell’ordinamento repubblicano avvenne grazie alla complicità latente di un intero mondo accademico, burocratico e politico di alto livello; lo stesso mondo, insomma, che oggi si garantisce vicendevolmente impunità e prebende.
Un insegnamento per chi crede ancora, come Stella e Rizzo, che ciò che viviamo sia una degenerazione di un’inesistente età dell’oro e non il carattere subdolo e secolare di chi ha la responsabilità civile di guidare una nazione.
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RispondiEliminagrazie per questa illuminante, dettagliata recensione: mi pare di capire che il libro della Raggi sia un contributo notevole al "recupero" della memoria che nel nostro Paese fa sempre acqua.
Eliminagrazie davvero per quel che hai scritto.