Adriano Olivetti, Democrazia senza partiti, Edizioni di Comunità, pp. 80, euro 6
Anna Marendino
Democrazia senza partiti è un
saggio di Adriano Olivetti pubblicato dalla casa editrice Edizioni di
Comunità per la prima volta nel 1949 e ripubblicato nel 2013 con una
illuminante introduzione di Stefano Rodotà.
Olivetti nacque nelle vicinanze di
Ivrea l’11 aprile 1901 da padre ebreo e madre valdese, origini che
lo portarono a opporsi al regime fascista con momenti di militanza
attiva (partecipò con Carlo Rosselli, Ferruccio Parri, Sandro
Pertini e altri alla liberazione di Filippo Turati). Fu un
protagonista dell’industria italiana e unì alle capacità
manageriali un'instancabile sete di ricerca e di sperimentazione su
come si potesse armonizzare lo sviluppo industriale con
l'affermazione dei diritti umani e con la democrazia partecipativa,
dentro e fuori la fabbrica. Fondò, tra le altre cose, la rivista e
il movimento di Comunità, con il quale riuscì a essere eletto in
Parlamento nel 1958. Nel 1956 fu eletto sindaco di Ivrea. Studioso di
urbanistica, diresse il piano regolatore della Valle d'Aosta e fu
anche presidente dell'Istituto nazionale di urbanistica. Il 27
febbraio 1960 morì prematuramente durante un viaggio in treno da
Milano a Losanna.
Come afferma Rodotà nella prefazione,
Democrazia senza partiti non è un manifesto di antipolitica,
ma un richiamo a un’identità autentica tra politica, tecnica e
valori spirituali. «Questo scritto è una difesa appassionata di una
dignità che la politica non può abbandonare e che trova il suo
alimento in grandi idealità, in passioni profonde, in opportunità
concrete, perché la persona riesca a esprimersi pienamente come
cittadino». Non a caso il libro esce nell’immediato dopoguerra, in
un periodo di grande fermento politico e culturale che darà vita
alle nuove costituzioni, quella italiana del 1948 e quella tedesca
del 1949, e che per l’autore rappresenta il momento di conversione
al cattolicesimo.
Nella parte iniziale e finale il testo
è una critica ai partiti politici: Olivetti ritiene che l’Italia
proceda nel compromesso, nel trasformismo, nel potere burocratico,
nelle grandi promesse e nelle modeste realizzazioni. “Gli uomini
rovinano i partiti ed i partiti non aiutano il progresso degli
uomini”. Un problema, tuttavia, non inedito per Olivetti: già
Marco Minghetti (1818-1886, appartenente alla destra storica) aveva
visto nel decentramento amministrativo il primo atto per attenuare
gli inconvenienti del regime parlamentare che, come governo di
partito, porta a favoreggiare gli amici e opprimere gli avversari. Da
allora, però, i tentativi di trovare una soluzione non sono andati
nel senso del federalismo, ma verso una concezione autocratica del
potere con una conseguente limitazione della libertà e dei diritti
della persona, come aveva dimostrato il ventennio fascista.
La critica di Olivetti, sottolinea
Rodotà nell’introduzione, si rivolgeva al partito dell’età
liberale e alle degenerazioni politiche e parlamentari che esso aveva
prodotto. Al momento della scrittura, però, è una tipologia che non
esiste più, sostituita dal partito di massa. Inoltre, osserva sempre
Rodotà, la repubblica dei partiti, che appare a Olivetti sospetta
pur nel suo rifiuto dell’antipolitica, durante la costituente
aveva, in effetti, rappresentato un forte strumento di coesione e di
garanzia.
Nel duello tra il cattolicesimo, che
tende a spostare il dominio politico verso i tecnocrati e le classi
meno numerose di professionisti e possidenti, e il comunismo, che
vuole instaurare la dittatura di classe, Olivetti ritiene troppo
debole anche la terza via, del socialismo democratico, che ai suoi
occhi si era tradotto in una pluralità di partiti, subendone di
conseguenza la corruzione, così come era accaduto nella chiesa
cattolica con la sua divisione in sette. Nella crisi del
parlamentarismo e della democrazia, che pur esisteva allora come
oggi, la politica secondo Olivetti tendeva alla rappresentanza di
gruppi sociali e al corporativismo, ovvero “una cattiva soluzione
ad una giusta esigenza”. Evidente la critica anche alle forme
organiciste, oggi rappresentate dai movimenti di massa, che,
riconoscendo il parlamento e la democrazia non più espressione della
realtà sociale, avrebbero voluto chiamare in rappresentanza gli
esponenti delle professioni, delle arti e di una serie di categorie
sociali comprese le famiglie, giungendo a una forma complessa e
disordinata con preoccupante falsificazione del sentimento e della
volontà popolare.
Nella parte centrale del testo Olivetti
opera una sintesi di quanto aveva scritto nel saggio L’ordine
politico delle Comunità.
L'autore ritiene che il progetto di una
società unita nella consapevolezza della centralità dei valori
dello spirito e della cultura sia ancora incompiuto. Il comunitarismo
radicale di Olivetti è ben più esigente delle dosi comunitarie
inserite nella costituzione del 1948. La necessità di una nuova
società lo spinge a considerare d’intralcio qualsiasi
organizzazione dello stato diversa dal modello di comunità, i cui
elementi primari sono: ordini politici, sullo stile di quelli
religiosi, e una democrazia integrata.
Olivetti individua una nuova idea di
sovranità che, sottolineando il primato dello spirito sulla materia,
si distacca dall’idea di sovranità come sinonimo di suffragio
universale, propria della rivoluzione del 1789. Lo Stato, per
l’autore, prende forma e vita dalla Comunità. I centri comunitari,
che sono le cellule democratiche, creano insieme le comunità, le
comunità lo Stato. Ma Olivetti ha ben chiaro che possibili sono le
degenerazioni e tal fine auspica che vi siano regole, dispositivi e
istituzioni. Una costruzione complessa, dunque, nella quale ogni
valore è inserito nelle giuste proporzioni, un sistema di equilibri
analogo a quello dell’architettura, di vitruviana memoria. Il
baricentro si sposta, quindi, dalla libertà individuale al rispetto
della dignità e vocazione della persona. Autorità come autenticità
di mandato: consenso, quindi, ma anche controllo. Limitazione del
potere, nel senso montesquieuiano di controllo necessario ad evitare
l’abuso. Ordinamento della comunità secondo la vocazione di ognuno
in contrapposizione a uno Stato in cui non si favoriscono le migliori
tendenze dei singoli. Del resto, come affermava Platone, uno Stato
che assegni ai suoi cittadini funzioni incompatibili col livello di
sapienza da essi raggiunto diventa disarmonico e rischia facilmente
di degenerare.
La comunità per Olivetti ha poi
bisogno di spazi, che consentano un rapporto con la natura in
contrasto con la città come agglomerato informe. Il progresso
tecnologico non va accettato in modo incondizionato, ma deve essere
indirizzato alla costruzione di un mondo materialmente più
realizzato e spiritualmente più elevato, ad una società a misura
d’uomo.
Pur partendo dall’idea dell’uomo
imperfetto, Olivetti auspica un governo dei giusti e ritiene che il
movimento comunità abbia funzione temporanea perché una volta
annullatosi nelle forme a cui ha dato vita diverrebbe non più
necessario. Egli prefigura infatti un disegno di società con uno
spostamento dallo Stato a un contesto ispirato dalla provvidenza di
Dio, che non implica la sottomissione dello Stato laico all’autorità
religiosa ma riconosce lo spirito dei contenuti eterni del vangelo.
In questa visione è possibile ritrovare una contemporaneità laica
nel recupero della partecipazione dei cittadini alla realizzazione
della cosa pubblica, come ben chiarisce l’art. 49 della
costituzione. “Tutti i cittadini hanno diritto di associarsi
liberamente in partiti per concorrere con metodo democratico a
determinare la politica nazionale”.
Se la democrazia integrata, come
comunità concreta a base territoriale con un ordine funzionale, può
senz’altro rappresentare una buona suggestione, l’idea di un
governo dei giusti appare invece piuttosto debole. Il male,
purtroppo, come afferma Franco Cassano nell’illuminante L'umiltà
del male, “è molto creativo e raramente ritorna su chi se ne è
servito”. E tuttavia la candidatura di Ivrea a sito UNESCO
rappresenta tangibilmente il riconoscimento di una esperienza
eccezionale, nella quale un grande imprenditore seppe lavorare
osservando la società nel suo complesso e impegnandosi in prima
persona per la sua trasformazione.
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