Raethia Corsini
Si è conclusa da qualche giorno l’iniziativa Festa del Cinema
promossa e sostenuta in tutta Italia dai produttori e distributori dell’ANICA e
dalle associazioni delle sale cinematografiche. L’idea, mutuata dalla Fête du
Cinema che si svolge in Francia da ormai 28 edizioni, è un invito a frequentare il grande
schermo a prezzi ridotti, per vedere anche pellicole destinate a uscire
velocemente dal circuito perché poco commerciali. È una di quelle iniziative
che io cerco di non perdere mai, perché generalmente nel calderone dell’offerta
più di una stupisce per innovazione, idea, talenti.
A me, quest’anno, è capitato con Bellas Mariposas scritto
e diretto da Salvatore Mereu e tratto dal libro omonimo di Sergio Atzeni (Sellerio Editore), da molti ritenuto iniziatore della nouvelle vague letteraria sarda. Attrici non professioniste alle prese per la prima volta con
la telecamera; una mano registica determinata a raccontare, senza veli e ricercatezze estetizzanti, una realtà
drammatica. E lo fa con cura e delicatezza anche quando c'è il
rischio di cadere nella pruderie. Sullo sfondo – determinante - la periferia
più infima di una Sardegna che non siamo abituati a immaginare.
Il film
racconta di una giornata estiva vissuta insieme da Cate e Luna, che hanno
undici anni, vivono nel quartiere del più disperato sottoproletario di
Cagliari, e hanno in comune una famiglia disastrata– come quasi tutti gli
abitanti di quella periferia. Cate sogna di fare la cantante per potersene
andare da lì, un giorno, e allontanarsi da tutti quei fratelli e sorelle
svitati, fuori di testa, disperati, falliti, criminali. Lontano da un padre pusillanime,
fancazzista, “pezzmerda”, come dice Cate stessa. Lontana da un madre che si
ammazza di fatica, rassegnata. Luna, la sua amica del cuore, è l’unica con la
quale Cate ha un rapporto sano e di reciprocità. E poi c’è Gigi, un vicino di
casa, di cui Cate è innamorata, ma che suo fratello Tonio vuole uccidere.
Questa la trama: semplice. Eppure il ritratto di un brandello di società
cagliaritana che Mereu riesce a portare sullo schermo, s’imprime negli occhi e
trascina, senza che tu là per là lo capisca, dentro l’orrore di vite perdute,
isolate, senza scampo. Non c’è risarcimento. L’unico luogo che salva è il mare,
il suo silenzio: bellissima la scena del bagno tra le amiche. L’unica
possibilità che la fortuna si accorga di te è l’arrivo surreale della coga
Aleni, una strega in carne e ossa che può leggere il futuro delle persone. Il
film, che ha delle pecche stilistiche e forse una manciata di minuti
di troppo, concentra tutta la sua forza sul lungo monologo della protagonista, Cate,
che si rivolge a “loro”, cioè noi che guardiamo, noi che stiamo oltre il vetro,
dietro l’obiettivo…dall’altra parte. Forse sull’altra sponda, nel Continente.
Cate racconta pubblicamente un diario privato, i retroscena neanche troppo
occulti della sua numerosa e catastrofica famiglia. Lo fa guardando
nell’obiettivo, sfidandoci ad ascoltare e vedere i fatti attraverso la crudezza
delle sue parole (mezzo in italiano, mezzo in cagliaritano – con sottotitoli),
l’astio verso una condizione dalla quale - a guardare gli adulti intorno - è forse impossibile emanciparsi. Forse.
E però ci porta nel suo mondo con la leggerezza di un sorriso che è ancora di
bimba, che chiede speranza ma irrompe – sorprendendo noi e lei stessa - anche spregiudicato
e sarcastico, di fronte a quella vita che niente dà. Tranne un’amica, vero
tesoro di un’esistenza senza orizzonti. Mi hanno colpito tante cose di questo
film (che di certo è anche un lavoro sull'iniziazione alla vita) ma due su tutte sono quelle che a mio avviso valgono la visione: è, a mia
memoria, il primo film che ritrae una Sardegna contemporanea, lontana dagli
stereotipi delle cartoline dai colori caraibici, e distante anche da
riferimenti letterari più classici, e lo fa parlando nella lingua cagliaritana.
La seconda cosa che mi ha colpito è che, pur scandagliando tematiche scabrose,
il film non devasta lo spettatore, ma lo rende consapevole. E magari lo mette
anche a nudo. Perché quel che accade in quel quartiere cagliaritano, accade
ogni giorno in ogni luogo dove viene sottratta la speranza, dove impera
l’isolamento. È questione più universale di quanto siamo disposti a credere.
Sembrano dirci questo, le due ragazzine di undici anni, in una lingua che non è
un semplice dialetto e che per questo ci rende quell’isola (reale e metaforica)
ancora più lontana. E il loro messaggio è dirompente perché, in fin dei conti,
loro vittime di una realtà che non hanno contribuito a costruire, sono ancora
(ma per quanto tempo?) le uniche ad essere salve, pur non sapendolo. Salve
perché hanno il coraggio di vedere e di raccontare. Salve perché forse saranno farfalle. Il film è stato selezionato in concorso alla
sezione "Orizzonti" della 69ª Mostra del
cinema di Venezia.
La trama che racconti, l'ambiente degradato e povero di una Italia terzomondo, l'amicizia delle due bambine, le situazioni scabrose, mi rimandano ai due volumi di Elena Ferrante (aspetto il terzo con ansia) che ho molto amato, L'amica geniale e Storia del nuovo cognome: Lì Cagliari, qui Napoli, anni '50, e un putiferio di personaggi vivissimi sui quali dominano le vicende, ricche anche di risvolti drammatici, di un'amicizia che sfida i decenni e la storia (si arriva ai giorni nostri, si arriverà ai giorni nostri con il futuro o futuri volumi). Tutto qui, una semplice associazione, magari del tutto incongrua. Chissà se riuscirò a vederlo il film..
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