giovedì 28 novembre 2013

Voci lontane sempre presenti / 2 (Ancora Valle Aurelia, ma si finisce a parlare di calcio e della disfatta dell'Italia)


[Cliccare per ingrandire] [Qui la prima parte]

G. Luca Chiovelli 

Oltre il viale si allarga. Ecco la piazzetta, dove il 495 si trascina a girare impacciato e lento come un bacarozzo. Edifici tirati a nuovo si alternano a quelli diruti; le finestre murate sono bocche impedite nel racconto. A perpendicolo, rispetto al cammino, dipartono i vicoli: Via dei Laterizi, Via delle Ceramiche, Via degli Embrici, Via delle Campigiane; una toponomastica lieve e dolcissima che incapsula la memoria degli eventi come l'ambra fa con gli insetti.

Le fornaci spente
Si scorgono architetture insolite, in cui l'amore degli abitanti nulla concede alle secchezze del funzionalismo. La cura quotidiana arrotonda gli spigoli, si concede spazi inusitati fra le tramezzature. Ecco le porte, gli infissi di legno, le persiane verdi, i terrazzini che traboccano di fiori, i civici decorati incassati nelle mura. A destra le fabbriche ormai barrate, le fornaci spente; dagli opifici deserti, la seconda ciminiera sopravvissuta punta verso un cielo che si compone nelle striature dei cirri.
Ancora avanti il lastrico del viale si sfibra lentamente nello sterrato del parco, qui ancora arruffato e selvaggio; una barra semovente segna il confine fra l'abitato e la vegetazione quali diverse regioni della coscienza. La oltrepasso. Al di là il campo da gioco della squadra Valle Aurelia.
Abbandonato anch'esso, ma ancora visibile. Sopravvivono le strutture dei riflettori, altissimi: altane da cui custodire un segreto dimenticato. A lato, un roveto inestricabile avviluppa gli scheletri metallici degli spalti come misteriosi reperti precolombiani. Ancora in piedi: un casotto. Del campetto sopravvive una sola porta: i tre pali metallici disegnano un rettangolo fatale che inquadra, desolato, il nulla.

Il silenzio è assoluto.
Non ricordo di aver giocato in questo campo. O forse sì. Quasi quarant'anni fa. Queste cose me recordo come per suonno. Le ricordo come in un sogno, perché i ricordi hanno l'inevitabile consistenza dei sogni e dei desideri e, scomparso chi ricorda e desidera, la stessa identica, indistinguibile realtà.

Mixing memory and desire.

Forse sì: eravamo ragazzini, una squadretta di scuola, senza una maglia particolare. Divise abborracciate, con i maglioni o più chiari o più scuri a simulare i campi avversi: le maglie pesanti, da poco conto, strappate dalle spalle ingrossate di fratelli e cugini, maglioni e magliette di lanaccia, quella che faceva i pallini, o d'acrilico, che a sfilarsi (l'afrore del sudore essiccato!) crepitavano come mitraglie.
Eccoci, nel cerchio del centrocampo. Tutti e ventidue. Se qualcuno la deve fare, la deve fare adesso, tuonava l'allenatore/arbitro/maestro, baffuto come un gendarme ottocentesco. E, a un colpo del fischietto, la corsa unisona, spontanea, verso la recinzione opposta agli spalti. La gioia in una pisciata. Dritta e fumante, violentemente liberatoria; mica i plic pluc ploc di adesso, con la mano appoggiata alle ambiziose greche del cesso borghese, mentre con due o tre dita si asseconda, con pazienza rassegnata, il recalcitrante refluire degli scarti renali.
Poi la partita. Autunno. Il freddo saliva, umido, dalla terra. Il pallone sbatteva contro le caviglie come un blocco di ghiaccio.

" ... due regioni della coscienza ..."
La disposizione tattica, piuttosto lasca. Erano gli anni Settanta. Il portiere, ovviamente, che o era un vero portiere, nato per fare il portiere, oppure un reietto scartato da tutti gli altri ruoli. Noi vantavamo una via di mezzo, Ciccio Chiostro, virulento, incazzoso, strafottente, peloso, spericolato, ma basso, perdio, troppo basso. E poi i due centrali, che allora si chiamavano stopper, inchiavardati da una necessità assoluta al loro unico compito: quello di seguire, sempre, i due attaccanti avversari: quello più centrale, il centravanti appunto, e l'altro più timidamente  decentrato, a destra o a sinistra, ma sempre vicino al compagno quasi temesse di perdersi nelle zone vaste e periferiche del territorio nemico: più tardi vidi in questo atteggiamento un cameratesco atto d'amore, come quello degli amanti spartiati che morivano a coppie alle Termopili, altri soldati votati al sacrificio; ma era anche un gesto leggero di cortesia verso l'arcigna guardia avversaria, che non avesse troppo a stancarsi seguendo cieca e risoluta i movimenti delle punte nemiche. E poi i terzini, che difendevano e basta, aspettando le discese asimmetriche delle ali avversarie: perché, almeno da noi, l'ala era sempre destra, la sinistra non l'hanno mai considerata (chi diavolo era e che faceva, santo Cristo, l'ala sinistra in un paese in cui non nascevano i mancini?), derubricandosi a un compito di picchiatore dell'ala destra altrui. E poi il mediano, schiacciato sulla difesa, assieme a un altro salariato della fatica: anche lui in mezzo a bastonare e recuperare, certo, ma più bravo a rilanciare, qual cavalier servente, verso la stella della squadra, il suggeritore, lo scansafatiche del gruppo, il talento, gamba leggera e capello ravviato, quello che, quando gli altri attaccavano, si limitava a guardare dal cerchio di centrocampo con aria imbronciata, infastidito e come sorpreso dall'esistenza di una fase del gioco che non lo contemplasse.
E tutti giocavano alla stessa maniera, accorti e speculari, come nei Sette a Tebe di Eschilo, quando i gemelli Eteocle e Polinice, l’eroe e il traditore, all'ultima Porta della città, si danno morte a vicenda, come in uno specchio, a sancire la dannazione lontana del padre, Edipo, il maledetto.

E ci si disponeva sempre così: portiere, stopper, terzini, mediani, ala, attaccanti, e non solo in base alla bravura, ma pure nel riguardo di una sorta di elezione ontologica; quasi che le psicologie fossero, a otto anni, già formate, e spingessero inesorabili a quei ruoli; non ruoli di giocatori, ma ruoli d'uomini, quelli che avremmo tenuto poi nella vita. Io ero il mediano, non c'era verso. Non mi ricordo quando giocai la prima volta, ma, sono sicuro che, appena entrato in campo, m'acconciai naturalmente a quella dolce parodia di vita adulta, quasi che una tara secolare avesse a dispormi a tal maniera. Munire la trincea, difendere il sacro suolo dell'area dalle folate del centrocampo, aiutare gli stopper, schiantare sul nascere ogni barbaglio di pericolo; nonostante avessi un buon tiro ho consumato l'infanzia di giocatore senza mai oltrepassare la linea del centrocampo. Non che ogni tanto non mi avvicinassi ad essa, ma, ormai, percepivo quella striatura gessosa come una folie simile all'incesto e, appena scorta, cedevo la palla e scappavo nelle retrovie a espiare la colpa.

I difensori al mediano, il mediano ai centrocampisti, questi all'ala destra o al suggeritore che rifinivano verso gli attaccanti: più che un gioco il calcio era la riproposizione delle gerarchie gnostiche, dove il bene aumenta a salire, scostandosi dalla materialità terrestre, id est, in tal caso, il portiere, il povero Ciccio Chiostro, il diavolo, probabilmente, irsuto, rotondo, sboccato, con le sopracciglia nerissime, potenza infera di una metafisica di gioco geneticamente italiana. Italiana, cattolica, cattocomunista, fascista, piccin borghese: saluta la maestra, il professore, il capitano, il caporeparto, il caposezione, il signor commendatore, il signor carabiniere, il signor Presidente e Papa e tutto andrà per il meglio.
Perché italiani eravamo, al cento per cento, ora ne ho la certezza. Al centro, fermi, accorti, pronti a spezzare ogni logica, lesti a giocare sui ribaltamenti sfruttando le minime distrazioni, i passi avventati, le superfetazioni del dribbling. L'Italia o la celebrazione del controtempo, sempre in mezzo, a pedalare in salita, certosini, per ore, senza degnarsi d'una boccata d'aria di creatività, a ruminare, troncare, lagnarsi, dilazionare, sopire, rovinare a terra al minimo fallo tenendosi lo stinco intatto, la smorfia dolorosa, da guitti, che allungava l'ombra del disdoro sulla crudeltà avversaria - e tutto solo per impietosire l'arbitro, per strappare sleali benevolenze postume, magari in area: rigore. E tutto questo basso tramestio, accanito, furbesco, recitato in tralice, col fiatone e i colpi bassi, solo per poi concretare un breve lampo, l'allungo improvviso sull'errore degli altri; per addivenire fulminei al colpetto, alla spizzata; per intravedere, dopo centinaia di mosse, il corridoio libero dai corpi, dalle trattenute, dal respiro umido e pesante, dai pestoni, dalle gambe, da migliaia di gambe, nervose e cattive, oltre il quale scorgere la rete che pendeva floscia e indifferente; la ricompensa del sudore; ed ecco la luce, infine, limpida nelle quadrettature del cotone bianco del sacco, messi fuori gioco, ormai, la sagoma enorme del portiere e l'ingombro dei difensori porci. La porta inarrivabile, eccola, tira! E l'occasione, quando ci ricapita, tira, sega di una sega, tira! e liberaci, finalmente, liberaci da tutto, dai piccoli doveri, dalle madri, dalla scuola, dal catechismo, facci urlare, almeno stavolta, dai, tira, che adesso si può dire tutto, nessuno può farci niente, tira!, coglione, tira!

Se i nomi conservano la memorie, la terra ne possiede ancor più, incancellabile. Guardate il campo. Consumato e bruciato dai tacchetti solo al centro. All'esterno, dopo decenni, cresce l'erba folta, perché l'esterno del campo (le ali al galoppo!) era raramente calcato, roba per nordici e protestanti, mica per noi, che venivamo, seconda generazione fortunata, dai regni dello stento, e avevamo già i garretti solidi, ma corti, corti, come muli da guerra, e impediti per l'allungo e la volata, estri più congeniali ai ricchi gambalunga olandesi, ai crucchi, agli austroungarici, agli inglesi, quelli, insomma, i purosangue, biondini ripuliti e depilati, quelli che voglion rovinarci adesso, maledetti italiani col mandolino, sempre di qua e di là, un po’ di là e un po’ di qua, a cambiare le carte in tavola, mentre non si guarda: mentre il crucco distratto ordina il bianchetto noi si ruba la briscola dal piatto.
Perché ho idea che il passato, per passare del tutto, deve essere dimenticato, ma non nella memoria, che è facile, ma dal corpo.
Guardate i due Mondiali vinti.
1982, tre partite stitiche, e poi il filotto impossibile, sotto gli sguardi increduli dei maggiori artisti di sempre, Zico Maradona Rummenigge, e tutto grazie a un centravanti mingherlino, ripescato in articulo mortis, con grazia sportiva particolare, perché il ragazzo, italiano di Prato, si vendeva le partite. E grazie a una serie di manovali stagionati e induriti: Oriali, Marini, Gentile, Graziani.
2006, lo scandalo delle partite truccate, tre partitucole. Finiti? No, un rigore furbo all'ultimo minuto, poi un autogol, quindi un tiro a giro perfetto, una curva cartesiana a gelare tutta la nazione ospite, la matta del proletario di turno, Fabio Grosso, e poi, ancora, in finale, incredibile, la resistenza strenua e sfiatata e i rigori perfetti; e il superbo Zidane, arrogante come un cavaliere berbero, che perde la testa di fronte al metalmeccanico Materazzi, ignorante come una zucca, e quello gli stampa pure in faccia il pareggio.
Possiamo giocare a fare i cosmopoliti, ma il corpo ricorda per noi e, se ci vogliamo salvare, sarebbe bene ascoltarlo. Responsabilità, etica, chiarezza, invoca l'Europa e noi a dire va bene, ma cosi non ne usciremo vivi. Troppo presto. Dovevano lasciarci i nostri vizi ancora qualche decennio. Non siamo più né carne né pesce; ci chiedono di andare avanti, ma il corpo vuole tornare indietro, al campo chiassoso di Valle Aurelia, con le madri schierate sulle gradinate di metallo, livide e preoccupate, nei loro cappottini lisi da inverni duri, ma tranquilli. Perché allora sapevamo chi eravamo, italiani, e niente ci avrebbe nociuto veramente.

"Le nazioni non moriranno perché i loro uomini di stato sono nullità, i loro governi troppo cupidi, troppo ubriachi o troppo pederasti ... I loro ambasciatori troppo chiacchieroni, o perché esse stesse ... Son diventate troppo arroganti, soprassaturate di ricchezze, schiacciate dalla loro industria, troppo lussuose o troppo agricole, troppo sempliciotte, o troppo complicate. Tutto questo è senza rilievo, bazzecole passeggere, semplice cronaca della storia ... Una nazione si rialza ... solo a una condizione, questa condizione assolutamente essenziale, mistica, quella di essere rimasta fedele attraverso vittorie e rovesci agli stessi gruppi, alla stessa etnia, allo stesso sangue …”

Cosa? Cèline? Céline è un porco! Un razzista! Un nazista bugiardo!
Si, ma ha ragione lui. Sostituite cultura a sangue e avrete l'Italia bastarda di oggi.
E non sono, però, le orde calmucche ebree o negre ad averci perduto, ma un canto di sirene da supermercato. La nuova civiltà.
Guardate cosa resta degli Italiani: spossessati, colonizzati, stranieri al proprio stesso passato e a sé stessi. Imbruttiti, coglioni, volgari, corrotti, crassi, protervi, inetti all'elaborazione della realtà che li travolge giorno per giorno; ed eccoli lì, come aborigeni alcolizzati al limitare dei grattacieli di Canberra; come indios aztechi, sterminati dal raffreddore e dal vaiolo; come Bokassa, occhio feroce e insensato, strappato alla propria terra e travestito da generale burla dai francesi ghiotti di uranio e diamanti; come tanti cacicchi, lo sguardo vitreo ad allineare banane della United Fruit; come Navajos dall'aria babbea, vestiti da croupier in qualche folle bisca dell’Arizona.
Genocidio culturale, mai parole furono più appropriate.
Ed ora, dopo l'ingrasso trentennale, la macellazione.
E non sanno cosa fare, questi poveri bastardi d'Italiani, governati da incapaci, gaglioffi e traditori della Patria; urlano, s'arrabattano, resistono, bestemmiano, si vendono: mosche furiose che battono pazze sui vetri. Uno spettacolo da circo! ... Stracci e coriandoli! ... E non manca l'uomo proiettile!
Non siamo mai stati una nazione, ma eravamo un popolo, perché il corpo non dimentica mai. Idee senza parole.
Ma adesso siamo solo uno scherzo, una campanella attaccata alla coda d'un cane.

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