giovedì 31 luglio 2014

"Vivi giorno per giorno, ora per ora. Poiché nulla ci appartiene ..."/ 2

Qui la prima parte.

Tutte le citazioni sono tratte dal settimo libro dell'Antologia Palatina (traduzione di Filippo Pontani, con modifiche di Giovanni Anchiseo) o da iscrizioni funerarie romane (traduzione di Lidia Storoni Mazzolani).
Perché mi sia venuto questo ghiribizzo barocco in piena estate non è dato sapere.
En passant: la qualità di queste poesie (tali sono, anche le epigrafi e le iscrizioni) rende ragione del mio sommo disinteresse per la letteratura (e la poesia) attuali (glc)


Ann Pennington (1893-1971), Jacqueline Logan (Jacqueline Medura Logan, 1901-1983) e Billie Dove (Bertha Bohny, 1901-1997)


La fortuna promette molto a molti, non mantiene a nessuno. Vivi giorno per giorno, ora per ora. Poiché nulla ci appartiene.
(Vive in dies et horas, nam proprium est nihil).

Roma, CIL (Corpus Inscriptionum Latinarum) I 1219
Anonime bathing beauties, anni Venti

Antologia Palatina, VII, 256 (Platone)

Noi che lasciammo i gonfi, mugghianti marosi d'Egeo
Nella piana d'Ecbàtana posiamo.
Celebre patria d'Eretria, città vicina all'Eubea,
Atene addio! Diletto mare addio!
Anonime bathing beauties, anni Venti

Ehi, tu che passi, vieni qui. Riposa un istante. Scuoti il capo, non vuoi?
Eppure, qui dovrai tornare.

Capena, CIL XI 4010
Bebe Daniels (Phyllis Virginia Daniels, 1901-1971) e Charlie Chaplin (Charles Spencer Chaplin, 1889-1977)

Ti dedicò questa lapide il tuo amico fedele, l'ultimo debito che potei saldare con te.

E tu non t'affliggere, madre, doveva accadere. Furono veloci gli anni miei. Così volle la mia stella, addio.
Sia conforto al tuo lutto il pensiero che altre l'hanno subìto prima di te.

Gardun (Dalmazia), CIL III 2722, Caio Laberio, di 7 anni
Bessie Love (Juanita Horton, 1898-1986)

Antologia Palatina, VII, 173 (Leonida di Taranto)

Sono tornate da sé le mucche allo stazzo, di sera,
Dalla montagna, tutte nevicate.
Ahi, là presso una quercia Terìmaco dorme quel sonno
Lungo. Un fuoco di cielo l'assopì.
Betty Compson (Eleanor Luicime Compson, 1897-1974)

Ecco qua il tuo asilo. Ci vengo controvoglia. Eppure, bisogna.

Narbonne (Francia), CIL XII 5270

lunedì 28 luglio 2014

Il rebus muto più difficile di sempre


Attenti! Il rebus sovrastante potrebbe impegnarvi tutta l'estate.
Fra i rebus muti (ovvero senza lettere) è quello con la frase risolutiva più lunga; frase che assume un sapore sentenzioso e blandamente moralistico per cui il rebus viene anche detto gnòmico.
Per quanto mi riguarda è uno dei più difficili che abbia mai masticato.
Gli autori sono Quizzetto (che non conosco) e Zio Igna, al secolo Ignazio Fiocchi, arzillo ottantenne che ha vissuto a lungo nel quartiere Monteverde.
Tre scelte: stampare il rebus e scervellarvi di tanto in tanto sulla spiaggia; barare con internet; oppure invocare il mio aiuto per posta elettronica.
Buona estate.

sabato 26 luglio 2014

Il racconto della domenica - Fredric Brown, La sentinella

Fredric Brown
Era bagnato fradicio e coperto di fango e aveva fame e freddo ed era lontano 50mila anni‐luce da casa. Un sole straniero dava una gelida luce azzurra e la gravità doppia di quella cui era abituato, faceva d'ogni movimento un'agonia di fatica. Ma dopo decine di migliaia d'anni, quest'angolo di guerra non era cambiato. Era comodo per quelli dell'aviazione, con le loro astronavi tirate a lucido e le loro superarmi; ma quando si arriva al dunque, tocca ancora al soldato di terra, alla fanteria, prendere la posizione e tenerla, col sangue, palmo a palmo. Come questo fottuto pianeta di una stella mai sentita nominare finché non ce lo avevano mandato. E adesso era suolo sacro perché c'era arrivato anche il nemico. Il nemico, l'unica altra razza intelligente della galassia ... crudeli schifosi, ripugnanti mostri.   
Il primo contatto era avvenuto vicino al centro della galassia, dopo la lenta e difficile colonizzazione di qualche migliaio di pianeti; ed era stata subito guerra; quelli avevano cominciato a sparare senza nemmeno tentare un accordo, una soluzione pacifica. E adesso, pianeta per pianeta, bisognava combattere, coi denti e con le unghie.
Era bagnato fradicio e coperto di fango e aveva fame, freddo e il giorno era livido e spazzato da un vento violento che gli faceva male agli occhi. Ma i nemici tentavano di infiltrarsi e ogni avamposto era vitale. Stava all'erta, il fucile pronto.   
Lontano 50mila anni‐luce dalla patria, a combattere su un mondo straniero e a chiedersi se ce l'avrebbe mai fatta a riportare a casa la pelle.
E allora vide uno di loro strisciare verso di lui. Prese la mira e fece fuoco. Il nemico emise quel verso strano, agghiacciante, che tutti loro facevano, poi non si mosse più.
Il verso, la vista del cadavere lo fecero rabbrividire. Molti, col passare del tempo, s'erano abituati, non ci facevano più caso; ma lui no. Erano creature troppo schifose, con solo due braccia e due gambe, quella pelle d'un bianco nauseante e senza squame.

lunedì 21 luglio 2014

La gloria è di chi se la piglia


Ecco di seguito la celeberrima scena tratta da The gold rush (La febbre dell'oro, 1925) di Charlie Chaplin.
Chaplin con due forchette e due panini mima una delle danze più famose della cinematografia mondiale:


E qui di seguito è la scena, non tanto celebre (anzi, del tutto dimenticata), tratta da The Rough house (1917) di Fatty Arbuckle (con Buster Keaton). Guardatela bene.


Inutile starci a pensare: sono identiche; mentre Chaplin risulta più accondiscendente alla voglia di patetismo del suo pubblico, Arbuckle (come spesso accade nei two reels - i cortometraggi - di derivazione vaudeville, d'avanspettacolo) è spietato e irridente. 
La danza di Arbuckle, che precede Chaplin di otto anni (1917-1925), è quella originale, senza dubbio. Chaplin l'ha probabilmente ripresa e rielaborata proprio da quel film, ma Arbuckle, nel 1925, aveva altro a cui pensare.
Nel 1921 nella sua camera d'albergo, durante un party alcolico (si era durante il Proibizionismo) venne trovata, sanguinante e in fin di vita, Virginia Rappe, giovane stellina hollywoodiana. Alla morte di Virginia l'America si scatenò: per l'attore si richiese la pena di morte, le femministe attaccarono i cinema che presentavano i suoi film, al Sud si crivellavano di colpi i teloni delle proiezioni; la Paramount, atterrita, ritirò tutte le pellicole del comico e mandò al macero quelle in produzione.
Su Fatty fiorirono leggende: l'aveva stuprata a sangue perché ce l'aveva grosso, l'aveva violentata con una bottiglia o con un pezzo di ghiaccio, le si era gettato addosso con tutti i suoi centodieci chili. E così via. Subì tre processi: l'ultimo, nel 1922, lo scagionò. Chi uccise Virginia? Fatty? O piuttosto un aborto andato male?
Una cosa fu sicura: la carriera del ciccione era finita, per sempre (nel 1931, a due anni dalla morte girerà Windy Riley goes to Hollywood con l'altra nobile decaduta del muto, la conterranea Louise Brooks, bruciata dallo stardom a ventiquattro anni).
L'unico a dimostrargli affetto, e a credere pervicacemente nella sua innocenza, fu Buster Keaton. Buster fu presentato a Fatty dalla moglie Natalie Talmadge (sorella delle attrici Norma e Constance): l'esordio avvenne nel 1917 con Fatty macellaio (The butcher boy): l'apprendista Keaton aveva ventidue anni, il maestro e veterano Arbuckle appena trenta.
I due collaborarono in quasi venti pellicole; tra queste, Fatty cuoco (The cook, 1918). Anche qui c'è una danza (strepitosa): Keaton, cameriere, irretito dalle mosse sinuose d'una ballerina, prende a servire e a muoversi come un'odalisca: trasmette epidemicamente l'entusiasmo tersicoreo al cuoco Fatty che, grazie a padelle, tegamini e a un raccoglipolvere, si trasforma in una danzatrice da harem: prima serve al volo due piattini (che Buster raccoglie al volo con grazia egiziana) poi si esibisce in una serie di movenze, fra lussuriose e fatali, che parodizzano le mode orientali dei corpi di ballo del tempo (quelli di Ruth St. Denis, ad esempio) ed enfatizzano la vaporosa agilità del comico del Kansas. Pochi minuti eccezionali:


I cortometraggi di Keaton (non i film maggiori) sono quasi tutti capolavori. Uno, del 1922, si intitola Viso Pallido (Paleface): qui Buster (un cacciatore di farfalle) si trasforma in indiano per difendere una tribù dagli sporchi raggiri di alcuni faccendieri che ambiscono il petrolio sepolto nelle terre pellirosse. 
Il bene trionferà e l'eroe sposerà la figlia del capo, ovviamente. 
Scena capitale: Buster bruciato al palo di tortura che se la cava senza un graffio e si accende una sigaretta con un carbone ardente; oppure Buster che, intabarrato quale Little Chief Paleface (Piccolo Capo Viso Pallido), se ne esce con un tetragono: "Us Indians must stick together!" (Noi Indiani dobbiamo stare uniti!), con un bell'anticipo sul Kevin Costner di Balla coi lupi


Il capotribù è interpretato dall'attore Big Joe Roberts: il suo metro e noventacinque, brutale e manesco, contrastò irresistibilmente e fisicamente il mercuriale metro e sessantacinque di Keaton in sedici cortometraggi e due mediometraggi. L'ultimo, Senti amore mio (The three ages, 1923), gli fu fatale: morì sul set, per un attacco cardiaco, a cinquantadue anni. La deliziosa squaw è, invece, Virginia Fox: esordì tredicenne per la Keystone Film Company, quindi fu impalmata dal potente produttore Darryl F. Zanuck - matrimonio per cui lascerà definitivamente le scene, a poco più di vent'anni.
Keaton trascinò la propria carriera sino al 1966; nel 1965 interpretò un film in Italia, assieme a Franco Franchi e Ciccio Ingrassia. Artisticamente il suo ritiro avvenne all'avvento del sonoro, a trentacinque anni (e trentacinque anni prima, nel mezzo del cammin: 1930 circa): il talkie, il parlato, non faceva per lui.
A quei tempi la vita e le storie sfiorivano in fretta.
Tutti: Chaplin, Arbuckle, Keaton, Roberts, Brooks e Fox furono inconsapevoli e geniali pedoni di un cinema spontaneo e naif; irripetibile, irrecuperabile.

domenica 20 luglio 2014

Il racconto della domenica - Shirley Jackson, La lotteria

Vi è orrore in Shirley Jackson, ma abilmente dissimulato. Nella sua opera spettri, mostri e assassini sono diluiti nel tessuto della normalità: residua esclusivamente il disagio, così soffuso e impalpabile da far dubitare della propria esistenza.
In Jackson possiamo avvertire da subito che una parte della realtà e delle abitudini quotidiani, le più banali, si smagliano lentamente: ma questo è tutto. A volte si ha un epilogo drammatico, come ne La lotteria; altre manca persino tale chiusa in cui il male si manifesta: il perturbante rimane sospeso, come una nube venefica, di cui possiamo solo intuire l'effettiva minaccia.

Shirley Jackson
La mattina del 27 giugno si levò chiara e piena di sole, con il calore di una bella giornata estiva; i prati erano pieni di fiori e l'erba era già alta. Gli abitanti del villaggio cominciarono a radunarsi nella piazza, tra l'uffico po-stale e la banca, verso le dieci.
In alcune città gli abitanti erano così numerosi che la lotteria durava due giorni e doveva iniziare il 26 giugno, ma in quel villaggio, dove gli abitanti erano solo trecento, l'intera lotteria richiedeva meno di due ore: iniziava alle dieci del mattino e finiva in tempo per l'ora di pranzo.
I primi ad accorrere, come sempre, furono i bambini. La scuola era finita, e molti ragazzi non si trovavano a proprio agio, in tanta libertà; tendevano a riunirsi in silenzio per qualche minuto, per poi mettersi a gridare e a parlare di scuola e di insegnanti, di libri e di brutti voti.
Bobby Martin si era già riempito di pietre la tasca, e presto anche gli altri ragazzi seguirono il suo esempio, scegliendo le pietre più lisce e rotonde: Bobbie e Harry Jones e Dickie Delacroix finirono poi per ammonticchiarne una grande pila in un angolo della piazza, e la difesero dalle ruberie degli altri ragazzi.
Le ragazzine invece si tenevano da una parte, parlavano tra loro e di tanto in tanto si giravano a guardare i fratelli, mentre i bambini più piccoli giocavano con la terra.
Presto anche gli uomini si radunarono, e mentre tenevano d'occhio i figli parlavano di piante e di pioggia, di tasse e di trattori.
Stavano tutti insieme, e si tenevano lontano dalla pila di pietre ammassata dai ragazzi, scherzavano poco e anche se talvolta sorridevano, non ridevano mai.
Le donne, con indosso scialli e vecchi vestiti sbiaditi, giunsero dopo i loro uomini. Si salutarono e si scambiarono pettegolezzi, e poi cominciarono a chiamare i figli, che però, in quella giornata, erano troppo eccitati per ascoltarle; per farli muovere, occorreva chiamarli quattro o cinque volte.
La lotteria era diretta, come la quadriglia, come il club dei teenager e come il programma della festa di Ognissanti, dal signor Summers, che aveva tempo ed energia da dedicare a quelle attività sociali.
Era un uomo allegro e dalla faccia tonda, che commerciava in carbone; la gente lo compativa perché era senza figli e aveva la moglie bisbetica. Quando arrivò in piazza, con la cassetta nera di legno della lotteria, tra gli abitanti del villaggio si levò un mormorio, e lui salutò e disse: — Un po' in ritardo, eh?
Il direttore dell'ufficio postale, signor Graves, lo seguiva con lo sgabello; lo posò in centro alla piazza e il signor Summers vi posò la cassetta.
La gente si tenne a rispettosa distanza, e quando il signor Summers chiese: — Nessuno viene ad aiutarmi? — ci fu un attimo di esitazione.
Poi il signor Martin e il suo primogenito, Baxter, si fecero avanti per tenere ferma la cassetta mentre il signor Summers mescolava i fogli.
L'attrezzatura originale della lotteria era andata persa tanto tempo prima, e la cassetta era entrata in uso prima ancora che nascesse nonno Warner, l'uomo più vecchio del paese. Talvolta si parlava di una nuova cassetta, ma nessuno voleva rinunciare a quella tradizione: si diceva che la cassetta nera fosse fatta con alcuni pezzi di quella originale, costruita dai primi abitanti del villaggio.
Ogni anno, dopo la lotteria, il signor Summers diceva che era ora di rifarla, ma poi il discorso veniva lasciato cadere. La cassetta, però, si era un po' rovinata con il passare del tempo: in alcuni punti perdeva già la vernice, in altri era scheggiata.

mercoledì 16 luglio 2014

"Mentre parliamo il tempo sarà già fuggito, come se ci odiasse ..." / 1


Ne L'attimo fuggente di Peter Weir, il professor John Keating, interpretato da Robin Williams, guida i propri allievi lungo un istruttivo itinerario: egli mostra agli studenti, nell'atrio della prestigiosa scuola privata che li ospita, le fotografie delle vecchie classi che si sono succedute nei decenni trascorsi; essi possono quindi osservare gruppi di centinaia di ragazzi e insegnanti; reclute, laureati; e belle speranze, e intenzioni; volti, atteggiamenti, sguardi, posture; il passato, recente o remoto, fissato dal nitido bianco e nero dei nitrati fotografici.
Keating, dietro a loro, come un bardo sapiente e amico sussurra: quello che vedete è passato, ma anche questo (noi!) passerà, sbrigatevi perciò, siate sinceri e cogliete l'attimo perché quello che vedete è passato, ma anche questo momento che viviamo passerà ... passerà veloce come un refolo improvviso e inafferrabile ...
Nel carpe diem oraziano (e di Lucrezio e Catullo) citato da Keating ognuno ravvede un invito a godersi la vita prima della morte, a decidere della propria esistenza senza curarsi dei soloni e dei benpensanti. Vero, ma tale invito si basa sul monito più antico della poesia occidentale: il memento mori, ovvero il ricordare, vivamente e acutamente, che anche una bellezza e una felicità godute in pieno svaniranno sotto l'imperio della Morte, figlia del Tempo.
Ecco perché le foto che il professore addita (all'inizio del film, si badi) donano a tutta la pellicola quel sottile tono struggente e nostalgico - un sentire diffuso che ne ha decretato il successo (al di là delle cadute finali nella commozione più facile).
Il tema del memento mori nella letteratura europea è costante; affiora prepotente nella letteratura classica, nel Medioevo, nel Seicento barocco e nel Romanticismo; deborda modernamente persino negli Stati Uniti con l'Antologia di Spoon River di Edgar Lee Masters, in cui ogni poesia è un epitaffio che riassume l'intera vita di un defunto nel cimitero dell'immaginario paese di Spoon River; non è inutile sapere che l'opera fu ispirata dal settimo volume dell'Antologia Palatina, sublime raccolta di epigrammi greci in quindici libri (ne abbiamo parlato a proposito di Paolo Silenziario; il settimo libro raccoglie gli epigrammi funerari e sepolcrali).
Irretito da Masters e dai Greci, mi ha punto la voglia di fare il Keating; vi presento, perciò, una serie di celebri carpe diem della poesia occidentale; fin qui nulla di nuovo. Li accompagno, però, con foto estive di attrici americane degli anni Venti (stars on the beach).
Chiederete: perché questo accostamento bislacco?
Rispondo: perché il cinema degli anni Venti in America (the silent cinema) fu una stagione felice, breve e quasi arcadica; giovane, elegante, ingenua, cosmopolita; uno sprazzo semplice e geniale in cui autori, registi, scenografi, attori e scrittori creavano storie al fine dichiarato d'intrattenere un pubblico vasto e popolare, naturalmente sollevati dalla preoccupazione per un gusto artistico alto e definito: come accadeva a Molière e Shakespeare, insomma.
E, soprattutto, il cinema muto appare oggi quale epoca assolutamente altra, un reperto straniero e irrecuperabile come la felice giovinezza; annientato dall'avvento del sonoro, esso è sopravvissuto in poche copie, negletto dalla critica, insidiato dalla corrosione; risalta alla nostra sensibilità come nostalgia per una perdita - una perdita di cui non sappiamo fissare i contorni o quantificare l'entità, ma che agisce insinuante nelle profondità sconosciute del cuore.
Queste immagini, come quelle di Keating, testimoniano di un mondo ormai dissolto, gioioso e vitale; ci sussurrano, come nelle parole del guerriero anglosassone:     

Come è fuggito il tempo, e come si è oscurato
Sotto il velo della notte, quasi non fosse mai esistito!  (glc)

Anita Page (Anita Evelyn Pomares, 1910-2008)

Kostantinos Kavafis

Stanno i giorni futuri innanzi a noi
Come una fila di candele accese
Dorate, calde e vivide.
Restano indietro i giorni del passato,
Penosa riga di candele spente:
Le più vicine danno fumo ancora
Fredde disfatte e storte.
Non le voglio vedere, m'accora il loro aspetto,
La memoria m'accora del loro antico lume.
E guardo avanti le candele accese.
Non mi voglio voltare, ch'io non scorga, in un brivido,
Come s'allunga presto la tenebrosa riga,
Come crescono presto le mie candele spente.
Anonime bathing beauties

Ovidio

Scorre nascostamente e sparisce il fuggevole tempo
Bebe Daniels (Phyllis Virginia Daniels, 1901-1971) col marito Ben Lyon

François Villon

Ditemi dove, in che contrada
è Flora, la bella romana,
Alcibiade o Taide,
che fu sua cugina germana,
Eco che parla se la voce si rincorre
al di sopra di un fiume o su uno stagno,
la cui bellezza fu troppo più che umana.
Ma dove sono le nevi dell'altr'anno?

Dov'è la dottissima Eloisa,
per cui fu castrato e entrò in convento
Piero Abelardo a Saint Denis?
Per amor suo subì questo destino.
E dimmi ancora dov'è la regina,
quella che comandò che Buridano
fosse gettato nella Senna dentro un sacco?
Ma dove sono le nevi dell'altr'anno?

La regina Bianca come giglio
che cantava con voce di sirena,
Berta dal grande piede, Alice, Beatrice,
Erembourg che dominava tutto il Maine,
e la valorosa Giovanna di Lorena
che gli Inglesi bruciarono a Rouen,
dove sono, dove, Vergine sovrana?
Ma dove sono le nevi dell'altr'anno?

Principe, non chiedete oggi né domani
dove sono, né nel corso di quest'anno,
perché non vi rimandi al ritornello:

ma dove sono le nevi dell'altr'anno?
Gloria Swanson (Gloria May Josephine Swanson, 1899-1983) e Phyllis Haver (1899-1960)
William Shakespeare

Tempo divoratore, spunta gli artigli al leone
e costringi la terra a divorar la sua dolce prole,
strappa le zanne aguzze dalle fauci feroci della tigre
ed ardi nel suo sangue l’immortale fenice,

rendi pure nel tuo corso stagioni tristi e liete
e fa quello che vuoi, Tempo dal veloce passo,
al mondo intero e ai suoi effimeri piaceri:
ma il più atroce dei delitti io ti proibisco.

Non scolpire le tue ore sulla fronte del mio amore,
non segnarvi linee con la tua grottesca penna;
durante la tua corsa lascia che resti intatto
qual modello di bellezza agli uomini futuri.

Oppure scatenati, vecchio Tempo: contro ogni tuo torto,
il mio amore nei miei versi vivrà giovane in eterno.

martedì 15 luglio 2014

I Promessi Sposi (e Don Abbondio) in rebus

Una serie di otto rebus (difficili) sull'incontro fra i bravi e Don Abbondio.
I pavidi (i Don Abbondio) possono saltare alle soluzioni in fondo.

"Per una di queste stradicciole, tornava bel bello dalla passeggiata verso casa, sulla sera del giorno 7 novembre dell'anno 1628, don Abbondio, curato d'una delle terre accennate di sopra: il nome di questa, né il casato del personaggio, non si trovan nel manoscritto, né a questo luogo né altrove. Diceva tranquillamente il suo ufizio, e talvolta, tra un salmo e l'altro, chiudeva il breviario, tenendovi dentro, per segno, l'indice della mano destra, e, messa poi questa nell'altra dietro la schiena, proseguiva il suo cammino, guardando a terra, e buttando con un piede verso il muro i ciottoli che facevano inciampo nel sentiero: poi alzava il viso, e, girati oziosamente gli occhi all'intorno, li fissava alla parte d'un monte, dove la luce del sole già scomparso, scappando per i fessi del monte opposto, si dipingeva qua e là sui massi sporgenti, come a larghe e inuguali pezze di porpora. Aperto poi di nuovo il breviario, e recitato un altro squarcio, giunse a una voltata della stradetta, dov'era solito d'alzar sempre gli occhi dal libro, e di guardarsi dinanzi: e così fece anche quel giorno. Dopo la voltata, la strada correva diritta, forse un sessanta passi, e poi si divideva in due viottole, a foggia d'un ipsilon: quella a destra saliva verso il monte, e menava alla cura: l'altra scendeva nella valle fino a un torrente; e da questa parte il muro non arrivava che all'anche del passeggiero. I muri interni delle due viottole, in vece di riunirsi ad angolo, terminavano in un tabernacolo, sul quale eran dipinte certe figure lunghe, serpeggianti, che finivano in punta, e che, nell'intenzion dell'artista, e agli occhi degli abitanti del vicinato, volevan dir fiamme; e, alternate con le fiamme, cert'altre figure da non potersi descrivere, che volevan dire anime del purgatorio: anime e fiamme a color di mattone, sur un fondo bigiognolo, con qualche scalcinatura qua e là. Il curato, voltata la stradetta, e dirizzando, com'era solito, lo sguardo al tabernacolo, vide una cosa che non s'aspettava, e che non avrebbe voluto vedere ...

I. Frase 2, 6, 8
II. Frase 9, 8
III. Frase 4, 6
IV. Frase 6, 8
V. Frase 9, 4
VI. Frase 3, 5, 1, 5
VII. A domanda e risposta, frase 5, 10
VIII. Frase 8, 8
"Due uomini stavano, l'uno dirimpetto all'altro, al confluente, per dir così, delle due viottole: un di costoro, a cavalcioni sul muricciolo basso, con una gamba spenzolata al di fuori, e l'altro piede posato sul terreno della strada; il compagno, in piedi, appoggiato al muro, con le braccia incrociate sul petto. L'abito, il portamento, e quello che, dal luogo ov'era giunto il curato, si poteva distinguer dell'aspetto, non lasciavan dubbio intorno alla lor condizione. Avevano entrambi intorno al capo una reticella verde, che cadeva sull'omero sinistro, terminata in una gran nappa, e dalla quale usciva sulla fronte un enorme ciuffo: due lunghi mustacchi arricciati in punta: una cintura lucida di cuoio, e a quella attaccate due pistole: un piccol corno ripieno di polvere, cascante sul petto, come una collana: un manico di coltellaccio che spuntava fuori d'un taschino degli ampi e gonfi calzoni: uno spadone, con una gran guardia traforata a lamine d'ottone, congegnate come in cifra, forbite e lucenti: a prima vista si davano a conoscere per individui della specie de' bravi".

Soluzioni

I. 2, 6,10 = Losco S; SO è così; S tema! = Lo scosso ecosistema (Pier Vittorio Certano)

II. 9, 8 = A, F fermare fan don IE = Affermare fandonie (Ignazio Fiocchi)

III. 4, 6 = Tema curato! = Tema curato (Roberto Diotallevi)

IV. 6, 8 = A CC U seri; badi TE = Accuse ribadite (Luigi Maiano)

V. 9, 4 = A T tra E N timore = Attraenti more (Giuseppe Sangalli)

VI. 3, 5, 1, 5 =  VI pavido don or è = Vip avido d’onore

VII. A domanda e risposta 5, 10 = D ubbidirà a T I? Sì! = Dubbi diradatisi (Luigi Martinelli/Francesco Rotta)

VIII. 8, 8 = Tra N e L loschi va TO = Tranello schivato (Massimo Cabelassi/Claudia Sansone/Anna Rita Bertaccini)

lunedì 14 luglio 2014

Le note di Leo speciale Lorin Maazel


Leonardo Castellucci*

Ieri se n'è andato il maestro Lorin Maazel, talento precocissimo, direttore di indubbia sensibilità interpretativa, violinista abilissimo. Lo vorrei ricordare con due momenti temporalmente molto lontani. Una notevole lettura della sinfonia n.9 di Beethoven, eseguita recentemente con l'orchestra della Fenice e una esecuzione del concerto di Mozart per violino K.216 in cui lo vediamo ancora giovane, nel doppio ruolo di direttore e solista.

E insieme con voi vorrei mandargli il nostro saluto e un sentito: GRAZIE MAESTRO!


Ludwig van Beethoven
Sinfonia n.9 in re minore per soli, coro e orchestra, op. 125



soprano - Ekaterina Metlova
tenore - Jonathan Burton
mezzosoprano - Kate Allen
basso - Luca Tittoto



Orchestra e Coro del Teatro La Fenice
maestro del Coro Claudio Marino Moretti



Direttore.Lorin Maazel

W.Mozart
Concerto per violino in Sol maggiore, K.216
1° mov. allegro


Wiener Philharmonic
direttore e solista. Lorin Maazel


*Leonardo Castellucci, fine conoscitore di musica, giornalista, scrittore, oggi direttore editoriale di Cinquesensi Editore.

domenica 13 luglio 2014

Le note di Leo/Il plagio di Händel

Un appuntamento con la musica, per traghettarci dalla domenica al lunedì.



Leonardo Castellucci*

Agli inizi del'700 Francesco Gasparini, stimabile maestro dell'ultimo barocco italiano, scrive un'opera ragguardevole per sviluppo formale, originalità d'invenzione melodica, equilibrio drammatico: il  Bajazet o Tamerlano. 
Qualche anno più tardi il più giovane Handel mette in scena la stessa opera (e fin qui niente di strano) in cui si notano sorprendenti somiglianze con la versione di Gasparini. Oggi potremmo parlare chiaramente di plagio, anche se la sensibilità del tempo ammetteva di rielaborare pezzi di altri presentandoli come propri. Certo è che in questo caso la rielaborazione forse è davvero poco riuscita, visto che varie parti delle due opere differiscono fra loro solo in dettagli tonali e timbrici. Giudicate voi.


Francesco Gasparini. Dall'opera il Bajazet(Tamerlano)
" Forte e Lieto a morte andrei"


The English Concert
direttore. B. Labadie
Tenore. Ian Bostridge

G.F. Händel. Dall'opera Tamerlano
" Forte e Lieto a morte andrei"


The English Concert
direttore. B. Labadie
Tenore. Ian Bostridge

*Leonardo Castellucci, fine conoscitore di musica, giornalista, scrittore, oggi direttore editoriale di Cinquesensi Editore.

L'incipit (e l'epilogo) della domenica - George Steiner, Il processo di San Cristobal

Più che un libro, un grimorio maledetto. Pubblicato da Rizzoli nel 1982, il romanzo è rapidamente scomparso; oggi lo ricordano in pochi. 
La trama: un gruppo ebraico di cacciatori di nazisti riesce a catturare nella giungla amazzonica (trent'anni dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale) il simbolo del Male del Novecento; un vegliardo dallo sguardo metallico e terribile: Adolf Hitler, sopravvissuto alla distruzione del bunker di Berlino e alla Götterdämmerung del Terzo Reich. Il gruppo non riesce a rientrare in Israele e decide di processare il Führer sul posto; l'eccezionale ucronia si chiude con l'arringa difensiva di Hitler che rovescia contro i propri accusatori tutti gli orrori storici e morali a lui storicamente addebitati.
Il succo della scandalosa memoria difensiva (e l'originalità estrema del punto di vista steineriano) si articola in quattro punti. In breve, ecco cosa afferma tale Hitler distopico: 
- non è forse la Bibbia - nerbo dell'ebraismo - un testo razzista e pregno di sangue? Un testo a cui ho attinto per delineare il pensiero totalizzante e dispotico del nazionalsocialismo ("le mie dottrine le ho prese da voi")?  
- non è forse l'Olocausto una reazione al genio di quell'ebraismo che ha condannato - per tre volte! - l'umanità alla perfezione dell'ideale e della trascendenza (tramite la Bibbia, il Vangelo dell'ebreo Gesù e il comunismo dell'ebreo Karl Marx)?
- non son forse io un mediocre del Male? Uno dei tanti? Non vedete come altri (ad esempio Stalin, che uccise trenta milioni di compatrioti) hanno operato peggio di me?
- non è forse vero che la patria (Heimat) degli ebrei, Israele, non sarebbe nata senza l'Olocausto? Non vedete ch'io non sono che uno strumento di Dio, il vostro vero Messia, il Salvatore da voi tanto agognato e atteso?
A tali interrogativi (come detto: intellettualmente scandalosi, e quindi sommamente fecondi) Steiner soggiunge anche una riflessione sulla forza evocativa della lingua tedesca, intesa come concrezione millenaria e insondabile di un'anima eterna - eterna e spaventevole, poiché sottratta magicamente alle forze definitive e normalizzanti del raziocinio. 
Nonostante George Steiner sia uno dei maggiori intellettuali viventi e accolga in sé, umanamente, qualsiasi obiezione all'antisemitismo (ebreo francese, fu costretto all'esilio nel 1940, dopo la presa nazista di Parigi), il romanzo (e la versione teatrale d'esso) fu attaccato minuziosamente e ferocemente, sin alla tacitazione.
In Italia la cosa si risolse senza troppa canea: il libro scomparve quasi subito e non fu mai più ristampato.
Nella regione Lazio, presso biblioteche pubbliche, ne esistono quattro copie, di cui solo due consultabili.

George Steiner
"Sei tu".
Il vecchio si morse il labbro.
"Tu. Proprio tu? Shema. In nome di Dio. Guardati come sei ora. Sembri venuto dall'inferno".
E così dicendo il giovane, quasi un ragazzo, irrigidì i polpacci e cercò di piantare gli stivali consunti nella terra. Per sembrare implacabile. Ma la voce gli tremava dentro.
"Sei tu. Vero? Ti abbiamo preso. Ti teniamo. Simeon sta mandando il segnale. Lo sapranno tutti, il mondo intero. Ma non subito. Prima dobbiamo portarti fuori di qui. Nostro: sei nostro, lo sai, no? Il Dio vivente ti ha consegnato nelle nostre mani, nelle nostre mani. Ed è avvenuto. Tu ..."
E il ragazzo fece una risata sforzata che rimase senza eco. L'aria ferma li divideva, spruzzando pioggia dalle sue pieghe calde, immobili.
"Taci, ora? E pensare che la tua voce ... Dicono che la tua voce poteva ..."
Il ragazzo non l'aveva mai sentita.
"... infiammare le città. Dicono che quando parlavi le foglie s'incenerivano e gli uomini piangevano. Dicono che le donne, solo a sentire la tua voce, che le donne ..."
S'interruppe. L'ultima donna l'aveva vista in riva al fiume in riva la fiume a Jiaro. Infinite marce fa. Sdentata. Accoccolata vicino alla pozza verdastra e non li aveva salutati.
"... Si strappavano di dosso i vestiti, solo a sentire la tua voce".
Ed ora gli scoppiò la rabbia. Finalmente.
"Perché non parli? Perché non mi rispondi? Ti faranno parlare. Sei nostro, ormai, ti teniamo in pugno, dopo trent'anni di caccia. Kaplan è morto, e così pure Weiss e Amsel. Oh parlerai, stai tranquillo, fin quando non ti avremo strappato la pelle, la pelle dell'anima".
Il ragazzo ora urlava. Aspirava forte l'aria e urlava. Il vecchio alzò gli occhi e ammiccò.
"Ich?"

venerdì 11 luglio 2014

Libri per l'estate: novità e consigli di lettura


Francesco Piccolo, Non potete fermare il vento. Sulla scia dello straordinario Il desiderio di essere come tutti, vincitore dello Strega, ecco ripubblicata una prova giovanile dello scrittore napoletano. Sullo sfondo della sua città, dalla bellezza struggente e immortale, si dipanano tre storie adolescenziali: quella di Enrico, avido di vita e libertà; di Genny, generoso e sfortunato; e di Chiara, vibrante d’impegno politico e vittima delle prime delusioni amorose. Un romanzo corale, toccante e profondo; una ricognizione sul filo della nostalgia che profuma della verità del sentimento più sincero.

Marco Malvaldi, Tressette con il morto. Nuovo, irresistibile capitolo della saga del BarLume: stavolta nonno Ampelio, Aldo, il Rimediotti e il Del Tacca, il commissario Fusco e la banconiera Tiziana assistono il ‘barrista’ Massimo sulle tracce di un diamante scomparso (assieme alla padrona, l’aristocratica russa Irina). Fra equivoci, dileggi e intuizioni bislacche i Nostri saranno affiancati dalla vedova Taglienti (un nome un programma!) nella risoluzione dell’intrigo internazionale sullo sfondo di una provincia pisana fintamente sonnacchiosa.

Benedetta Parodi, In cucina comando io. Divertente e fresca come una caprese estiva, ecco un'antologia imperdibile delle ricette di Benedetta: facili, veloci e tutte da gustare!

Chiara Gamberale, Tutto di me. "Da quando la vita è vuota, non mi ero mai accorta che fosse così piena. Il meglio della vita sta in tutte quelle esperienze interessanti che ancora ci aspettano": queste le inquiete domande che si rivolge Chiara, la protagonista del libro. E aggiunge divertita: "Come si fa a volersi bene senza farsi troppo male?". Dall'autrice di Donna contro donna, un'indagine magistrale nei meandri della femminilità, portata avanti sul filo della dolcezza e dell'ironia.

Massimo Cacciari, La sconfitta del Katechon. Attraverso una finissima analisi del pensiero di Heidegger, Evola e Theodor Herzl, lumeggiata da riferimenti al Kali Yuga indù e alle Apocalissi gnostiche, il filosofo veneziano conclude sull'ineluttabilità dei destini declinanti dell'Europa. Un saggio lucido e profetico sul futuro delle nazioni, ma anche il personale e sincero resoconto di un'avventura personale e spirituale. Postfazione di Roberto Calasso.

Adelaide Zummo, Il sangue e la spada. Sesto episodio della saga del vampiro Lord Carnavon, sempre alla ricerca dell'inafferrabile Sophia, sposa-amante e madre di Batalo, il re dei lupi mannari che, dalle montagne ghiacciate di Knirr, minaccia il regno di 'Nduia. Una saga fantasy mozzafiato che ha già conquistato i cuori degli appassionati italiani. Numero 1 fra gli adolescenti italiani, la Zummo è già tradotta in più di venti paesi.

Clelia Alfonsi, Amali e lasciali. "Vorrei un uomo capace di aprirmi porte verso spazi conosciuti. Che mi stupisca. Che adoperi la fantasia. Qualcuno dirà: ma quanti cavoli, vuoi la luna. Ma sono stufa di fare sempre la parte della trascinatrice. Lo ammetto, sono esigente. Nelle amicizie come nell'amore. E mi piace ridere". Con queste parole inizia il romanzo rivelazione della Alfonsi, la risposta italiana alla romantic comedy anglosassone. Fra (auto)ironia, qualche cattiveria, e battute fulminanti ecco le confessioni di una figlia del secolo sempre sull’orlo di una (spassosa) crisi di nervi. 

Valerio Massimo Manfredi, La stemma degli inganni. L’Impero sta crollando sotto i colpi delle invasione barbariche: Roma, la luce dell’Occidente, è già stata violata. Fra le brume del Nord, nella Britannia, il condottiero Aurelianus Ambrosius, assieme al centurione Geoffrey di Monmouth e all’ambigua sacerdotessa Morgan Le Fay, tiene alto il prestigio della romanità combattendo le orde germaniche e sassoni. Il suo stemma non è l’aquila, ma l’orso, arth, da cui il soprannome Artù … Un travolgente fantasy d’ambientazione celtica che unisce il piacere per l’avventura all’accuratezza e alla profondità dello storico.

Antonio Vitali, La lingua dell'Uselanda. Vitali al suo meglio. Il fascismo incipiente, la vita di provincia, i pettegolezzi, gli amori giovanili: sul filo della nostalgia una coinvolgente giostra di personaggi e vicende irresistibili e divertenti, il ritratto dell'Italia più vera e profonda.

Margaret Mazzantini, Ecco le stelle. "Sono le favole a finire con un inizio, in cui tutti vivono per sempre felici e contenti. Nella vita è vero il contrario, e cioè che la fine dell'amore è già scritta nel suo inizio. Perfino chi vive insieme a una persona tutta la vita deve continuare a finire e a iniziare di nuovo, perché chi ti sta accanto continua lentamente a cambiare": questo l’incipit del nuovo, toccante romanzo della scrittrice romana: gli affetti familiari, la perdita, il ritrovarsi: un commovente melange che alterna con maestria la dolcezza e la forza delle passioni più sincere.

Umberto Eco, Il nome della rosa redux. Chi si nascondeva veramente dietro i delitti dell'abbazia? Chi armava la mano e l'ideologia di Jorge da Burgos? Qual è il fine dell'ambigua setta bogomila Spudaiogeloion? Dopo trent'anni Guglielmo da Baskerville torna sul luogo degli antichi delitti assieme al fido Adso per scongiurare un complotto che rischia di sovvertire l'intera Europa.

Francesco Totti, Ve l’avevo detto. E mo’ che fate? Esilarante antologia di papere (lessicali), barzellette e prese in gito raccolte dal fantasista romanista. Divertenti (e bonarie) le stoccate a Balotelli e all’ex laziale Hernanes.

Helen Woods, Padrone dei miei desideri. Mary, fresca laureata a Harvard, rampolla d'una ricchissima famiglia del Massachussets, decide di trascorrere un anno sabbatico in Italia. A Firenze incontrerà un giovane perdigiorno, Matteo, che la conquisterà con la sua bonomia e la spensieratezza tipica del Bel Paese. Sullo sfondo di una città dalla bellezza immortale e struggente, una storia d'amore imprevedibile quanto coinvolgente. 

giovedì 10 luglio 2014

Vita e sogno, pagine di uno stesso libro

G. Luca Chiovelli

- IV secolo a.C. Platone, VII libro de La Repubblica:
“Si immaginino degli uomini chiusi fin da bambini in una grande dimora sotterranea, incatenati in modo tale da permettere loro di guardare solo davanti a sé. Dietro di loro brilla, alta e lontana, la luce di un fuoco, e tra il fuoco e i prigionieri corre una strada con un muretto. Su questa strada delle persone trasportano utensili, statue e ogni altro genere di oggetti; alcuni dei trasportatori parlano, altri no. Chi sta nella caverna, non avendo nessun termine di confronto e non potendo voltarsi, crederà che le ombre degli oggetti proiettate sulla parete di fondo siano la realtà; e che gli echi delle voci dei trasportatori siano le voci delle ombre”.

- IV-III secolo a. C. Aneddoto del maestro Zhuāngzǐ:

"Una volta Zhuāngzǐ sognò di essere una farfalla, una farfalla che svolazzava qua e là spensierata.
Non sapeva di essere Zhuāngzǐ.
Improvvisamente si svegliò ed ecco che era di nuovo Zhuāngzǐ.
Ma ora non sapeva più se era Zhuāngzǐ che aveva sognato di essere una farfalla oppure se era la farfalla che stava sognando di essere Zhuāngzǐ".

- 54 d. C. San Paolo, Prima lettera ai Corinzi, 13, 12
"Adesso noi vediamo in modo confuso, come in uno specchio; allora invece vedremo faccia a faccia. Adesso conosco in modo imperfetto, ma allora conoscerò perfettamente, come anch'io sono conosciuto”. (Videmus nunc per speculum in aenigmate, tunc autem facie ad faciem; nunc cognosco ex parte, tunc autem cognoscam sicut et cognitus sum)

- I secolo d. C., Vangelo secondo Giovanni, 14, 30

"Non parlerò più a lungo con voi, perché viene il Principe di questo mondo ..."

- III secolo d. C., Ipostasi degli Arconti (dai codici gnostici di Nag Hammadi).

Sophia crea, da sola (senza Gesù Cristo), Yahwhe (Samael, Yaldabaoth) ovvero Satana, il Demiurgo ingannatore, creatore del mondo materiale:

"E prese la sua forma dall’ombra ed è diventato una Bestia Arrogante che assomiglia ad un leone. Ed è androgino, perchè è dalla materia che proviene.
Aprì gli occhi e vide un grande quantità di materia senza limiti, ed egli divenne arrogante, dicendo: 'Sono io che sono Dio, e non c’è nessun altro a parte me'".