lunedì 27 gennaio 2014

Giornata della memoria: Ebrei


Marta Ancona
Niente foto, non so come mai, ma non posso ignorare il mio primo contatto con la parola Ebrei. Foto di classe niente, e soprattutto foto di loro, gli Ebrei. Ma li ricordo assai bene, uno per uno, sarei in grado di descriverne i tratti con una qualche precisione.
Contatto con la parola, con la storia, con il concetto, con la persona.
Ero in quarta elementare, a Roma, appena trasferiti da Napoli, solo io e papà. La domestica Giuseppina mi accompagnava ogni giorno alla scuola XXIV maggio, ai piedi della lunga (126 gradini) larga bianca e assolata Scalea del Tamburino: tutto Monteverde vecchio è un omaggio al Risorgimento italiano e ai suoi protagonisti e in particolare alla Repubblica romana del 1949, quella che scrisse la Costituzione sulla base della quale fu scritta poi, dopo la II guerra mondiale, quella ancora in vigore. Un fulgido esempio di laicità e idee progressiste nel cuore stesso della cristianità e del suo potere temporale.
Ebbene tutti i giorni percorrevo a scendere (e poi a salire) quella scalinata per andare a scuola, la piccola scuola elementare XXIV maggio, dove ci accoglieva severa e tutt’altro che bella la maestra Argenti, Maria Argenti, alta e scura di pelle, viso segnato, tratti forti, naso importante, magra nel busto e forte di bacino, una toscanaccia che diceva “arinmetica” e “prendi quella ssedia”, bravissima a insegnare, severa ma giusta, molto affettiva. Noi sentivamo che ci amava, tutti diversamente, che ci teneva a noi e ai nostri risultati (suoi risultati), una comunista che non ci faceva recitare la preghiera al mattino prima di iniziare la lezione, e delegava la faccenda a qualche religiosa che ci impartiva anche qualche nozione di catechismo. E durante quelle preghiere io notavo quattro bambini, Claudio e Rossella Piperno (non erano parenti), Liana Dell’Ariccia, e Alberto (non ne ricordo il cognome, ma i tratti sì, biondo e riccio, occhi chiari, un ebreo “nordico”) che si alzavano anch’essi, ma non recitavano con noi il Pater noster.

Non so chi fu a dire qualcosa, fatto sta che da mezze frasi e accenni ricostruii un minimo di storia. Seppi così per la prima volta che esistevano delle persone che non condividevano la nostra religione, e che a motivo di ciò erano state vittime di persecuzioni odiose e inspiegabili, e lì, in quei bambini, potevamo vedere i figli o i nipoti di persone catturate e portate in misteriosi campi di lavoro e morte, e di altre cadute nell’eccidio delle Fosse Ardeatine. Liana era una di quelle. La pelle lentigginosa, i capelli castano scuri, Liana era molto carina; nel suo viso morbido cercavo le tracce di quella tragedia senza trovarvi niente. Eppure c’era, lo sapevo. Quei bambini mi apparvero subito come segnati da una luce diversa. Bambini speciali, intelligenti, curiosi, preparati. A parte Rossella, che era davvero un po’ speciale, gli altri non lo erano tanto. E tuttavia provavo per tutti loro, indistintamente, come una sorta di rispetto ossequioso, non un ossequio che traspariva all’esterno, una cosa dentro di me; le vicende che li avevano attraversati, per interposto genitore o zio o nonno o amico, davano loro un'aura degna di attenzione.
Scoprivo nel frattempo che anche la mia famiglia, da parte paterna, aveva patito le conseguenze del suo cognome, e che io stessa ero stata in qualche modo segnata dalle leggi razziali: nel mio certificato integrale di nascita c’era l’orribile dicitura “di razza ariana”, per la qual cosa seppi che mio padre aveva dovuto produrre certificati di battesimo fino ai trisavoli. Così in qualche modo sentivo di far parte anch’io della storia degli ebrei….era stata solo un’inversione fortunata della storia che mi (ci) aveva risparmiato le conseguenze nefaste dell’ essere nati con il marchio della stella di Davide.
In realtà, se ebrei eravamo stati, ciò era accaduto secoli prima, e quindi, nella migliore delle ipotesi, non potevamo che essere marrani, ossia vili traditori della nostra vera religione e del nostro unico vero Dio; senza considerare il fatto che, nei secoli, se di questione di sangue si trattava, questo si era di certo assai annacquato. E a non volere tenere conto, inoltre, che si è ebrei solo per via matrilineare…. Più di così si muore, diciamo. Quindi di ebreo noi non avevamo niente se non un cognome di città, e tuttavia in qualche modo mi sentivo un po’ ebrea anche io. Avevo anch’io una stella di Davide addosso, ma nascosta, sotto pelle. E d’altronde non era forse vero che mio fratello e io eravamo nati con una strana e alquanto vasta macchia bluastra che occhieggiava appena sopra l’osso sacro? E come mai quella macchia veniva chiamata mongolica? Non segnalava forse che appartenevamo a una stirpe diversa, nobilmente diversa?
Rossella, dai capelli neri ondulati, che era la più intelligente tra tutti noi, compresi i suoi correligionari, aveva un fratello di poco più grande, Alberto. Un paio di volte accadde che a villa Sciarra ci si trovasse tutti insieme a giocare a rubabandiera o nascondino. Io ero un po’ innamorata di lui, mi sembrava un bel ragazzo, alto, scuro di capelli…e inoltre era anche ebreo!
Non diventammo mai amici stretti, non ci si frequentava, ma negli anni ho continuato a incontrare di tanto in tanto Alberto.
Di Rossella seppi all’improvviso, non so più da chi, che era morta, a 24 anni, per una “cisti da cane”, ossia per una cisti polmonare da echinococco. Una cosa tremenda. Povera Rossella! Chissà quanto e come aveva sofferto! O forse no, non chiesi dettagli, era come se mi vergognassi di essere viva…
Claudio non l’ho più visto, così anche Alberto, il fratello di Rossella, e anche l’altro Alberto. O forse li incontro ma non li riconosco.

2 commenti:

  1. le esperienze della vita sono quelle che ci formano. Grazie. un bel ricordo raccontato e condiviso.

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