Marta Ancona
Niente
foto, non so come mai, ma non posso ignorare il mio primo contatto
con la parola Ebrei. Foto di classe niente, e soprattutto foto
di loro, gli Ebrei. Ma li ricordo assai bene, uno per uno, sarei in
grado di descriverne i tratti con una qualche precisione.
Contatto
con la parola, con la storia, con il concetto, con la persona.
Ero
in quarta elementare, a Roma, appena trasferiti da Napoli, solo io e
papà. La domestica Giuseppina mi accompagnava ogni giorno alla
scuola XXIV maggio, ai piedi della lunga (126 gradini) larga bianca e
assolata Scalea del Tamburino: tutto Monteverde vecchio è un omaggio
al Risorgimento italiano e ai suoi protagonisti e in particolare alla
Repubblica romana del 1949, quella che scrisse la Costituzione sulla
base della quale fu scritta poi, dopo la II guerra mondiale, quella
ancora in vigore. Un fulgido esempio di laicità e idee progressiste
nel cuore stesso della cristianità e del suo potere temporale.
Ebbene
tutti i giorni percorrevo a scendere (e poi a salire) quella
scalinata per andare a scuola, la piccola scuola elementare XXIV
maggio, dove ci accoglieva severa e tutt’altro che bella la maestra
Argenti, Maria Argenti, alta e scura di pelle, viso segnato, tratti
forti, naso importante, magra nel busto e forte di bacino, una
toscanaccia che diceva “arinmetica” e “prendi quella
ssedia”, bravissima a insegnare, severa ma giusta, molto
affettiva. Noi sentivamo che ci amava, tutti diversamente, che ci
teneva a noi e ai nostri risultati (suoi risultati), una comunista
che non ci faceva recitare la preghiera al mattino prima di iniziare
la lezione, e delegava la faccenda a qualche religiosa che ci
impartiva anche qualche nozione di catechismo. E durante quelle
preghiere io notavo quattro bambini, Claudio e Rossella Piperno (non
erano parenti), Liana Dell’Ariccia, e Alberto (non ne ricordo il
cognome, ma i tratti sì, biondo e riccio, occhi chiari, un ebreo
“nordico”) che si alzavano anch’essi, ma non recitavano con noi
il Pater noster.
Non
so chi fu a dire qualcosa, fatto sta che da mezze frasi e accenni
ricostruii un minimo di storia. Seppi così per la prima volta che
esistevano delle persone che non condividevano la nostra religione, e
che a motivo di ciò erano state vittime di persecuzioni odiose e
inspiegabili, e lì, in quei bambini, potevamo vedere i figli o i
nipoti di persone catturate e portate in misteriosi campi di lavoro e
morte, e di altre cadute nell’eccidio delle Fosse Ardeatine. Liana
era una di quelle. La pelle lentigginosa, i capelli castano scuri,
Liana era molto carina; nel suo viso morbido cercavo le tracce di
quella tragedia senza trovarvi niente. Eppure c’era, lo sapevo.
Quei bambini mi apparvero subito come segnati da una luce diversa.
Bambini speciali, intelligenti, curiosi, preparati. A parte Rossella,
che era davvero un po’ speciale, gli altri non lo erano tanto. E
tuttavia provavo per tutti loro, indistintamente, come una sorta di
rispetto ossequioso, non un ossequio che traspariva all’esterno,
una cosa dentro di me; le vicende che li avevano attraversati, per
interposto genitore o zio o nonno o amico, davano loro un'aura degna
di attenzione.
Scoprivo
nel frattempo che anche la mia famiglia, da parte paterna, aveva
patito le conseguenze del suo cognome, e che io stessa ero stata in
qualche modo segnata dalle leggi razziali: nel mio certificato
integrale di nascita c’era l’orribile dicitura “di razza
ariana”, per la qual cosa seppi che mio padre aveva dovuto
produrre certificati di battesimo fino ai trisavoli. Così in qualche
modo sentivo di far parte anch’io della storia degli ebrei….era
stata solo un’inversione fortunata della storia che mi (ci) aveva
risparmiato le conseguenze nefaste dell’ essere nati con il marchio
della stella di Davide.
In
realtà, se ebrei eravamo stati, ciò era accaduto secoli prima, e
quindi, nella migliore delle ipotesi, non potevamo che essere
marrani, ossia vili traditori della nostra vera religione e
del nostro unico vero Dio; senza considerare il fatto che, nei
secoli, se di questione di sangue si trattava, questo si era di certo
assai annacquato. E a non volere tenere conto, inoltre, che si è
ebrei solo per via matrilineare…. Più di così si muore, diciamo.
Quindi di ebreo noi non avevamo niente se non un cognome di città, e
tuttavia in qualche modo mi sentivo un po’ ebrea anche io. Avevo
anch’io una stella di Davide addosso, ma nascosta, sotto pelle. E
d’altronde non era forse vero che mio fratello e io eravamo nati
con una strana e alquanto vasta macchia bluastra che occhieggiava
appena sopra l’osso sacro? E come mai quella macchia veniva
chiamata mongolica? Non segnalava forse che appartenevamo a
una stirpe diversa, nobilmente diversa?
Rossella,
dai capelli neri ondulati, che era la più intelligente tra tutti
noi, compresi i suoi correligionari, aveva un fratello di poco più
grande, Alberto. Un paio di volte accadde che a villa Sciarra ci si
trovasse tutti insieme a giocare a rubabandiera o nascondino. Io ero
un po’ innamorata di lui, mi sembrava un bel ragazzo, alto, scuro
di capelli…e inoltre era anche ebreo!
Non
diventammo mai amici stretti, non ci si frequentava, ma negli anni ho
continuato a incontrare di tanto in tanto Alberto.
Di
Rossella seppi all’improvviso, non so più da chi, che era morta, a
24 anni, per una “cisti da cane”, ossia per una cisti polmonare
da echinococco. Una cosa tremenda. Povera Rossella! Chissà quanto e
come aveva sofferto! O forse no, non chiesi dettagli, era come se mi
vergognassi di essere viva…
Claudio
non l’ho più visto, così anche Alberto, il fratello di Rossella,
e anche l’altro Alberto. O forse li incontro ma non li riconosco.
le esperienze della vita sono quelle che ci formano. Grazie. un bel ricordo raccontato e condiviso.
RispondiEliminagrazie
Elimina