mercoledì 26 giugno 2013

Nuova poesia italiana: Fabio Donalisio

immenso
ovvero: dell'assoluta ovvietà della sconfitta
della cosa vera e scritta, la quieta attitudine
al disastro che contraddistingue, l'intreccio
che non tange tanto ne scorgi la necessità
l'essere qua di un qualche là ma, sia chiaro,
non oltre, si tratta pur sempre – dici – di
roba che immane, roba attinente al mostro
mondo infame arso d'armonia (e chi la porta
via non può essere che il resto l'altro il sempre
mesto contesto cui dare uno straccio di colpa
cui dire alla fine la solita solfa che tanto c'è
un terzo additato al misfatto c'è un fuori
a fare innocenza a farci le veci se ancora
ci resta lo stile spietato del no non lo penso
se un poco di grazia s'è spento l'immenso

(poi ecco – quasi distratta –  la fitta, la torcibudella che canta:
si basta, si passa, si lascia si affonda nel nulla nel sotto

del nero e manco un pietruzzo manco una traccia



Francesca Fiorletta
La scrittura poetica di Fabio Donalisio serba in sé una qualche “attitudine al disastro”, tutt'affatto “quieta”. Si percepisce in ogni sillaba convessa, limata all'osso, giocata al netto dell'esperienza, il continuo ribollire del sangue, appena sotto la patina lucida di un raziocinio puntuale e perfettamente calato nell'analisi del nostro tempo presente. Un tempo che è già quello delle scritture in fuga, il tempo in cui “esistere per accumulo di evidenza è vizio diffuso” e che proprio in questa ridondante vacuità, contraltare di una pienezza estetica e critica che vorrebbe ormai darsi sopita, si rivela portatore di inefficaci strategie di sopravvivenza, sia sul versante letterario che per quanto concerne l'aspetto più strettamente umano. Si cercano allora punti di fuga altri, lontanissimi, spesso fuorvianti (“c'è un fuori a fare innocenza”), si gioca col suono e con l'immagine delle parole (“la torcibudella che canta”), si tentano giustificazioni plausibili a futura memoria. Molto interessante è la perpetua e fiancheggiante, non speculare ma per forza di cose endemica consonanza tra vita e scrittua, che occupa un ruolo centrale nella continua stratificazione e scomposizione che Fabio Donalisio opera sui suoi testi.
Fabio, ci spieghi qual è per te “l'assoluta ovvietà della sconfitta” della lingua odierna?
La sconfitta, prima di tutto (nel senso che è il punto di originalità del tutto), è ancipite: dilaga nel e dall'esistente, e implode poi (nel mentre) nella lingua che di quell'esistente è protasi, ipotesi e apodosi. La sconfitta è la condizione ideale e reale della lingua, il suo grado zero, la sua ovvietà. E, bada, lo dico colmo di gioia, quasi “selvaggia” (virgoletto, che dopo Bolaño non si sa mai), riottosa. La sconfitta è il punto di partenza, il sentimento dello iato. La consapevolezza dell'artificio (miracolo?) del dire. A casa mia dicono: chi le cose le fa, le fa, e non le dice. Chi le dice, non le fa.
Quello che vedo (verbo di fondamenta, per me) succedere, anzi no, non-succedere nella scrittura (in molta) di questo tempo (singolare) è proprio la cecità davanti a questo semplice (atroce) assunto. “Si basta, si passa, si lascia”. Si nasconde la brutale nudità della scrittura (della vita) con una patina di paradossale evidenza, ossessiva, che non solo non svela ma nasconde. Una maschera di maschera, un accrocchio disperante di voce e, sotto il vestito, inevitabile, il niente. La sconfitta della scrittura, della lingua, è che, semplicemente, non dovrebbe essere. Il fatto che ci sia, è segno di una difficoltà intrinseca, di un vuoto incolmabile (letteralmente) tra te soggetto (e pure su questo concetto ci sarebbe da discutere) e mondo. La lingua è una rincorsa, di niente. Perché nulla “c'è”, direbbe Gorgia. Quindi non c'è battaglia? Falso. C'è una battaglia meravigliosamente persa che costringe all'equilibrio, assoluto, tra costruzione e dissoluzione; costringe (dovrebbe) al rigore, allo scavo dentro la parola (la singola parola) alla ricerca delle aderenze di significato. Si dovrebbe osteggiare lo scialo quantitativo. Dire sembra facile. È facile. La poesia, poi, è il dire più facile che c'è, e DEVE esserlo. Dentro il facile però, come dentro il diritto, si annodano i tarli dell'atarassia, e della vanità da specchio. Io, se mi si concede il pronome, vorrei solo essere (sono) sconfitto dalla lingua, perso nella lingua. Nel mondo (posto che esista), beh, è un'altra storia.
Parliamo allora del tuo mondo (letterario) e della tua lingua (poetica). Autori che stimi particolarmente, poetiche che pensi ti abbiano influenzato, ieri e oggi, anche in forme tangenziali, o a cui ti senti più affine?
La critica che chiede all'autore di fare autocritica. File under: cosa ti ha fatto ciò che sei. Parecchio. Leggere, prima di tutto. Come l'Encolpio di Petronio, se gli atomi della tua “coscienza” o “percezione” hanno preso il clinamen linguistico, cominci fin da piccolo a decrittare il fuori attraverso la lingua, prima, e quell'accrocchio di lingua sconfitta e pensiero sconsiderato – la letteratura – poi. La letteratura ti fa “mitomane”, capace di far cozzare gli archetipi e crearti il tuo dentro, abissale eppure diffuso, vivo e artefatto insieme. La mia grammatica, in ordine sparso: Céline e Faulkner. Poi i mitografi moderni, McCarthy, Bolaño, Marilynne Robinson. Tanta america, orizzontale. La sintassi dell'italiano: Gadda, Manganelli, Fenoglio, Mari, Moresco, Busi, Morselli. E i poeti? Giorgio Caproni, sempre e comunque. IL poeta. Montale saturo. Pasolini religioso. Sereni umano. Ivano Ferrari, macellaio. Il silenzio (a)critico su di lui grida una vendetta folle. E, come tutti i silenzi, dice tanto di quel tanto.
So bene che entrare nella “bottega” di chi scrive è sempre pernicioso, e, con buona pace della curiosità critica e (a)critica, concordo ampiamente con quanto dicevi all'inizio, che “chi le cose le fa, le fa, e non le dice”. Però, in conclusione, proviamoci ugualmente: c'è Fabio Donalisio e c'è una pagina bianca. Che succede a questo punto?
Continua a stupefarmi che possa essere ritenuto interessante cosa fa uno scrittore quando scrive. Una delle attività, o inattività, più solipsistiche e private che si possano immaginare. Certo, la spettacolarizzazione è giunta pure qui. Si può spiare di tutto, mettere in piazza di tutto. Di solito lo fa chi non è. Vedi sopra. Io, scrivo poco, rapidamente e al computer. Niente di romantico. A vedersi. In verità scrivo dentro. Magari per mesi. E quasi sempre sotto il livello cosciente. Poi c'è l'emersione. Rapida, appunto. Da far meno rumore possibile. Meno parole possibile. Quasi fosse un atto furtivo, rubato. Mica li capisco io, i forzati della pagina. Sarà sempre il benedetto understatement, chissà. Poi di nuovo è il tempo a creare il sedimento. Da lì, parte il “lavoro” di lima, anzi meglio, di pialla e trapano. A togliere, sempre. Smontare e raramente riassemblare. Saltuario anche quello. Indisciplinato, ametodico. A un certo punto, la concrezione è pronta per essere in qualche modo ordinata. E allora sono le parole stesse a farlo, il lavoro. A dialogare con lo spazio (sulla carta), con il vuoto, tra loro. Non faccio altro che ascoltarne la voce (alta), rubarla un'altra volta (che già non è più “mia”, se mai lo è stata), magari delocalizzarla, esternalizzarla ancora. Questa fase, per quanto casuale nell'apparire, è l'unica in cui spalanco i cancelli alla maniacalità assoluta. Non ci fosse l'occasione, il libro, o quant'altro, a fare da coazione, il processo non si interromperebbe mai. A parte questo, ci sono le “commissioni”. Le adoro perché fanno uscire il retore che mi abita. Ma, anche qui, è un'altra storia.


Un'altra poesia di Fabio Donalisio:
(lezioni di ecologia)

l'elevato tasso di misgrafia  mi fa inviso
alla scrittura dei molti moltissimi quali
che sian che son comunque sempre e
                                                                     troppi
esistere per accumulo di evidenza è vizio
diffuso che, se pur ti riesce di illudere la strada
vola relativo senza quasi intoppi
(escludendo un certo invidiare manco troppo
interstiziale
       ebbene dicevo comunque vada
non ti sarà successo, non entrerai nel vivo
sarai ovvio ghigno al codazzo di te e gli altri
te senecamente (senilmente) occupati e no – non

mi spiace – non sarete ricordati


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