Il sesto film del regista Paolo Sorrentino è una pellicola e un'esperienza di per sé visionaria, sensoriale, a tratti onirica e surreale, attraversata da una venatura pop che il montaggio accentua, cosi come i movimenti di camera, così rapidi e condensati da lasciare senza respiro. La citazione di Céline riportata all'inizio ci introduce in questo viaggio immaginario ma realistico, nel quale il tempo ha perduto ogni sacralità a favore di un tempo profano che percorre in senso laico la trama del film, intersecando accenni di esistenze che restano tali. Una parata di personaggi, ormai macchiette di se stessi, che si muovono nella location di una Roma mozzafiato esaltata dalle luci e dai riflessi, anche notturni, delle architetture che ne perimetrano gli spazi vuoti di 'persone'. Queste apparenze popolano feste, su terrazze panoramiche, ridotte a ritualizzazioni di un divertimento fasullo, che sembra trasformarsi in una metaforica camera iperbarica di suoni e balli di gruppo, orfani finanche di quegli atteggiamenti tribali che riescono a produrre aggregamento, unione. Le solitarie passeggiate notturne a ridosso dell'alba che il personaggio principale, interpretato da Tony Servillo, compie nel tornare a casa dopo questi baccanali, sono occasioni di incontri casuali e sfuggenti che gli restituiscono comunque lampi di percezioni, sensibilità e un contatto con un'umanità ordinaria e, dunque, ancora viva.
Quaranta anni dividono la sua esistenza decapitata dell'aspirazione a conquistare la grande bellezza, che lo vide venticinquenne lasciare il Sud per Roma, e la sua vita attuale connotata da un consapevole decadimento morale. Questo giornalista-scrittore, un unico libro scritto il cui successo viene ancora ricordato, è il protagonista osannato di questa mondanità che sopravvive a se stessa, ridotta a un costante e cinico autoinganno. Il film ci conduce all'interno di questo affresco variegato e rappresentativo di tipologie umane prigioniere del bisogno di esorcizzare l'esistenza, laddove il linguaggio usuale non trova le parole per definire ciò che è incomprensibile. Paradigmatica la scena che ritrae in una sala d'attesa gente serializzata in un'attesa miracolistica della moderna manna dal cielo, il botox, che li riaffama piuttosto che nutrirli, alla ricerca di una felicità che diserta le loro vite.
Un'umanità che annovera anche alti prelati e che concretizza la propria presenza nel mondo in un narcisismo che non raggiunge un vero apice in quanto manca perfino di un certo tipo di sua "statura". L'ambientazione romana in cui si muovono questi sembianti è rappresentativa anche di quell'altrove caricato di senso e di aspettative, al quale viene delegata una ricerca di sé che non parte dall'interiorità. E parimenti è obliata la capacità di preservare il potenziale che racchiudono in sé i rapporti, dove si potrebbero scorgere tracce di quella bellezza che getta una luce ordinaria e per questo sublime verso le nostre esistenze.
La visita che Jep Gambardella fa a una mostra fotografica che presenta un unico volto ritratto giorno dopo giorno sin dall'infanzia, è una galleria della memoria di sé che gli proietta un rimando attraverso il riflesso del suo stesso sguardo, regalandoci un passaggio di questo bagliore improvviso e inaspettato. La compassione, il patire con l'altro, si affacciano sul volto di Jep, che per un istante perde il suo camuffamento cinico. La crescente seppur flebile necessità di ricercare le radici, più volte proposta esplicitamente in qualche segmento del film, fa anch'essa sospendere questa amnesia dei ricordi che trovava un brandello di essi nell'immagine fantasticata e 'visibile' del mare sul soffitto della sua camera da letto. Esperienza privata e intima che riesce a condividere con la spogliarellista Ramona/Sabrina Ferilli all'interno di un rapporto che entrambi riescono a non nullificare. Anche la scelta dell'amico autore-attore frustrato, interpretato da Carlo Verdone, di lasciare Roma lo interroga in qualche modo rispetto alla possibilità di ricontattare ciò che aveva lasciato, l'oggetto della sua iniziale ricerca che, nel passare del tempo, aveva poi abortito.
Infine, la parte che concerne la visita a Roma di suor Maria, una "Santa" che sembra mummificata nel silenzio di una dimensione altra, che si offre comunque alla visione di una arrampicata votiva sui gradini della scala santa, è troppo grottesca e stucchevole nelle esagerazioni visive cui indulge il regista. Un film che può dividere nelle valutazioni, ma che lascia comunque una sensazione insieme di raggelamento e di pietà per questa umanità e per l'Italia di questi anni.
La grande bellezza
Regia: Paolo Sorrentino
Sceneggiatura: Paolo Sorrentino, Umberto Contarello
Attori: Tony Servillo, Carlo Verdone, Sabrina Ferilli,Roberto Herlitzka,Isabella Ferrari,Giorgio Pasotti, Massimo Popolizio, Pamela Villoresi, Vernon Dobtcheff, Serena Grandi
La tua lettura è acuta e dettagliata come sempre, ma confesso di essere uscita dalla visione del film con più di una perplessità, perplessità che del resto tu stessa esprimi, in specie per quanto riguarda l'insopportabile e troppo lunga parte con la "Santa". Ho trovato il progetto terribilmente ambizioso ma privo della forza necessaria per dargli sostanza: alla fine mi è sembrata una cattiva scimmiottatura di Fellini, più grottesca e carica, molto finta. Tanto da cancellare proprio il senso che pretenderebbe di esprimere. Così anche Servillo è sembrato scadere in uno stucchevole manierismo. Soprendentemente ho trovato accenti di verità piuttosto nel ritratto della prostituta/ Ferilli e nello scrittore fallito/Verdone. In conclusione trovo che c'è troppa roba, e quando ce n'è troppa alla fine non rimane proprio niente, ed è con questa sensazione di vuoto che mi sono ritrovata fuori dal cinema....
RispondiEliminaMarta,condivido qualche perplessità ,anche se mi annovero fra gli estimatori della pellicola. La visionarieta' di Fellini, la dimensione sognante e inconscia, confluiscono nei suoi racconti filmici,mentre Sorrentino mi sembra mostra uno spaccato contemporaneo di un'Italia che indulge verso pratiche esistenziali concretistiche che lasciano spazio a poco altro. Trovo una distanza fra i due,un modo di narrare la contemporaneità attraverso registri stilistici diversi,seppur con qualche inevitabile assonanza. Il senso di vuoto di cui parli,sensazione che il film ha lasciato anche a me,credo sia lo stesso vuoto imperante che il regista ha voluto mettere in evidenza attraverso certe forti caratterizzazioni di personaggi che popolano la nostra società.
RispondiEliminaPatrizia Vincenzoni
Anche Fellini nella Dolce vita mostrava uno spaccato contemporaneo, non era puramente visionario. Comunque non mi stupisco affatto che ti sia piaciuto, credo sia piaciuto a molti. Ma non è solo per essere bastian contrario che mi metto tra coloro che non l'hanno apprezzato del tutto: del tutto, bada. Insomma dò per scontata una certa qualità e intelligenza, discuto sul risultato non del tutto raggiunto, secondo me, tutto qui
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