Antoine Volodine, Scrittori
traduzione di Federica Di Lella e Didier Alessio Contadini
traduzione di Federica Di Lella e Didier Alessio Contadini
Edizioni Clichy, pp. 180, euro 16
Leyla Khalil
Volodine non si sbizzarrisce con i
titoli.
“Scrittori”.
Écrivains, in francese. Punto e basta.
Eppure dietro il titolo scarno, in
questa prima opera tradotta in italiano dello scrittore francese
Antoine Volodine si cela un mondo. A cui, seppur parzialmente,
si è tentato di iniziare i lettori e le lettrici nell'articolo La Grasse Matinée – I bei libri sono scritti in una sorta di lingua straniera, sempre scritto dalla sottoscritta.
L'autore parla di un mondo che sta
ovunque e da nessuna parte, plasma ambienti familiari per straniare
il lettore l'attimo dopo. Seppur con una dose immensa di pessimismo,
Volodine riesce nel fanciullesco intento di sorprendere il mondo
inquadrandolo da angolazioni del tutto nuove. Al post-modernismo
degli impiegati annoiati, alienati, per cui tutto è noto, tutto è
routine ripetitiva, il misterioso autore francese risponde dando voce
a personaggi che danno conferenze dall'oltretomba, come Maria
Trecentotredici, a scrittori falliti che nominano tutti i loro
personaggi con le numerosissime declinazioni di uno stesso nome,
Wolff, a bambini cantastorie, a folli. Scrittori tutti, sì, ma
ognuno a modo suo.
Soggiacente, il fil rouge della diversità come
ricchezza:sono scrittori fuori dal coro, quelli di Volodine, e fuori
dal coro sono i loro nomi ibridi, metafora di un mondo in cui si sono
rimescolate le carte e non ce n'è uno che abbia conservato
un'identità univoca. Diversità come ricchezza, nel mondo
post-moderno di Volodine. Di fronte al nazionalismo sbandierato dai
tanti poeti-vate esistiti fino ad oggi, Antoine Volodine racconta un
mondo estraneo e straniero in cui il triangolo autore-nazione-cultura
è sgretolato, sfaldato, e un universo senza connotazioni, familiare
a tutti e al tempo stesso a nessuno, prende forma nella mente del
lettore sconcertato.
Se alcuni racconti sono di facile
accesso e con ogni probabilità criticamente ironici verso un certo
tipo di scrittori, penso a “Ringraziamenti” che, come dice il
titolo stesso, si sviluppa attraverso un lunghissimo elenco di
ringraziamenti ognuno dei quali cela una potenziale storia a sé (un
esempio: “Grazie alla documentarista della sinagoga di Praga, A.
T., che, dopo aver cercato invano insieme a me la data di nascita di
Franz Kafka, mi ha invitato alla trattoria all'angolo per una cena
improvvisata e forse mi avrebbe permesso di riaccompagnarla a casa
sua, che non era molto distante, se il suo ragazzo non avesse fatto
irruzione nella trattoria manifestando il chiaro proposito di
occuparsi lui stesso della cosa”), ve ne sono altri in cui più
piani temporali e spaziali si uniscono:l'infanzia, un ospedale
psichiatrico e la guerra fredda, celle di prigione.
Il mondo di Volodine ha pochi
connotati, ma è pieno di guerra. Come a dire che non ci si può
sbagliare, tanto la si trova ovunque. L'autore scimmiotta
continuamente l'ambiente élitario dei letterati, le loro conferenze,
le definizioni complicate, i saggi biografici, eppure al tempo stesso
li riscrive riga dopo riga:scrive i suoi autori, quel mondo
fantastico di personaggi inventati, Linda Woo, Kurilin, Maria
Trecentotredici, Boris Tarassev. Si prende gioco anche del pubblico
e, se da un canto finge continuamente di facilitargli la lettura
tramite continui elenchi, spiegazioni, chiarificazioni, dall'altro
ogni parola spacciata per spiegazione si rivela utile soltanto ad
aumentare il senso di vertigine e smarrimento, e ciò che si ottiene
è soltanto un'ulteriore oscurità. Ma gli scritti di Volodine vanno
letti così, con la torcia, ad illuminare continuamente nuovi aspetti
di un mondo già noto. Come se si ripercorresse il mondo ad occhi
bendati e di colpo si cominciasse a far caso a nuovi spigoli,
convessità, salite e discese, gradini e burroni che prima non si
erano notati.
Cosa curiosa, “Scrittori” è
ridefinizione continua del concetto di post-esotismo di cui Volodine
stesso è padre. I racconti, infatti, limano e ritagliano numerose
definizioni della scrittura post-esotica. Per dirne una: “Le
voci urlanti sono come il post-esotismo, vengono da altrove e non
vanno da nessuna parte oppure vanno verso l'altrove. Si possono
sentire, ma in realtà parlano tra di oro, cioè non parlano a
nessuno.” Oppure: “Così e solo così deve essere recepita
la letteratura post-esotica: come un'ultima testimonianza inutile e
immaginaria, pronunciata da individui allo stremo delle forze o dai
morti e per i morti. La nostra parola. […] Tuttavia, finché avremo
un po' di fiato in gola, rinnoveremo ancora e ancora la magia
insensata di questa parola, ci inoltreremo nel linguaggio e diremo il
mondo”. Quest'ultima citazione è senz'altro esplicativa di
quello che il post-modernismo è, nel suo profondo:un tentativo
folle, un volo pindarico per non arrendersi alla “fine dei viaggi”
di L. Strauss, un tentativo coraggioso spinto dalla voglia spiazzante
di “dire il mondo”.
Come? Volodine lo accenna in un altro
racconto: “Qualcuno aveva carta e penna, il che in alcune
prigioni in cui era stato non era consentito, compilava elenchi di
vocaboli immaginari, per esempio di nomi di specie vegetali, di nomi
di popoli perseguitati o sterminati, oppure semplicemente di nomi
inventati di vittime dei campi”. Che poi è quello che Volodine
stesso fa.
Un visionario, insomma, che, per dirla
facile, se la canta e se la suona o, per dirla difficile, scrive il
manifesto del suo stesso pensiero come se fosse sufficiente a
costituire un intero movimento letterario. Forse perché Volodine,
che ha pubblicato sotto vari pseudonimi, continua a sentirsi non uno
ma molti e, a nome di questi molti autoruncoli post-esotici denigrati
dall'universo a noi noto, scrive manifesti dall'aria pomposa. Un
visionario eccentrico, sì, ma ci voleva una figura del genere per
meravigliare di nuovo il mondo.
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