Ci siamo già interrogati sul vestimento del libro, su come, quell'insieme di qualità apparentemente secondarie (la carta, le cuciture, i caratteri, la coloritura della copertina), influisca sul godimento che intratteniamo col contenuto dello stesso. A complemento di quelle brevi riflessioni, possiamo aggiungere che la bibliofilia, quella pulsione a mezzo fra estetica decadente e volontà di potenza, si appaga quasi esclusivamente nel trattare libri che hanno vissuto più vite. E da cosa nasce questo impulso che spinge a desiderare, oltre al pregio e alla rarità, questi oggetti passati per decine di mani?
Una bellissima poesia di Bertolt Brecht ci avvicina al cuore del mistero.
Le scalinate di pietra dei borghi medioevali, consunte e infossate al loro centro da passaggi secolari; un affresco i cui colori si arrendono dolcemente al sostrato di calce sottostante, sbiadendo lentamente sino agli ultimi sussurri dell'invisibilità; alcune vecchie porte di legno segnate nei punti in cui le mani girarono innumerevoli le chiavi.
La patina dell'antico, giustamente ricercata dai falsari, può essere una prima risposta; non sufficiente.
Una bellissima poesia di Bertolt Brecht ci avvicina al cuore del mistero.
Fra tutti gli oggetti i più cari
Sono per me quelli usati.
Storti agli orli e ammaccati, i recipienti di rame,
I coltelli e forchette che hanno di legno i manici,
Lucidi per tante mani; simili forme
Mi paiono di tutte le più nobili. Come le lastre di pietra
Intorno a case antiche, da tanti passi lise, levigate,
E fra cui crescono erbe, codesti
Sono oggetti felici.
Penetrati nell'uso di molti,
Spesso mutati, migliorano forma, si fanno
Preziosi perché tante volte apprezzati.
Persino i frammenti delle sculture,
Con quelle loro mani mozze, li amo. Anche quelle,
Vissero per me. Lasciate cadere, ma pure portate;
Travolte si, ma perché non troppo in alto stavano.
Le costruzioni quasi in rovina
Hanno ancora l'aspetto di progetti
Incompiuti, grandiosi; le loro belle misure
Si posson già indovinare; non hanno bisogno
Ancora della nostra comprensione. E poi
Han già servito, sono persino superate. Tutto
Questo mi fa felice.
Le scalinate di pietra dei borghi medioevali, consunte e infossate al loro centro da passaggi secolari; un affresco i cui colori si arrendono dolcemente al sostrato di calce sottostante, sbiadendo lentamente sino agli ultimi sussurri dell'invisibilità; alcune vecchie porte di legno segnate nei punti in cui le mani girarono innumerevoli le chiavi.
La patina dell'antico, giustamente ricercata dai falsari, può essere una prima risposta; non sufficiente.
Qualche tempo fa mi recai, in pellegrinaggio annuale, presso il Museo dell'Alto Medioevo, all'Eur. Pagata l'irrisoria somma d'entrata agli sconsolati impiegati all'ingresso, potei contemplare in solitudine - il museo è pochissimo visitato - quei tesori strappati al tempo. Stoffe, pavimenti musivi (dalla villa di Santa Rufina, sulla via Boccea), torsi di colonne, intarsi di marmi colorati (da Ostia), piastre con rilievi zoomorfi, armi, monete, guarnizioni per cavalli da guerra, e gl'incredibili corredi femminili ritrovati nelle necropoli longobarde di Nocera Umbra, fibule, pettini d'avorio, calici, bracciali, orecchini a cestello. Uno di questi ultimi attirò, per una volta, la mia attenzione; per la finezza e complessità estrema della lavorazione aurea, ovviamente, e, soprattutto, per l'attitudine potente di quegli artigiani a privilegiare sempre e solo la bellezza.
"Ecco" mi sorpresi a pensare, favorito anche dal silenzio pomeridiano, quasi innaturale "questo antico monile, lucido per l'uso, di così squisita fattura, ebbe pur un artefice che lo concepì e lo realizzò amorevolmente, secondo tecniche apprese lente e sicure dai propri maestri d'arte; e, una volta foggiato, fu indossato, accarezzato, goduto, e mosse l'orgoglio di chi lo portava oppure assecondò il piacere dell'amante che lo porse in dono; e fu venduto, ereditato, concupito, tradìto per scopi venali, sino a acquietarsi qui, davanti ai nostri occhi, oggi - lo stesso gioiello di allora, ma ora carico dei destini di chi lo ebbe in dominio".
Gli oggetti antichi (fra questi i libri) sono perciò i testimoni silenziosi di esistenze passate che, però, non rimangono mute, ma, attraverso essi, vincono il tempo e irrompono magicamente nella quotidianità imponendosi come entità presenti.
L'antropologo James G. Frazer appellò tale credenza universale magia contagiosa – un impulso insopprimibile e atavico dell’animo umano secondo cui parti inorganiche (libri, monili, dipinti) s'impregnano dell'anima di chi ne entrò in contatto. "Si ammette e si ripete costantemente" spiega, ad esempio, "che unger l'arma che ha inflitto la ferita, fa guarire la ferita stessa" poiché l'arma, per contatto, è ormai tutt'una con lo spirito dell'uomo ferito; e, più oltre, aggiunge: "[presso la tribù australiana Wotjobaluk] uno stregone s'impadronisce talvolta della coperta ... d'un uomo e la brucia lentamente nel fuoco: ... il proprietario della coperta cade ammalato. Se lo stregone acconsente a disfare l'incantesimo, rende la coperta agli amici dell'ammalato, e dice loro di metterla dentro l'acqua per lavarne via il fuoco. Fatto questo, il paziente sentirà una frescura ristoratrice e probabilmente guarirà".
Così i libri.
Nelle loro carte ingiallite, nelle sottolineature, sui dorsi scuriti e nei caratteri di copertina colla doratura semicancellata, oppure lungo le piegature e i segnalibri sfilacciati, vivono concentrate esistenze innumeri, che ora, per il sortilegio sopraddetto, sono presenti fantasmaticamente. E spesso (e questo è peculiarità esclusiva d'essi) i libri ridonano davvero i segni materiali di tutto ciò: cartoline, appunti, biglietti di viaggio, santini, dediche, foto, ritagli.
A volte siam presi come da una vertigine di fronte a tali reperti di destini sconosciuti.
Vertigini o brevi malattie dello spirito che possono decorrere malignamente. Il protagonista del Bartleby di Melville impazzisce (invece di libri abbiamo, in tal caso, lettere):
"Bartleby era stato un impiegato subalterno nell'ufficio delle lettere smarrite a Washington, dal quale era stato all'improvviso licenziato per un cambiamento nell'amministrazione. Quando penso a questa diceria, a fatica riesco a esprimere le emozioni che mi pervadono. Lettere smarrite, lettere morte! Non suona come uomini morti? Pensate a un uomo, per natura e sventura, incline a una languida disperazione: esiste un lavoro più adatto ad accentuarla che maneggiare continuamente queste lettere morte e metterle in ordine per darle alle fiamme? Ogni anno ne vengono bruciate a carrettate. Qualche volta dal foglio piegato il pallido impiegato estrae un anello - il dito al quale era destinato, forse, imputridisce nella tomba; una banconota inviata in un moto di pronta carità ... e colui che ne avrebbe tratto sollievo non mangia più e non soffre più la fame; parole di perdono per coloro che morirono nello sconforto; di speranza per coloro che morirono disperati; buone nuove per coloro che morirono soffocati da sventure inconsolabili. Apportatrici di vita, queste lettere rovinano verso la morte"
Sopraffatto da una disperata compassione per quelle speranze vanificate, avvelenato dai fumi spettrali di chi le nutri inutilmente, Bartleby perde gusto alla vita e si lascia morire come un Amleto senza ambizioni di vendetta[1].
Spesso, quasi sempre, si reagisce in modo benigno. Ciò che si ritrova in un libro induce una sorta di empatia felice, che ben dispone alla lettura.
Una mia copia ciancicata di L'esistenzialismo è un umanismo, ad esempio, vanta, in esergo al titolo, un irrefutabile: "Io amo Gianna": splendido, per icastica nettezza e incongruità rispetto al contenuto; notevole anche una copia de Il declino del capitalismo di Emanuele Severino, in cui una serie di note fittissime e petulanti ingrossano polemicamente di pagina in pagina sino ad un bilioso e culminante: "È proprio qui che ti sbagli, fesso!"; in una edizione di Piccole donne degli anni Cinquanta, allietata da una serie di foto di scena dell'omonimo film, ritrovai, invece, una pagina quadrettata su cui campeggiava una scritta perentoria, in inchiostro blu pallido, dai caratteri rigonfi propri dei bimbetti: "Questo libro è di Laura"; un Balzac d'annata partorì tre fogli ripiegati d'una lettera d'amore, Faust una Madonna corvina e lungocrinita, allo stile giapponese, Terenzio un segnalibro pubblicitario di sigarette belliche.
La scoperta più commovente, tuttavia, la feci in un quaderno di scuola persiano; non mio, ma immaginato dal regista Kiarostami. Nel suo primo lungometraggio, Dov'è la casa del mio amico, egli racconta due giorni dello scolaro Ahmad (e del compagno di banco Mohamed). Nella loro classe insegna un maestro tetragono e inflessibile, che non ammette repliche. Tornato a casa dalla scuola, Ahmad si accorge di aver messo nella cartella sia il proprio quaderno che quello di Mohamed; per evitare una dura punizione al compagno (impossibilitato a svolgere il compito), Ahmad decide di riportarglielo in giornata. La missione si dimostra difficile: il villaggio di Mohamed è lontano e sconosciuto, oltre la collina; gli adulti, un incomprensibile mondo a parte, lo distraggono con noiose incombenze. Egli decide di tentare lo stesso: corre veloce per il dorso della collina, ridiscende verso il villaggio opposto, si aggira a caso, poi vede un paio di calzoni arancioni stesi: uguali a quelli di Mohamed! Ma la casa non è quella dell’amico. Il bambino continua la ricerca; lo sorprendono le luci della sera, si vede perduto. Un anziano falegname, però, si presta ad accompagnarlo, paziente Virgilio. I due salgono e scendono gradini consunti, rasentano mura scabre e calcinate in cui si aprono finestre con grate arabescate, aggirano spigoli levigati dalle piogge e dal tempo. Il vecchio si ferma ad una fontana per rinfrescarsi, trova un piccolo fiore e lo dona ad Ahmad. La meta, finalmente, è vicina, la casa è a pochi passi, in fondo a un viottolo buio. Il bambino si incammina, ma le tenebre sono fitte; un cane abbaia improvvisamente, spaventandolo; Ahmad ritorna sui propri passi, fugge a casa. Nella propria cameretta, di notte, mentre infuria un vento che frusta le lenzuola stese nel cortile, egli decide di espiare in altro modo la colpa commessa: eseguirà doppiamente i compiti, per sé e per il proprio amico.
L'indomani il maestro controlla sistematicamente i quaderni; Mohamed è chino sul proprio banco, sul punto di scoppiare in lacrime, in attesa della punizione inevitabile. Improvvisamente, però, bussano alla porta della classe: è Ahmad, un po' in ritardo, che chiede di essere ammesso in aula. Si acconsente. Ahmad fila al proprio banco, tira fuori i quaderni, li dispone davanti a sé e al compagno. Il maestro ne controlla uno, quello di Ahmad, poi passa a Mohamed: la penna severa passa in rassegna il compito, con sicurezza, da destra a sinistra, seguendo il corso delle linee di scrittura farsi: si complimenta - un lavoro ben fatto - e applica il sigillo della lode; nell'incavo delle ultime due pagine, inaspettato come un segnalibro dimenticato, riposa il fiore donato dal vecchio falegname, ora non più un fiore, ma il simbolo puro dell'amicizia sincera[2].
È l'ultimo fotogramma.
Pensate a quel semplice fiore - pensate a quale carico di fatica, paura, altruismo e, infine, improvvisa speranza racchiude. Un ricetto magico, come certi oggetti che vi accade di rinvenire nei vecchi libri.
Se lo scrivano di Melville avesse visto e capito quell'unico fiore si sarebbe forse salvato.
“Oh Bartleby, o umanità!”
"Ecco" mi sorpresi a pensare, favorito anche dal silenzio pomeridiano, quasi innaturale "questo antico monile, lucido per l'uso, di così squisita fattura, ebbe pur un artefice che lo concepì e lo realizzò amorevolmente, secondo tecniche apprese lente e sicure dai propri maestri d'arte; e, una volta foggiato, fu indossato, accarezzato, goduto, e mosse l'orgoglio di chi lo portava oppure assecondò il piacere dell'amante che lo porse in dono; e fu venduto, ereditato, concupito, tradìto per scopi venali, sino a acquietarsi qui, davanti ai nostri occhi, oggi - lo stesso gioiello di allora, ma ora carico dei destini di chi lo ebbe in dominio".
Gli oggetti antichi (fra questi i libri) sono perciò i testimoni silenziosi di esistenze passate che, però, non rimangono mute, ma, attraverso essi, vincono il tempo e irrompono magicamente nella quotidianità imponendosi come entità presenti.
L'antropologo James G. Frazer appellò tale credenza universale magia contagiosa – un impulso insopprimibile e atavico dell’animo umano secondo cui parti inorganiche (libri, monili, dipinti) s'impregnano dell'anima di chi ne entrò in contatto. "Si ammette e si ripete costantemente" spiega, ad esempio, "che unger l'arma che ha inflitto la ferita, fa guarire la ferita stessa" poiché l'arma, per contatto, è ormai tutt'una con lo spirito dell'uomo ferito; e, più oltre, aggiunge: "[presso la tribù australiana Wotjobaluk] uno stregone s'impadronisce talvolta della coperta ... d'un uomo e la brucia lentamente nel fuoco: ... il proprietario della coperta cade ammalato. Se lo stregone acconsente a disfare l'incantesimo, rende la coperta agli amici dell'ammalato, e dice loro di metterla dentro l'acqua per lavarne via il fuoco. Fatto questo, il paziente sentirà una frescura ristoratrice e probabilmente guarirà".
Così i libri.
Nelle loro carte ingiallite, nelle sottolineature, sui dorsi scuriti e nei caratteri di copertina colla doratura semicancellata, oppure lungo le piegature e i segnalibri sfilacciati, vivono concentrate esistenze innumeri, che ora, per il sortilegio sopraddetto, sono presenti fantasmaticamente. E spesso (e questo è peculiarità esclusiva d'essi) i libri ridonano davvero i segni materiali di tutto ciò: cartoline, appunti, biglietti di viaggio, santini, dediche, foto, ritagli.
A volte siam presi come da una vertigine di fronte a tali reperti di destini sconosciuti.
Vertigini o brevi malattie dello spirito che possono decorrere malignamente. Il protagonista del Bartleby di Melville impazzisce (invece di libri abbiamo, in tal caso, lettere):
"Bartleby era stato un impiegato subalterno nell'ufficio delle lettere smarrite a Washington, dal quale era stato all'improvviso licenziato per un cambiamento nell'amministrazione. Quando penso a questa diceria, a fatica riesco a esprimere le emozioni che mi pervadono. Lettere smarrite, lettere morte! Non suona come uomini morti? Pensate a un uomo, per natura e sventura, incline a una languida disperazione: esiste un lavoro più adatto ad accentuarla che maneggiare continuamente queste lettere morte e metterle in ordine per darle alle fiamme? Ogni anno ne vengono bruciate a carrettate. Qualche volta dal foglio piegato il pallido impiegato estrae un anello - il dito al quale era destinato, forse, imputridisce nella tomba; una banconota inviata in un moto di pronta carità ... e colui che ne avrebbe tratto sollievo non mangia più e non soffre più la fame; parole di perdono per coloro che morirono nello sconforto; di speranza per coloro che morirono disperati; buone nuove per coloro che morirono soffocati da sventure inconsolabili. Apportatrici di vita, queste lettere rovinano verso la morte"
Sopraffatto da una disperata compassione per quelle speranze vanificate, avvelenato dai fumi spettrali di chi le nutri inutilmente, Bartleby perde gusto alla vita e si lascia morire come un Amleto senza ambizioni di vendetta[1].
Spesso, quasi sempre, si reagisce in modo benigno. Ciò che si ritrova in un libro induce una sorta di empatia felice, che ben dispone alla lettura.
Una mia copia ciancicata di L'esistenzialismo è un umanismo, ad esempio, vanta, in esergo al titolo, un irrefutabile: "Io amo Gianna": splendido, per icastica nettezza e incongruità rispetto al contenuto; notevole anche una copia de Il declino del capitalismo di Emanuele Severino, in cui una serie di note fittissime e petulanti ingrossano polemicamente di pagina in pagina sino ad un bilioso e culminante: "È proprio qui che ti sbagli, fesso!"; in una edizione di Piccole donne degli anni Cinquanta, allietata da una serie di foto di scena dell'omonimo film, ritrovai, invece, una pagina quadrettata su cui campeggiava una scritta perentoria, in inchiostro blu pallido, dai caratteri rigonfi propri dei bimbetti: "Questo libro è di Laura"; un Balzac d'annata partorì tre fogli ripiegati d'una lettera d'amore, Faust una Madonna corvina e lungocrinita, allo stile giapponese, Terenzio un segnalibro pubblicitario di sigarette belliche.
La scoperta più commovente, tuttavia, la feci in un quaderno di scuola persiano; non mio, ma immaginato dal regista Kiarostami. Nel suo primo lungometraggio, Dov'è la casa del mio amico, egli racconta due giorni dello scolaro Ahmad (e del compagno di banco Mohamed). Nella loro classe insegna un maestro tetragono e inflessibile, che non ammette repliche. Tornato a casa dalla scuola, Ahmad si accorge di aver messo nella cartella sia il proprio quaderno che quello di Mohamed; per evitare una dura punizione al compagno (impossibilitato a svolgere il compito), Ahmad decide di riportarglielo in giornata. La missione si dimostra difficile: il villaggio di Mohamed è lontano e sconosciuto, oltre la collina; gli adulti, un incomprensibile mondo a parte, lo distraggono con noiose incombenze. Egli decide di tentare lo stesso: corre veloce per il dorso della collina, ridiscende verso il villaggio opposto, si aggira a caso, poi vede un paio di calzoni arancioni stesi: uguali a quelli di Mohamed! Ma la casa non è quella dell’amico. Il bambino continua la ricerca; lo sorprendono le luci della sera, si vede perduto. Un anziano falegname, però, si presta ad accompagnarlo, paziente Virgilio. I due salgono e scendono gradini consunti, rasentano mura scabre e calcinate in cui si aprono finestre con grate arabescate, aggirano spigoli levigati dalle piogge e dal tempo. Il vecchio si ferma ad una fontana per rinfrescarsi, trova un piccolo fiore e lo dona ad Ahmad. La meta, finalmente, è vicina, la casa è a pochi passi, in fondo a un viottolo buio. Il bambino si incammina, ma le tenebre sono fitte; un cane abbaia improvvisamente, spaventandolo; Ahmad ritorna sui propri passi, fugge a casa. Nella propria cameretta, di notte, mentre infuria un vento che frusta le lenzuola stese nel cortile, egli decide di espiare in altro modo la colpa commessa: eseguirà doppiamente i compiti, per sé e per il proprio amico.
L'indomani il maestro controlla sistematicamente i quaderni; Mohamed è chino sul proprio banco, sul punto di scoppiare in lacrime, in attesa della punizione inevitabile. Improvvisamente, però, bussano alla porta della classe: è Ahmad, un po' in ritardo, che chiede di essere ammesso in aula. Si acconsente. Ahmad fila al proprio banco, tira fuori i quaderni, li dispone davanti a sé e al compagno. Il maestro ne controlla uno, quello di Ahmad, poi passa a Mohamed: la penna severa passa in rassegna il compito, con sicurezza, da destra a sinistra, seguendo il corso delle linee di scrittura farsi: si complimenta - un lavoro ben fatto - e applica il sigillo della lode; nell'incavo delle ultime due pagine, inaspettato come un segnalibro dimenticato, riposa il fiore donato dal vecchio falegname, ora non più un fiore, ma il simbolo puro dell'amicizia sincera[2].
È l'ultimo fotogramma.
Pensate a quel semplice fiore - pensate a quale carico di fatica, paura, altruismo e, infine, improvvisa speranza racchiude. Un ricetto magico, come certi oggetti che vi accade di rinvenire nei vecchi libri.
Se lo scrivano di Melville avesse visto e capito quell'unico fiore si sarebbe forse salvato.
“Oh Bartleby, o umanità!”
[1] L'intuizione di Melville sarà ripresa da Clive Barker in Apocalypse.
[2] Il regista trasse l'ispirazione per il film da una poesia di Sohrab Sepehri (1928-1980), Dov'è la dimora dell’Amico. La lirica e il film posseggono ulteriori strati simbolici che non abbiamo posto in evidenza, limitandoci alla sola favola. Ecco l'opera di Sepehri:
Consigli di lettura
Bertolt Brecht, Poesie e canzoni, Einaudi, 1964
James G. Frazer, Il ramo d'oro, 1965
Herman Melville, Bartleby, in Opere, 1° vol., Mondadori, 1991
Consigli di visione
Abbas Kiarostami, Dov'è la casa del mio amico, VHS, Sampaolo Audiovisivi, 1992
[2] Il regista trasse l'ispirazione per il film da una poesia di Sohrab Sepehri (1928-1980), Dov'è la dimora dell’Amico. La lirica e il film posseggono ulteriori strati simbolici che non abbiamo posto in evidenza, limitandoci alla sola favola. Ecco l'opera di Sepehri:
Tu andrai in fondo a questo viale
che emergerà oltre l’adolescenza,
poi ti volterai verso il fiore della solitudine.
A due passi dal fiore, ti fermerai
ai piedi della fontana da dove sgorgano i miti della terra …
Tu vedrai un bambino
arrampicato in cima a un pino sottile,
desideroso di rapire la covata del nido della luce
e gli domanderai: dov’è la dimora dell’Amico?
Nell’ora che il corpo sarà terra, la terra sabbia
e polvere la sabbia, nell’ora in cui
ogni cosa sarà polvere, perché temere?
Finiremo così, naturalmente,
come un fiore di campo,
come un fiore che dice:
“È già tempo di neve, amico mio,
e le stagioni prossime a finire”.
Siamo reti sospese
sull'abisso.
Consigli di lettura
Bertolt Brecht, Poesie e canzoni, Einaudi, 1964
James G. Frazer, Il ramo d'oro, 1965
Herman Melville, Bartleby, in Opere, 1° vol., Mondadori, 1991
Consigli di visione
Abbas Kiarostami, Dov'è la casa del mio amico, VHS, Sampaolo Audiovisivi, 1992
Nessun commento:
Posta un commento