domenica 15 dicembre 2013

L'incipit della domenica, Ligeia

Edgar Allan Poe
Sul mio onore, non mi riesce di ricordarmi come quando e persino dove feci la conoscenza di lady Ligeia. Da allora sono passati molti anni, e il molto soffrire mi ha indebolito la memoria. O, forse, non posso più rievocare ora quei momenti perché, in verità, l’indole della mia amata, il suo raro sapere, il tipo singolare eppur calmo della sua bellezza, e la vibrante, penetrante eloquenza del suo parlare profondo e musicale, si fecero strada nel mio cuore in modo così costante e furtivo ch’io non vi badai e non ne ebbi conoscenza. Credo tuttavia di averla incontrata per la prima volta e molto spesso di poi in un’antica grande città che cadeva in rovina sulle rive del Reno. Certamente l’ho sentita parlare della sua famiglia: non si può mettere in dubbio che risalisse a un’epoca antichissima. Ligeia! Ligeia! Sepolto in istudi di un genere più di ogni altro adatto a smorzare le impressioni del mondo esteriore, è soltanto pronunciando quella dolce parola – Ligeia – che posso riportare agli occhi della fantasia l’immagine di lei che non è più. E ora, mentre scrivo, mi balena il ricordo che non ho mai saputo il nome della sua famiglia, di lei che fu la mia amica e la mia promessa e diventò la compagna dei miei studi e finalmente la sposa del mio cuore. Fu forse per qualche bizzarro capriccio, oppure per mettere a prova la forza del mio affetto, che Ligeia mi ingiunse di non far alcuna ricerca su questo punto? O non fu piuttosto un mio capriccio, un’offerta disperatamente romantica sull’altare del culto più appassionato? Non ricordo la cosa che confusamente; c’è dunque da stupirsi se ho dimenticato com-pletamente le circostanze che la determinarono o l’accompagnarono? E veramente, se mai lo spirito romantico, se mai il pallido Ashtophet dalle ali tenebrose dell’idolatra Egitto, ha presieduto, come dicono, ai matrimoni nati sotto una sinistra stella, senza alcun dubbio egli ha presieduto al mio.
Nondimeno vi è un caro soggetto sul quale la memoria non mi fallisce. È la persona di Ligeia. Essa era alta, alquanto snella, e negli ultimi giorni persino emaciata. Invano mi proverei a ritrarre la maestà e la tranquilla naturalezza dei suoi modi, la misteriosa leggerezza e l’elasticità del suo passo. Andava e veniva come un’ombra. Non mi accorgevo del suo ingresso nel mio studio chiuso se non dalla musica della sua dolce voce profonda e dal contatto della sua mano marmorea che si posava sulla mia spalla. Mai giovine donna ha uguagliato la bellezza del suo viso. Era la irradiazione di un sogno d’oppio, una visione aerea che sollevava lo spirito, una visione più stranamente celeste dei sogni che volteggiano nelle anime assopite delle fanciulle di Delos. Pure le sue fattezze non erano plasmate in quel modello regolare che ci è stato falsamente insegnato ad ammirare nelle opere classiche del paganesimo.
“Non vi ha squisita beltà” dice Bacon, lord Verulam, parlando con molto acume di tutte le forme e tipi di belle “senza qualche stranezza nelle proporzioni.»
Tuttavia, quantunque io vedessi che le fattezze di Li-geia non erano di una regolarità classica, quantunque sentissi che la sua bellezza era veramente “squisita” e che vi era non poca di quella “stranezza”, ho sempre provato invano a rintracciare quella irregolarità e a individuare la mia stessa percezione dello “strano”. Esaminavo il contorno della fronte alta e pallida, ed era perfetto; ma come è fredda questa parola applicata a così divina maestà! Esaminavo la pelle rivaleggiante con l’avorio più puro, la imponente larghezza e la calma, la dolce prominenza delle parti sopra alle tempie, e poi la capigliatura di un nero corvino, lucida, lussureggiante, naturalmente ondulata, che dimostrava tutta la forza della espressione omerica: “capigliatura iacintea”! Guardavo il profilo delicato del naso, e non trovavo simile perfezione se non nella grazia dei medaglioni fenici. Era la stessa squisita sofficità di su-perficie, la stessa quasi impercettibile tendenza all’aquilino, quelle stesse narici che si incurvavano armoniosamente rivelando la libertà dello spirito. Guardavo la bocca. Ecco veramente il trionfo di tutte le cose celesti: la curva armoniosa del labbro superiore piuttosto breve, il riposo soffice e voluttuoso del labbro inferiore, le fossette che giocavano e il colore che parlava, i denti che rimandavano con una intensa luminosità quasi ogni raggio della luce benedetta che cadeva su di loro, nei sorrisi placidi e sereni ma sempre trionfalmente radiosi. Scrutavo la formazione del mento, e anche lì trovavo la grazia della leggerezza, la dolcezza e la maestà, la pienezza e la spiritualità dei greci, quel contorno che il dio Apollo rivelò soltanto in sogno a Cleomene figlio dell’ateniese. Poi guardavo nei grandi occhi di Ligeia.
Per gli occhi non vi sono modelli nella remota antichità. Può darsi che fosse negli occhi della mia adorata che si celava il mistero di cui parla Lord Verulam. Erano – io devo credere – molto più grandi dei soliti occhi della nostra razza. Erano più pieni dei più begli occhi di gazzella della tribù della vallata di Nurjahad. Ma era soltanto a momenti, quando si animava intensamente, che questa particolarità diventava notevole.
In quei momenti la sua bellezza era – o almeno appariva alla mia accesa fantasia – la bellezza di un essere supremo o comunque non terreno, la bellezza della favolosa urì dei turchi. Le pupille erano del nero più brillante, difese da lunghissime ciglia nere. Anche le sopracciglia, di disegno lievemente irregolare, erano nere. Tuttavia la “stranezza” che trovavo in quegli occhi non dipendeva dalla forma, dal colore o dalla vivacità, e non poteva, dopo tutto, essere ad altro attribuita che alla espressione. Ah, parole senza senso, dietro la cui vasta latitudine di vuoto suono si trincera la nostra ignoranza delle cose dello spirito! L’espressione degli occhi di Ligeia! Quanto mi ha fatto meditare! Quante volte, per un’intera notte d’estate, mi sono sforzato di penetrarne il significato! Che cosa era dunque questo non so che – più profondo del pozzo di Democrito – che giaceva nelle pupille della mia adorata? Che cosa era? Ero invaso dalla passione di scoprirlo. Quegli occhi! Quelle larghe, brillanti, divine pupille! Esse eran diventate per me le stelle gemelle di Leda e io il loro fervido astrologo!

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