giovedì 19 dicembre 2013

"Sogno, dove sei ora?". Quattro poesie di Emily Brontë

G. Luca Chiovelli

Emily Jane Brontë (Thornton, 30 luglio 1818 – Haworth, 19 dicembre 1848).
Ci sono oceani, mari, mari interni, mari aperti all'oceano, mari quieti, burrascosi, e torrenti, laghi, laghi alpestri, vulcanici, paludosi; Emily Brontë è un piccolo lago, circoscritto, quieto e profondo, che, spesso, qualcuno confonde con altri laghetti simili. Una falsa impressione. Sono quegli altri che assomigliano a lei. Perché Emily Brontë è un paradigma, un modello dell'artista moderno. Una prefigurazione accecante, completa. E la conferma di ciò che abbiamo detto a proposito di Baudelaire, Dickinson o Kavafis.
Doppia conferma.
La prima. Chi scrive, da almeno cinque secoli, lo fa da una posizione sempre più secondaria, nascosta, irrilevante; eccentrica rispetto al fragore della corrente vitale dell'umanità. Lo scrittore (l'artista in genere) è un decadente; da quando, cioè, la poesia divenne l'ancella sempre meno tollerata della vita vera. Non c'era bisogno delle mattane di Oscar Wilde o dei teppismi di D'Annunzio per persuaderci. Emily fu una decadente. La sua opera consiste in un romanzo e in duecento poesie, scritte su quadernetti, in sotterfugio, lontano dai clamori del secolo; lei chiamava la sua produzione 'l'opera', perché non tollerava qualsiasi riferimento biografico che potesse rivelare la propria personalità. Emily Brontë, se avesse potuto, sarebbe scomparsa addirittura, l'intera esistenza assorbita da un romanzo e da duecento poesie. Vita e arte coincidono, disse il maestro del Decadentismo, e cosi è. Niente allori, né monumenti più duraturi del bronzo per Emily, solo i rari frutti di un'esistenza minuscola, ignorata da un mondo troppo preso dalle cure quotidiane.
La seconda. Per creare poesia occorre crearsi una potente predisposizione dell'animo, una lente particolare traverso cui trasfigurare tutto ciò che si vede. Come si arriva a tale predisposizione? Per innata inclinazione spirituale, forse. Oppure per caso, grazie alle sorti biografiche. Chissà quante Emily sono nate nel mondo, con lo stesso genio, la stessa sensibilità e non hanno scritto nulla. Perché non erano abbastanza istruite, o avevano altri padri e madri, oppure non soffrirono certi lutti e non vissero affacciate sulla brughiera, oppure, incredibile, perché il padre non regalò soldatini al proprio fratello.
I soldatini. Questa è da spiegare.


Nel 1820 nasce Anne, sesta e ultima nata della famiglia Brontë; il papà è il reverendo Patrick Brontë, la mamma si chiama Maria Branwell. Nel 1820 Emily Jane ha due anni; gli altri quattro fratelli sono Maria, di sei anni, Elizabeth, di cinque, Charlotte, di quattro, e Branwell, unico maschio, di tre.
Nello stesso anno il reverendo Patrick Branwell ottiene la curatela della chiesa di San Michele e tutti gli Angeli (Saint Michael and All Angels) a Haworth, nello Yorkshire. Nella primavera del 1820, quindi, gli otto componenti della famiglia si trasferiscono in una bella costruzione alla fine della strada principale della cittadina, al limitare della stessa: se il fronte della canonica guarda verso Haworth da una prospettiva privilegiata, eccentrica e quasi aristocratica, il retro si apre all'infinita e suggestiva desolazione della brughiera: un luogo, questo, che diverrà la meta di lunghe passeggiate e costituirà lo sfondo interiore su cui far risaltare le proprie creazioni letterarie.
L'anno successivo, 1821, muore la mamma. Di tisi.
Nel 1825 la seguiranno le sorelle maggiori di Emily, Maria e Elizabeth. Ancora tisi.
A sette anni l'orizzonte del paesaggio inglese, che sfinisce dolcemente l'occhio con la propria immutabilità, rotta solo dal timido fiorire delle eriche, e i lutti dolorosissimi, hanno già macerato psicologicamente l'animo di Emily Brontë e delle sorelle. È così. Emily, Anne e Charlotte sono già pronte per la poesia e la letteratura. Perché riescano a sfruttare questa predisposizione potente occorre un casuale motivo scatenante. L'occasione. Che, nel nostro caso, è futile e commovente insieme.
Il 5 giugno 1826 papà Patrick, al ritorno da un viaggio a Leeds, reca un bel regalo a Branwell: una scatola di soldatini; i quattro fratelli li ribattezzano prontamente Young men, giovanotti. Ogni fratello ne sceglie uno, con cura, e gli assegna un nome di fantasia: Branwell, dagli aneliti gloriosi e faciloni, chiama il proprio Bonaparte; Charlotte, Duca di Wellington; la piccola Anne, Waiting Boy; Emily lo chiamerà Gravey, per il tono accigliato e pensoso, quindi William Edward Perry, ricordandosi delle imprese dell'omonimo esploratore artico.
I quattro fratelli non si fermano qui. I soldatini si caricano delle proiezioni delle immaginazioni particolari, correlativi oggettivi di fantasie sfrenate; i Brontë ammantano le ignare statuine di piombo di personalità ricchissime, immaginano avventure, saghe fantastiche, improvvisano rumorose messe in scena; coinvolgono Gravey e compagni in cicli narrativi complessi: i grandi, Branwell e Charlotte, creano il ciclo di Glasstown, città di vetro, e di Angria; le piccole, Emily e Anne, quello di Gondal e Gaaldine.
Nel 1934 Emily e Anne, sedici e quattordici anni, scrivono la loro prima pagina di diario in comune: "I Gondals esplorano la parte interna di Galdine". A quel tempo Emily forse già scrive delle poesie; tre anni dopo, seconda pagina: "Gli imperatori e le imperatrici di Gondal e Gaaldine si preparano a partire si preparano a partire da Gaaldine per Gondal per assistere all'incoronazione che vi avrà luogo il 12 luglio". Gondal, immaginaria isola del Pacifico divisa in regni concorrenti, diviene luogo di scontri dinastici, amori, vendette.
Di tale mondo, medioevale, onirico, eroico, non abbiamo una traccia in prosa: peccato; in caso contrario avremmo avuto, forse, il primo fantasy moderno; sappiamo solo che i protagonisti (Julius de Brenzaida, Augusta Almeda, Fernando de Samara) compaiono in parte delle duecento poesie di Emily (le poesie del ciclo di Gondal); e sappiamo che tali fantasie tracimarono anche in Cime tempestose: in fondo cos'è l'Heathcliffe adulto se non un principe di Gondal?
Nel 1846 escono i Poems by Currer, Ellis and Acton Bell (ovvero Charlotte, Emily e Anne Brontë). Il libretto vende due copie.
Ma il dado è tratto. L'anno seguente vede la pubblicazione di Cime tempestose (quanti splendidi soldatini in esso) e Agnes Grey (di Anne); Charlotte, che ha rifiutato di pubblicare a pagamento The professor, sta, invece, incubando una nuova creazione: Jane Eyre.
Morte, solitudine, soldatini, quali animi hanno forgiato! Fuori del mondo, contro di esso, avendo come sola filosofia i propri limitati mondi di ventenni solitarie. Come già notammo a proposito di Yeats, non importa quale logica sia sottesa alla propria poetica, purché sia coerente e pura e senza compromessi.
Il padre sopravviverà a tutti i suoi figli: Branwell si spegnerà nel settembre del 1848, distrutto dall'alcool, dalle delusioni, dalla malattia; Emily lo seguirà in dicembre; Anne l'anno successivo. Charlotte resisterà alla maledizione della tubercolosi sino al 1855, alle soglie dei quarant'anni. Visse per pubblicare parte delle poesie della sorella minore Emily e donarle un breve epitaffio di parole. Eccone uno stralcio:
"Mia sorella Emily non aveva un carattere espansivo; neppure quanti le erano più cari e più vicini potevano impunemente ... entrare nel segreto della sua mente e dei suoi sentimenti ... sotto un aspetto modesto, una cultura priva di raffinatezza e gusti spontanei, si celavano una forza, un fuoco segreto che avrebbero potuto modellare la mente e infiammare le vene di un eroe ... non aveva alcuna saggezza mondana; non era adatta alla concretezza della vita ... tra lei e il mondo sarebbe sempre stato necessario un interprete ... Mia sorella Emily amava la brughiera. Ai suoi occhi splendevano fiori piu luminosi della rosa tra le più cupe distese d'erica; da un piatto avvallamento sul livido fianco di una collina la sua mente traeva un paradiso terrestre. La desolata solitudine nascondeva per lei molte amate gioie; prima fra tutte, e più amata, la libertà".
Ed ecco quattro brevi poesie di Emily.
Traduzione di Giovanni Anchiseo.

I

Sogno, dove sei ora?
Tanto tempo è trascorso
Da quando la luce svanì
Dalla tua fronte d'angelo

Ohimè, ohimè
Eri così lucente e bello!
Non avrei mai creduto che
Il ricordo tuo portasse solo dolore!

La tempesta e i raggi del sole
Il divino crepuscolo estivo
La notte, immobile in un silenzio solenne,
La luna, piena e scintillante e senza nubi,

Una volta tutto si legava a te,
E ora solo una pena indicibile.
Visione perduta! Basta ...
Non puoi più splendere ormai (1)

II

Cadete, foglie, cadete; e voi, fiori, svanite ...
Allungati notte, giorno sii breve;
Ogni foglia mi parla di felicità
Volando via dall'albero d'autunno.
E sorriderò quando fiocchi di neve
Sbocceranno dov'era la rosa;
Canterò quando il declino della notte
Annuncerà un giorno ancor più buio (2)

III

Verrò quando sarai più triste
E solo giaci in una camera buia
Quando la pazza allegria del giorno sarà svanita
E il sorriso della gioia bandito
Dalla malinconia gelida della notte.

Verrò quando la verità del cuore
Avrà signoria piena, equanime,
E il mio influsso su di te stendendosi
Ti porterà via l'anima
Acuendo la pena, congelando la gioia

Ascolta, giunto è il tempo
L'ora terribile
Non senti nell'anima scorrere
Un fiume di strane sensazioni
Che - miei araldi - annunciano
Un potere più aspro? (3)

IV

O sera, perche è cosi triste la tua luce?
Perche l'ultimo raggio di sole così gelido?
Silenzio ... Il nostro sorriso è allegro, come sempre,
Ma il tuo cuore invecchia (4)

(1)
O dream, where art thou now?
Long years have passed away
Since cast from off thine angel brow
I saw the light decay.

Alas! alas for me!
Thou wert so bright and fair,
I could not think thy memory
Would yield me nought but care!

The moonbeam and the storm,
The summer eve divine,
The silent night of solemn calm,
The full moon's cloudless shine,

Were once entwined with thee,
But now with weary pain.
Lost vision! 'tis enough for me
Thou canst not shine again.

(2)
Fall, leaves, fall; die, flowers, away;
Lengthen night and shorten day;
Every leaf speaks bliss to me
Fluttering from the autumn tree.
I shall smile when wreaths of snow
Blossom where the rose should grow;
I shall sing when night’s decay
Ushers in a drearier day.

(3)
I'll come when thou art saddest,
Bring light to the darkened room,
When the rude day's mirth has vanished,
And the smile of joy is banished
From evening's chilly gloom.

I'll come when the heart's worst feeling
Has entire, unbiassed sway,
And my influence o'er thee stealing,
Grief deepening, joy congealing,
Shall bear thy soul away.

Listen! 'tis just the hour,
The awful time for thee.
Dost thou not feel upon thy soul
A flood of strange sensations roll,
Forerunners of a sterner power,
Heralds of me?

(4)
O evening, why is thy light so sad?
Why is the sun's last ray so cold?
Hush; our smile is as ever glad,
But thy heart is growing old.

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