A lungo gli esperti di scrittura digitale (ammesso e non concesso
 che si possa essere esperti in una materia tanto sfuggente) hanno 
affermato che i testi per il web devono essere brevi o brevissimi, 
possibilmente con le parole chiave evidenziate in neretto, per catturare
 l'attenzione del pubblico, massa di eterni ragazzini pronta a lasciarsi
 distrarre da un qualsiasi diversivo. E ancora oggi sono in tanti, da 
noi, a sostenere che chi scrive in Rete deve attenersi a una concisione 
estrema, pena la fuga dei lettori verso pagine (elettroniche) più facili
 e accoglienti. Come tante belle addormentate, però, questi esperti veri
 o presunti non si sono accorti che la lettura su schermo è entrata a 
far parte delle esperienze quotidiane di un pubblico più o meno 
alfabetizzato e che, com'era prevedibile, si stanno riproducendo per la 
“lettura digitale” le stesse dinamiche della lettura su carta: i lettori
 allenati saranno pronti ad affrontare testi lunghi e complessi sullo 
schermo del computer, del tablet, perfino dello smartphone, mentre chi 
non legge, beh... non legge. 
Se ne sono accorti invece, e naturalmente, dall'altra parte 
dell'Atlantico, dove i siti culturali di ultima generazione sembrano 
disegnare, per le caratteristiche dei materiali proposti e per il 
rapporto instaurato con gli utenti, una nuova mappa della Rete, 
all'interno della quale la parola scritta mantiene un ruolo centrale, 
senza sensi di inferiorità verso i contenuti audio e video. 
Il percorso non può che cominciare da uno degli spazi internettiani 
oggi più frequentati dagli amanti dei libri, anche fuori dagli Usa: Brain Pickings,
 nato nel 2006 come semplice email periodica, è il frutto di una sola 
mente, quella di Maria Popova, giovane bulgara trapiantata a Brooklyn, 
che ha saputo trasformare la sua passione per  la lettura in una impresa
 interessante e redditizia. L'idea di base è semplice: articolate 
segnalazioni di libri più o meno recenti, arricchite da link e da 
rimandi letterari. Ma ad avere fatto guadagnare alla Popova il seguito 
di decine di migliaia di lettori sono le sue scelte acuminate, che 
rivelano solide basi culturali, il suo stile personale e accattivante, 
il suo gusto per l'aspetto visivo dei volumi consigliati. Tanto che – e 
questo, sì, è insolito – nel  giro di poco tempo Brain Pickings è 
diventato uno spazio culturale di grande successo, anche economico. Ma 
la scoperta che il sito, inizialmente presentato da Popova come 
bisognoso di sostegno, le frutta invece ottimi introiti grazie ai clic 
verso Amazon, non ha intaccato l'affetto dei lettori che continuano a 
dimostrare la loro gratitudine con donazioni via Paypal e carte di 
credito. 
Se Brain Pickings è un one-woman show, The New Inquiry
 si presenta, già a partire dalla grafica della testata, come una 
rivista all'antica, anche se, ovviamente, esiste solo online. Mary 
Borkowski, Jennifer Bernstein e Rachel Rosenfelt, che l'hanno lanciata 
nel 2009, descrivono TNI (una associazione no profit, “non affiliata a 
partiti, università, enti locali o statali, istituzioni religiose”) come
 “uno spazio di discussione che aspira a arricchire la vita culturale e 
pubblica, mettendo tutte le risorse disponibili, digitali e materiali, 
nella promozione e nell'esplorazione di idee”. Dopo una incerta fase di 
limbo (nel 2011 Alex Williams definiva sul “New York Times”
 The New Inquiry  come una “Intellettuali Anonimi per membri disperati 
del sottobosco letterario, esclusi dall'establishment editoriale”), la 
rivista ha saputo attrarre collaboratori noti – tra gli altri, Teju 
Cole, autore del bel romanzo Città aperta – e a  ritagliarsi uno spazio nel panorama cultural-digitale americano, tanto che l'estate scorsa sul “New Yorker”
 Sasha Frere-Jones ha scritto: “The New Inquiry è una delle rare 
pubblicazioni che siano riuscite a diventare periodici culturali in 
grado di attirare lettori, ponendo importanti interrogativi teorici, 
senza ricadere nel ghetto dell'accademia”. Tutti i materiali 
(recensioni, interviste, la bella rassegna stampa “Sunday Reading”) sono
 gratis, ma la rivista può retribuire i collaboratori e permettersi uno 
staff di cinque persone grazie ai lettori, invitati a pagare due dollari
 al mese per un magazine che ripropone in pdf, suddivisi per temi, gli 
articoli del sito. 
Nata grazie al crowdfunding con una campagna di lancio l'anno scorso su Kickstarter che ha fruttato in un mese cinquantamila dollari, Narratively
 si propone di esplorare nuove forme di giornalismo “lento”: ogni 
settimana un tema diverso, raccontato giorno dopo giorno con articoli 
lunghi, video, reportage fotografici, fumetti. Al centro, una New York 
che si fa paradigma del mondo intero: Local stories, universally told  è una delle autodefinizioni di questo interessante oggetto ibrido, su cui sono già piovuti parecchi premi. In una intervista
 Noah Rosenberg, fondatore di Narratively, ha rilevato come  “senza 
dubbio negli ultimi anni ci sia stata una rinascita del giornalismo 
approfondito, di ampio respiro”. 
E di questo rinnovato long-form journalism l'esempio forse migliore è Matter,
 che punta su scienza, tecnologia, medicina e ambiente (“le idee che 
danno forma al nostro futuro”), proponendo un testo al mese, lungo e 
curato, in una veste grafica di grande sobrietà. Novantanove centesimi 
di dollaro è il costo dell'abbonamento mensile, necessario per accedere 
ai testi, ad eccezione del primo, Do No Harm,
 di Anil Ananthaswamy, eletto tra i migliori pezzi di giornalismo 
investigativo scientifico del 2012, che si legge gratis. Ma non è 
escluso che ci siano cambiamenti nel prossimo futuro di Matter, dato che
 questo “non sito, non rivista, non casa editrice” (così il testo di 
presentazione) è stato ora acquisito da Medium,
 altra impresa esemplificativa del web 3.0. Avviato da Ev Williams, 
cofondatore di Blogger e Twitter, Medium si descrive come “un nuovo 
luogo della Rete, dove la gente si scambia idee e storie più lunghe di 
140 battute, non destinate solo agli amici... un mezzo che possono usare
 i giornalisti professionisti come i cuochi dilettanti” e che promette 
agli uni e agli altri di “trovare il pubblico giusto per quello che 
hanno da dire”. A chi desidera pubblicare i propri pezzi, Medium offre 
pagine bianche virtuali di facile utilizzo, un parere sull'editing prima
 della fase finale, algoritmi che aiuteranno i testi a scovare i lettori
 giusti. Ma soprattutto Medium sa individuare, nel mare degli articoli 
“postati” dagli utenti, i testi più curiosi e innovativi e li mette 
sapientemente in vetrina: in questo modo il sito guadagna in credibilità
 e aumenta ogni giorno la cerchia dei collaboratori/lettori, che 
includono firme note e giovani di talento.
Una manna per chi non si accontenta delle notizie in pillola, questo Medium come gli altri siti citati, e ancora tanti altri (Byliner,
 per esempio, con i suoi intelligenti ripescaggi di reportage degli anni
 scorsi, o il nuovissimo – è stato varato il 18 novembre – Deep Dish
 del celebre blogger gay conservatore Andrew Sullivan). Peccato che in 
Italia nessuno sembri avere voglia di seguire questi esempi, radicata 
come è da noi l'idea che “cultura” fa rima con “iattura” (economica). 
Cambierà?
Questo articolo è uscito il 22 novembre sul Bo, il magazine online dell'università di Padova, con il titolo Dal web la rivincita della scrittura 
 

 
 
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