mercoledì 15 gennaio 2014

A Firenze Dante inventò il rap (parecchi secoli prima del rap)

La cultura hip hop nasce negli anni Settanta dello scorso secolo grazie all'incontro fra cultura afroamericana e cultura dell'immigrazione caraibica. Con uno dei suoi maggiori esponenti, Afrika Bambaataa, fondatore della Zulu Nation, si avrà addirittura una codifica dell’hip hop: oltre al djing (il dj), avremo il writing (graffiti), il b-boying (breakdance) e l’mcing, incentrato sulla figura dell’mc, acronimo di master of ceremonies, ovvero, di fatto, il rapper; quest’ultimo si avvaleva d'una tecnica derivata dal toasting giamaicano (già presente, tuttavia, in ambito afroamericano), sorta di flusso vocale su base percussiva, privo di fratture vocali e di ritmo, denso di improvvisazioni e licenze, ma caratterizzato da una certa formalità strutturale. Il toasting, e più tardi il rap, sfociò nelle battles (rap battles, beefs, feuda, rivalries, freestyle contests), disfide ingaggiate da più mcs, basate sulla svalutazione delle qualità dell’avversario, sull’ingigantimento dei propri meriti, il tutto tramite botte e risposte per le rime; una contesa affine ai dozens, d’origine africana, in cui due rivali si rinfacciano insulti sanguinosi (omosessualità, scarsa moralità delle madri …) davanti ad un pubblico che aizza i partecipanti a rinfocolare la carica offensiva e, infine, decreta la vittoria del più convincente.
E le sfide (a colpi di disco e per le rime) debordavano anche nella vita quotidiana: famosa quelle fra 50 Cent e Ja Rule o l’altra, dai risvolti sanguinosi, fra Tupac Shakur e Notorius B.I.G.
Circa sette secoli prima avvenne una delle tenzoni più famose della letteratura italiana, quella tra Dante Alighieri e Forese Donati, fratello di Corso, guelfo di parte nera. I rinfacci verbali avvennero verso il 1295, in un periodo di traviamento di Dante, non sappiamo se in seguito alla morte della gentilissima Beatrice o come breve periodo d'ingaglioffimento del poeta, uso alla taverna, al gioco,  al bere.
Il bellissimo sceneggiato RAI del 1965, Vita di Dante, ritrae la contesa (rap) in modo verosimile: Dante (Giorgio Albertazzi) e Forese (Pier Luigi Zolla) si rinfacciano i sanguinosi insulti palleggiandosi, nella taverna, fra i lazzi degli amici debosciati, una fiasca di vino.



E, come a New York e Los Angeles, alcuni secoli dopo, le contese e le allusioni contenute nei sonetti e nelle ballate erano specchio di una vita politica e cittadina assolutamente malmostosa. Come non ricordare la rivalità cruenta tra Donati e Cerchi? Corso Donati era violento (pare avesse avvelenato la sua prima moglie, una Cerchi, episodio, forse, all’origine delle vendette), arrogante, ma era anche ottimo parlatore e lanciava sfide verbali pesanti ai suoi avversari (celebre l'insulto a Vieri de' Cerchi urlato dalla sua torre signorile: “Ha ragliato oggi l'asino di Porta?”); Corso, guelfo nero, temeva, d’altra parte, il saturnino Guido Cavalcanti, guelfo bianco, primo amico di Dante: lo temeva talmente da ordinarne l'assassinio mentre il poeta era in pellegrinaggio a Santiago de Compostela; al ritorno a Firenze, Guido cercò la vendetta: tese un agguato a Donati (lo mancò con  una freccia); nella successiva caccia all’uomo Guido fu inseguito dal figlio di Corso, Simone, e da Cecchino de' Bardi: e fu quest’ultimo a ferirlo a un braccio.
Ma Cavalcanti si serve delle rime anche per riprendere impietosamente proprio Dante; lo vede perdersi in attività meschine e lo apostrofa: “I' vegno il giorno a te infinite volte/e trovoti pensar troppo vilmente … Solevanti spiacer persone molte,/tuttor fuggivi l'annoiosa gente …”. Forse Cavalcanti allude proprio alla brigata goliarda di Forese Donati che svilisce le qualità dell’Alighieri.
A quel tempo, insomma, la penna e la spada erano armi con cui dirimere una vita politica aspra e infernale, così come, secoli dopo, gli affronti rap e le Glock 9 millimetri si univano nell’appianare (o esacerbare) rivalità territoriali e d’affari (malavitosi).
Ed ecco un breve commento alla disfida fiorentina (incruenta, ma durissima).

Rima LXIII Dante a Forese

Chi sentisse tossir Nella, la moglie di Forese, detto Bicci, potrebbe arguire ch'ella ha patito il freddo laddove il ghiaccio, a causa delle basse temperatura divien cristallo.

Chi udisse tossir la mal fatata
moglie di Bicci vocato Forese,
potrebbe dir ch’ell’ha forse vernata
ove si fa ’l cristallo in quel paese.

Persino a Ferragosto la trovi gelata, figuriamoci gli altri mesi; e non basta che dorma con le calze: la coperta, infatti, è troppo corta (bisticcio con la città di Cortona); infatti il marito non la copre abbastanza, ovvero non fa l'amore con lei.

Di mezzo agosto la truovi infreddata;
or sappi che de’ far d’ogni altro mese!
E non le val perché dorma calzata,
merzé del copertoio c’ha cortonese.

I malanni non le vengono per gli umori della vecchiaia, ma per la scarsa presenza del marito ai doveri coniugali; a letto ("per difetto ch'ella sente al nido").

La tosse, ’l freddo e l’altra mala voglia
no l’addovien per omor ch’abbia vecchi
ma per difetto ch’ella sente al nido.

S'addolora, e parecchio, la madre di Nella: pensare che, per una dote di pochi spiccioli ("per fichi secchi"), l'avrebbe potuta maritare presso dei nobili (uno dei Guidi dei conti del Casentino)! Altro che Bicci!

Piange la madre, c’ha più d’una doglia,
dicendo: "Lassa, che per fichi secchi
messa l’avre’ ’n casa del conte Guido!".

Rima LXIV Forese a Dante

Forese non accetta le insinuazioni di Dante sulla virilità; solo quelle sulla povertà: sì, è povero, senza vestiti, e ladro: ma, in una delle sue incursioni, a guadagnar ove che fosse, cosa ha mai trovato presso un cimitero? Nientemeno che il padre di Dante, Alighiero, o meglio, il suo fantasma legato da un nodo salomonico: un nodo dettato da una colpa grave: probabilmente una vendetta non consumata per viltà di Dante (l'omicidio invendicato di Geri del Bello) oppure la mancata restituzione di una somma guadagnata con l'usura (padre e nonni di Dante praticavan lo strozzo). E Bicci, di fronte a tale spettacolo, che fa? Si segna, verso Oriente, come vuole la pratica degli scongiuri, e se ne va.

L’altra notte mi venne una gran tosse,
perch’i’ non avea che tener a dosso;
ma incontanente che fu dì, fui mosso
per gir a guadagnar ove che fosse.

Udite la fortuna ove m’addosse:
ch’i’ credetti trovar perle in un bosso
e be’ fiorin coniati d’oro rosso;
ed i’ trovai Alaghier tra le fosse,

legato a nodo ch’i’ non saccio ’l nome,
se fu di Salamone o d’altro saggio.
Allora mi segna’ verso ’l levante:

e que’ mi disse: "Per amor di Dante,
scio’mi ". Ed i’ non potti veder come:
tornai a dietro, e compie’ mi’ viaggio.

Rima LXV Dante a Forese

Quartina eccezionale: la carne di cui sei goloso (starne, lombate, agnello), ti farà un viluppo inestricabile nelle budella, come quello del re Salomone; non solo, ma i cuoi degli animali macellati per la tua irrefrenabile golosità vendicheranno i loro antichi proprietari, fornendo pergamene su cui verranno scritti i debiti che hai contratto per soddisfare tale vizio. Al nodo rinfacciato al padre Alighiero, Dante risponde per le rime (con un nodo di ben diversa natura) e all’insulto di gola aggiunge quello di insolvenza debitoria.

Ben ti faranno il nodo Salamone,
Bicci novello, e petti de le starne,
ma peggio fia la la lonza del castrone,
ché ’l cuoio farà vendetta de la carne;

Sarai così indebitato che rischierai la galera (la Burella, principale carcere di Firenze, si trovava in contrada San Simone); e sarà difficile uscire da tal situazione, anche volendo, ovvero riscattare i debiti causati dai buoni bocconi (divenuti ‘mali’ perché origine della catastrofe finanziaria di Bicci novello; novello in senso di junior, onde distinguerlo da un parente omonimo seniore).

tal che starai più presso a San Simone,
se tu non ti procacci de l’andarne:
e ’ntendi che ’l fuggire el mal boccone
sarebbe oramai tardi a ricomprarne.

Certo, caro Bicci, tu conosci un'arte (il furto) assai lucrosa e che può scansarti il gabbio: stai attento, però, che tale malarte procurò guai grossi ai figli di Stagno (una famiglia di ladroni). Insomma, poco virile, goloso, pezzente e ladro!

Ma ben m’è detto che tu sai un’arte,
che, s’egli è vero, tu ti puoi rifare,
però ch’ell’è di molto gran guadagno;

e fa sì a tempo, che tema di carte
non hai, che ti bisogni scioperare;
ma ben ne colse male a’ fi’ di Stagno.

Rima LXVI Forese a Dante

Forese rigira l’insulto a Dante: caro mio, sei tu il pezzente: vattene, riporta i panni che hai mendicato a San Gallo (Santa Maria fuori della Porta, dove si rivolgevano i bisognosi). E continua: ci dai di mendichi (a noi Donati) quando sappiamo che pigli da mangiare dal castello Altrafonte, presso Ponte Vecchio, dove fanno la carità? Eviterai d'esser come Belluzzo (zio spiantato di Dante) se la sorte ti conserverà i fratellastri, Gaetana e Francesco, così che tu possa sfruttarli, poveraccio che non sei altro. Da vecchio ti vedrò riparare all'ospizio dei poveri (presso Porta Pinti) e stare col farsetto (senza mantello) assieme ad altri due mendichi.

Va, rivesti San Gal prima che dichi
parole o motti d’altrui povertate,
ché troppo n’è venuta gran pietate
4in questo verno a tutti suoi amichi.

E anco, se tu n’hai per sì mendichi,
perché pur mandi a noi per caritate?
Dal castello Altrafonte ha’ ta’ grembiate,
ch’io saccio ben che tu te ne nutrichi.

Ma ben t’alenerà il lavorare,
se Dio ti salvi la Tana e ’l Francesco,
che col Belluzzo tu non stia in brigata.

A lo spedale a Pinti ha’ riparare;
e già mi par vedere stare a desco,
ed in terzo, Alighier co la farsata.

Rima LXVII Dante a Forese

Dante ancora più spietato. Caro Bicci, non so di chi sei figlio, dovrei domandare a tua madre, Tessa (contessa Donati): sei così goloso che, per rifarti, devi rubare.

Bicci novel, figliuol di non so cui,
s’i’ non ne domandasse monna Tessa,
giù per la gola tanta roba hai messa,
ch’a forza ti convien torre l’altrui.

La gente ormai è sull'avviso: chi ha la borsa e vede avvicinarsi Bicci dice: ecco un ladrone notorio (piuvico=pubblico), un delinquente usuale, con quella faccia sfregiata che si ritrova (faccia fessa).

E già la gente si guarda da lui,
chi ha borsa a lato, là dov’e’ s’appressa,
dicendo: "Questi c’ha la faccia fessa
è piuvico ladron negli atti sui".

Il padre di Bicci, Simone, si rivolta nel letto temendo che, prima o poi, la giustizia lo acchiappi sul fatto (a rubare = a lo 'mbolare); il letto di Simone Donati, inoltre, è tristo perché condiviso con la cornificatrice Tessa: infatti Simone è padre di Bicci quanto Giuseppe lo era di Cristo, cioé per niente.

E tal giace per lui nel letto tristo,
per tema non sia preso a lo ’mbolare,
che gli appartien quanto Giosepp’a Cristo.

Chiusa apocalittica: Bicci, e i suoi fratelli, Corso e Sinibaldo ("per lo sangue lor") si accostano alle loro mogli come cognati, ovvero in modo casto; qui giace una doppia allusione: alla scarsa virilità oppure al disordine sessuale nella famiglia tutta dove ognuno giace con la moglie dell'altro, indifferentemente.

Di Bicci e de’ fratei posso contare
che, per lo sangue lor, del male acquisto
sanno a lor donne buon cognati stare.

Rima LXVIII Forese a Dante

Forese ritorna al primo sonetto e accusa Dante della mancata vendetta (per la morte di Geri del Bello) dovuta a viltà; una vendetta che tarda parecchio (il padre di Dante morì nel 1283; Forese lo sbeffeggia dicendo "l'altr'ieri"). L'onta invendicata subìta dal padre non sarebbe stata lavata neanche se Dante avesse fatto a pezzi qualcuno della famiglia che ha portato l’offesa (ma purtroppo, dice Forese, tu ti cachi nelle brache [bonetta] dalla paura). Hai messo in uso, vigliacco di un Dante, la pratica del chiamar fratello chi ti riempie di legnate. Ti direi pure il nome di chi ha fatto assegnamento su questa tua viltà, continua Forese, ma lascio perdere: ce ne siamo dette tante, è ora di finirla.

Ben so che fosti figliuol d’Alaghieri,
e accorgomene pur a la vendetta
che facesti di lui sì bella e netta
de l’aguglin ched e’ cambiò l’altr’ieri.

Se tagliato n’avessi uno a quartieri,
di pace non dovevi aver tal fretta;
ma tu ha’ poi sì piena la bonetta,
che non la porterebber due somieri.

Buon uso ci ha’ recato, ben til dico,
che qual ti carica ben di bastone,
colui ha’ per fratello e per amico.

Il nome ti direi de le persone
che v’hanno posto su; ma del panico
mi reca, ch’i’ vo’ metter la ragione.

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