La
cultura hip hop nasce negli anni Settanta dello scorso secolo grazie
all'incontro fra cultura afroamericana e cultura dell'immigrazione caraibica. Con
uno dei suoi maggiori esponenti, Afrika Bambaataa, fondatore della Zulu Nation,
si avrà addirittura una codifica dell’hip hop: oltre al djing (il dj), avremo
il writing (graffiti), il b-boying (breakdance) e l’mcing, incentrato sulla
figura dell’mc, acronimo di master of ceremonies, ovvero, di fatto, il rapper;
quest’ultimo si avvaleva d'una tecnica derivata dal toasting giamaicano (già
presente, tuttavia, in ambito afroamericano), sorta di flusso vocale su base
percussiva, privo di fratture vocali e di ritmo, denso di improvvisazioni e
licenze, ma caratterizzato da una certa formalità strutturale. Il toasting, e
più tardi il rap, sfociò nelle battles (rap battles, beefs, feuda, rivalries,
freestyle contests), disfide ingaggiate da più mcs, basate sulla svalutazione
delle qualità dell’avversario, sull’ingigantimento dei propri meriti, il tutto
tramite botte e risposte per le rime; una contesa affine ai dozens, d’origine
africana, in cui due rivali si rinfacciano insulti sanguinosi (omosessualità,
scarsa moralità delle madri …) davanti ad un pubblico che aizza i partecipanti
a rinfocolare la carica offensiva e, infine, decreta la vittoria del più
convincente.
E
le sfide (a colpi di disco e per le rime) debordavano anche nella vita
quotidiana: famosa quelle fra 50 Cent e Ja Rule o l’altra, dai risvolti
sanguinosi, fra Tupac Shakur e Notorius B.I.G.
Circa
sette secoli prima avvenne una delle tenzoni più famose della letteratura
italiana, quella tra Dante Alighieri e Forese Donati, fratello di Corso, guelfo
di parte nera. I rinfacci verbali avvennero verso il 1295, in un periodo di
traviamento di Dante, non sappiamo se in seguito alla morte della gentilissima
Beatrice o come breve periodo d'ingaglioffimento del poeta, uso alla taverna,
al gioco, al bere.
Il
bellissimo sceneggiato RAI del 1965, Vita di Dante, ritrae la contesa (rap) in
modo verosimile: Dante (Giorgio Albertazzi) e Forese (Pier Luigi Zolla) si
rinfacciano i sanguinosi insulti palleggiandosi, nella taverna, fra i lazzi
degli amici debosciati, una fiasca di vino.
E,
come a New York e Los Angeles, alcuni secoli dopo, le contese e le allusioni
contenute nei sonetti e nelle ballate erano specchio di una vita politica e
cittadina assolutamente malmostosa. Come non ricordare la rivalità cruenta tra
Donati e Cerchi? Corso Donati era violento (pare avesse avvelenato la sua prima
moglie, una Cerchi, episodio, forse, all’origine delle vendette), arrogante, ma
era anche ottimo parlatore e lanciava sfide verbali pesanti ai suoi avversari
(celebre l'insulto a Vieri de' Cerchi urlato dalla sua torre signorile: “Ha ragliato oggi l'asino di Porta?”); Corso,
guelfo nero, temeva, d’altra parte, il saturnino Guido Cavalcanti, guelfo
bianco, primo amico di Dante: lo temeva talmente da ordinarne l'assassinio
mentre il poeta era in pellegrinaggio a Santiago de Compostela; al ritorno a Firenze,
Guido cercò la vendetta: tese un agguato a Donati (lo mancò con una freccia); nella successiva caccia
all’uomo Guido fu inseguito dal figlio di Corso, Simone, e da Cecchino de'
Bardi: e fu quest’ultimo a ferirlo a un braccio.
Ma
Cavalcanti si serve delle rime anche per riprendere impietosamente proprio Dante;
lo vede perdersi in attività meschine e lo apostrofa: “I' vegno il giorno a te
infinite volte/e trovoti pensar troppo vilmente … Solevanti spiacer persone
molte,/tuttor fuggivi l'annoiosa gente …”. Forse Cavalcanti allude proprio alla
brigata goliarda di Forese Donati che svilisce le qualità dell’Alighieri.
A
quel tempo, insomma, la penna e la spada erano armi con cui dirimere una vita
politica aspra e infernale, così come, secoli dopo, gli affronti rap e le Glock
9 millimetri si univano nell’appianare (o esacerbare) rivalità territoriali e d’affari (malavitosi).
Ed
ecco un breve commento alla disfida fiorentina (incruenta, ma durissima).
Rima LXIII Dante a Forese
Chi
sentisse tossir Nella, la moglie di Forese, detto Bicci, potrebbe arguire
ch'ella ha patito il freddo laddove il ghiaccio, a causa delle basse
temperatura divien cristallo.
Chi udisse tossir la mal
fatata
moglie di Bicci vocato
Forese,
potrebbe dir ch’ell’ha
forse vernata
ove si fa ’l cristallo
in quel paese.
Persino
a Ferragosto la trovi gelata, figuriamoci gli altri mesi; e non basta che dorma
con le calze: la coperta, infatti, è troppo corta (bisticcio con la città di
Cortona); infatti il marito non la copre abbastanza, ovvero non fa l'amore con
lei.
Di mezzo agosto la
truovi infreddata;
or sappi che de’ far
d’ogni altro mese!
E non le val perché
dorma calzata,
merzé del copertoio c’ha
cortonese.
I
malanni non le vengono per gli umori della vecchiaia, ma per la scarsa presenza
del marito ai doveri coniugali; a letto ("per difetto ch'ella sente al nido").
La tosse, ’l freddo e
l’altra mala voglia
no l’addovien per omor
ch’abbia vecchi
ma per difetto ch’ella
sente al nido.
S'addolora,
e parecchio, la madre di Nella: pensare che, per una dote di pochi spiccioli
("per fichi secchi"), l'avrebbe potuta maritare presso dei nobili
(uno dei Guidi dei conti del Casentino)! Altro che Bicci!
Piange la madre, c’ha
più d’una doglia,
dicendo: "Lassa,
che per fichi secchi
messa l’avre’ ’n casa
del conte Guido!".
Rima LXIV Forese a Dante
Forese non accetta le insinuazioni di Dante sulla virilità; solo quelle sulla povertà: sì, è povero, senza vestiti, e ladro: ma, in
una delle sue incursioni, a guadagnar ove che fosse, cosa ha mai trovato presso un cimitero? Nientemeno che il padre di Dante, Alighiero, o meglio, il
suo fantasma legato da un nodo salomonico: un nodo dettato da una colpa grave: probabilmente
una vendetta non consumata per viltà di Dante (l'omicidio invendicato di Geri del Bello) oppure la mancata restituzione di una somma guadagnata con
l'usura (padre e nonni di Dante praticavan lo strozzo). E Bicci, di fronte a
tale spettacolo, che fa? Si segna, verso Oriente, come vuole la pratica degli
scongiuri, e se ne va.
L’altra notte mi venne
una gran tosse,
perch’i’ non avea che
tener a dosso;
ma incontanente che fu
dì, fui mosso
per gir a guadagnar ove
che fosse.
Udite la fortuna ove
m’addosse:
ch’i’ credetti trovar
perle in un bosso
e be’ fiorin coniati
d’oro rosso;
ed i’ trovai Alaghier
tra le fosse,
legato a nodo ch’i’ non
saccio ’l nome,
se fu di Salamone o
d’altro saggio.
Allora mi segna’ verso
’l levante:
e que’ mi disse:
"Per amor di Dante,
scio’mi ". Ed i’
non potti veder come:
tornai a dietro, e
compie’ mi’ viaggio.
Rima LXV Dante a Forese
Quartina
eccezionale: la carne di cui sei goloso (starne, lombate, agnello), ti farà un
viluppo inestricabile nelle budella, come quello del re Salomone; non solo, ma
i cuoi degli animali macellati per la tua irrefrenabile golosità vendicheranno
i loro antichi proprietari, fornendo pergamene su cui verranno scritti i debiti
che hai contratto per soddisfare tale vizio. Al nodo rinfacciato al padre
Alighiero, Dante risponde per le rime (con un nodo di ben diversa natura) e all’insulto di gola aggiunge quello di
insolvenza debitoria.
Ben ti faranno il nodo
Salamone,
Bicci novello, e petti
de le starne,
ma peggio fia la la
lonza del castrone,
ché ’l cuoio farà
vendetta de la carne;
Sarai
così indebitato che rischierai la galera (la Burella, principale carcere di
Firenze, si trovava in contrada San Simone); e sarà difficile uscire da tal
situazione, anche volendo, ovvero riscattare i debiti causati dai buoni bocconi
(divenuti ‘mali’ perché origine della catastrofe finanziaria di Bicci novello;
novello in senso di junior, onde distinguerlo da un parente omonimo seniore).
tal che starai più
presso a San Simone,
se tu non ti procacci de
l’andarne:
e ’ntendi che ’l fuggire
el mal boccone
sarebbe oramai tardi a
ricomprarne.
Certo,
caro Bicci, tu conosci un'arte (il furto) assai lucrosa e che può scansarti il
gabbio: stai attento, però, che tale malarte procurò guai grossi ai figli di
Stagno (una famiglia di ladroni). Insomma, poco virile, goloso, pezzente e
ladro!
Ma ben m’è detto che tu
sai un’arte,
che, s’egli è vero, tu
ti puoi rifare,
però ch’ell’è di molto
gran guadagno;
e fa sì a tempo, che
tema di carte
non hai, che ti bisogni scioperare;
ma ben ne colse male a’
fi’ di Stagno.
Rima LXVI Forese a Dante
Forese
rigira l’insulto a Dante: caro mio, sei tu il pezzente: vattene, riporta i
panni che hai mendicato a San Gallo (Santa Maria fuori della Porta, dove si
rivolgevano i bisognosi). E continua: ci dai di mendichi (a noi Donati) quando
sappiamo che pigli da mangiare dal castello Altrafonte, presso Ponte Vecchio,
dove fanno la carità? Eviterai d'esser come Belluzzo (zio spiantato di Dante)
se la sorte ti conserverà i fratellastri, Gaetana e Francesco, così che tu
possa sfruttarli, poveraccio che non sei altro. Da vecchio ti vedrò riparare
all'ospizio dei poveri (presso Porta Pinti) e stare col farsetto (senza
mantello) assieme ad altri due mendichi.
Va, rivesti San Gal
prima che dichi
parole o motti d’altrui
povertate,
ché troppo n’è venuta
gran pietate
4in questo verno a tutti
suoi amichi.
E anco, se tu n’hai per
sì mendichi,
perché pur mandi a noi
per caritate?
Dal castello Altrafonte
ha’ ta’ grembiate,
ch’io saccio ben che tu
te ne nutrichi.
Ma ben t’alenerà il
lavorare,
se Dio ti salvi la Tana
e ’l Francesco,
che col Belluzzo tu non
stia in brigata.
A lo spedale a Pinti ha’
riparare;
e già mi par vedere
stare a desco,
ed in terzo, Alighier co
la farsata.
Rima LXVII Dante a Forese
Dante
ancora più spietato. Caro Bicci, non so di chi sei figlio, dovrei domandare a
tua madre, Tessa (contessa Donati): sei così goloso che, per rifarti, devi
rubare.
Bicci novel, figliuol di
non so cui,
s’i’ non ne domandasse
monna Tessa,
giù per la gola tanta
roba hai messa,
ch’a forza ti convien
torre l’altrui.
La
gente ormai è sull'avviso: chi ha la borsa e vede avvicinarsi Bicci dice: ecco
un ladrone notorio (piuvico=pubblico), un delinquente usuale, con quella faccia
sfregiata che si ritrova (faccia fessa).
E già la gente si guarda
da lui,
chi ha borsa a lato, là
dov’e’ s’appressa,
dicendo: "Questi
c’ha la faccia fessa
è piuvico ladron negli
atti sui".
Il
padre di Bicci, Simone, si rivolta nel letto temendo che, prima o poi, la
giustizia lo acchiappi sul fatto (a rubare = a lo 'mbolare); il letto di Simone
Donati, inoltre, è tristo perché condiviso con la cornificatrice Tessa: infatti
Simone è padre di Bicci quanto Giuseppe lo era di Cristo, cioé per niente.
E tal giace per lui nel
letto tristo,
per tema non sia preso a
lo ’mbolare,
che gli appartien quanto
Giosepp’a Cristo.
Chiusa
apocalittica: Bicci, e i suoi fratelli, Corso e Sinibaldo ("per lo sangue
lor") si accostano alle loro mogli come cognati, ovvero in modo casto; qui
giace una doppia allusione: alla scarsa virilità oppure al disordine sessuale
nella famiglia tutta dove ognuno giace con la moglie dell'altro,
indifferentemente.
Di Bicci e de’ fratei
posso contare
che, per lo sangue lor,
del male acquisto
sanno a lor donne buon
cognati stare.
Rima LXVIII Forese a Dante
Forese
ritorna al primo sonetto e accusa Dante della mancata vendetta (per la morte di
Geri del Bello) dovuta a viltà; una vendetta che tarda parecchio (il padre di Dante
morì nel 1283; Forese lo sbeffeggia dicendo "l'altr'ieri"). L'onta invendicata
subìta dal padre non sarebbe stata lavata neanche se Dante avesse fatto a pezzi
qualcuno della famiglia che ha portato l’offesa (ma purtroppo, dice Forese, tu
ti cachi nelle brache [bonetta] dalla paura). Hai messo in uso, vigliacco di un
Dante, la pratica del chiamar fratello chi ti riempie di legnate. Ti direi pure
il nome di chi ha fatto assegnamento su questa tua viltà, continua Forese, ma
lascio perdere: ce ne siamo dette tante, è ora di finirla.
Ben so che fosti
figliuol d’Alaghieri,
e accorgomene pur a la
vendetta
che facesti di lui sì
bella e netta
de l’aguglin ched e’
cambiò l’altr’ieri.
Se tagliato n’avessi uno
a quartieri,
di pace non dovevi aver
tal fretta;
ma tu ha’ poi sì piena
la bonetta,
che non la porterebber
due somieri.
Buon uso ci ha’ recato,
ben til dico,
che qual ti carica ben
di bastone,
colui ha’ per fratello e
per amico.
Il nome ti direi de le
persone
che v’hanno posto su; ma
del panico
mi reca, ch’i’ vo’ metter
la ragione.
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