Giovanni Anchiseo
Nâzım
Hikmet-Ran, ovvero Nazim Hikmet (Salonicco, 20 novembre 1901 - Mosca, 3 giugno
1963), l'ho sempre considerato un lirico dalla vena piuttosto facile. Infatti
ebbe successo immediato, vasto, popolare. Il suo verseggiare senza inciampi,
d'un piano petrarchismo, coadiuvato da un richiamo vagamente esotico (era
mezzo turco e mezzo polacco), riecheggiava altri ritmi, quelli d'un Tagore o
d'un Gibran, altri poeti buoni per le signorine.
Nella
vita, però, si cambia. Anche i poeti cambiano.
Si
può affermare questo: io e Hikmet siamo cambiati.
E,
da poco, siamo entrati più in sintonia. In corrispondenza d’amicali sensi.
Lui
sa che non diverrà mai uno dei miei favoriti, ma si rallegra di questa mia
recente conversione. Io, per conto mio, lo disporrò in una sezione della
biblioteca meno sperduta. A questo punto
qualche anima bella insorgerà giustamente: posso capire che sei cambiato tu (ma
di te c'importa poco), ma come è possibile che sia cambiato Hikmet, che non è
più da mezzo secolo?
Più
che possibile; inevitabile.
Vediamo
Hikmet. Ecco cosa scrive nelle sue autobiografie, una in versi, l'altra in
prosa:
Ho dormito in prigioni e
anche in alberghi di lusso
Ho sofferto la fame compreso
lo sciopero della fame
E non c'e quasi pietanza
Che non abbia assaggiata
...
Nel '51 con un giovane
compagno
Ho camminato verso la
morte
Nel '52 col cuore
spaccato ho atteso la morte
Per quattro mesi
sdraiato sul dorso ...
Le mie poesie sono
pubblicate
In trenta o quaranta
lingue
Ma nella mia Turchia
Nella mia lingua turca
Sono proibite ...
In una parola compagni
...
Posso dire di aver
vissuto
Da uomo
E quanto vivrò ancora
E quanto vedrò ancora
Chi lo sa
E
ancora: "A 18 anni passai in Anatolia, scoprii il mio popolo e le sue
lotte. Lottava con i suoi cavalli magri, con le sue armi preistoriche, in mezzo
alla sua fame e alle sue cimici ... ero tutto stupito, ebbi paura, lo amai, lo
adorai, compresi che bisognava scrivere tutto ciò in un altro modo ... [poi,
nella Russia comunista, nel 1921] fui mille volte più stupito, e sentii un
amore e un'ammirazione cento volte più forti, perché avevo scoperto ... una
carestia cento volte più terribile, e delle cimici cento volte più feroci, e
una lotta contro tutto un mondo cento volte più potente, e una immensa
speranza, un'immensa gioia di vivere, di creare. Ho scoperto tutta un'altra
umanità. E cominciai a scrivere in un altro modo. E da allora non posso non
scrivere delle poesie"
Il
mondo di Hikmet, il comunista, l'esule, il perseguitato Hikmet, che rischiò più
volte la forca, che giacque col cuore spaccato in galera, il carcerato Hikmet,
poeta civile e cosmopolita, non esiste più. È per noi impossibile gustarne i
versi come nel 1950 o nel 1963, anno della morte; è impossibile perché le
passioni, le ideologie, le ansie, i rancori di oggi sono altri da quelli di ieri e ci mettono in rapporto con le sue poesie in modo assolutamente
diverso. Il mondo è cambiato, Hikmet è cambiato.
Anche
il sottoscritto. Perché ho vissuto, ovviamente, accumulando amori, delusioni, esultanze;
e nuove passioni, nuove ideologie, nuovi rancori. E soprattutto perché ho
letto. Ho letto tanto, e legger parecchio significa vivere parecchia vita.
Dicono che la vita è altro dalla letteratura, ma non è vero: non è così, no,
non è così, se abbiamo l'accortezza di non separarle, la letteratura e la vita.
Solo i babbei prendon tutto alla leggera; vivere e leggere questo:
”L’isola è piena di
questi sussurri,
di dolci suoni, rumori,
armonie …
A volte son migliaia di
strumenti
che vibrando mi ronzano
agli orecchi;
altre volte son voci sì
soavi,
che pur se udite dopo un
lungo sonno,
mi conciliano ancora con
Morfeo,
e allora, in sogno,
sembra che le nuvole si spalanchino
e scoprano tesori pronti
a piovermi addosso;
ed io mi sveglio, nel
desiderio di dormire ancora”
fa
parte di un'unica e vasta recita, umana e irripetibile, in cui i mondi scoperti
nelle letture e le nostre esperienze, persino le più triviali, si illuminano a
vicenda.
E
così sono cambiato.
E
un bel giorno leggo che, il 20 novembre, ricorre l'anniversario della nascita
di Nazim Hikmet, il turco, il comunista, il perseguitato, il poeta civile,
padre e marito e amante.
E
riprendo, per pura curiosità, l'edizione delle Poesie d'amore. Una brutta edizione, che il tempo e la polvere e
l'umidità di ventidue inverni hanno accartocciato agli orli. La apro a caso e
leggo:
"Poi
mi sono innamorato follemente di varie ragazze e ho scritto per loro dei versi
... "
Oltre
troviamo la sua prima poesia romana, una semplice presa d’atto della bellezza
femminile; a cui si miscela un presagio di morte; ed eccole, Amore e Morte a
Roma:
Roma 1960
Quante donne belle ci
sono al mondo
Quante belle ragazze
S'affacciano sulle
terrazze della città.
Contemplale vecchio
Contemplale e mentre da
un canto i tuoi versi
Si fanno più tersi e
lucenti
Dall'altro
Devi contrattare
cercando di tirarla in lungo
Con la morte che ti sta
accanto.
E
ancora, a caso, una dichiarazione di poetica:
Lo so
Quando si è presi da
questa passione
E il cuore ha un peso
rispettabile
Non c'è niente da fare,
Don Chisciotte,
Niente da fare
È necessario battersi
Contro i mulini a vento
E
allora ho capito, che, mentre fissavo questi versi dimenticati (io, che, in un senso
assai più modesto e metaforico, sono a mia volta diventato un carcerato e un
esule), Hikmet mi rimandava lo sguardo, accorgendosi d'esser cambiato pure lui
e meravigliandosi di quanto il mondo ruotasse in maniera assolutamente diversa
dal 1950 o dal 1963, da quando cioè il poeta Hikmet, il carcerato ed esule
Nazim Hikmet, lo calcava sicuro.
Ed
è così che, dopo tutti questi anni, ci siamo incontrati a mezza strada, entrambi
col cuore mutato.
E
credo che d'ora in poi andremo più d'accordo, io e lui, in attesa di
riconciliarci per sempre.
Vedete
che scherzi fa il tempo.
Ed
ecco la seconda poesia romana.
Roma 1960
La tua anima e un fiume,
mio amore
Scorre in alto tra le
montagne
Tra le montagne verso la
piana
Verso la piana senza
poterla raggiungere
Senza raggiungere il
sonno dei salici piangenti
La quiete dei larghi
archi di ponte
Dell'erbe acquatiche
dell'anatre dalla testa verde
Senza raggiungere la
dolcezza triste delle superfici piane
Senza raggiungere i
campi di grano al chiaro di luna
Scorre verso la piana
Scorre in alto tra le
montagne
Tirandosi dietro le nubi
che si fondono e si separano
Portandosi di notte le
grosse stelle
Le stelle delle cime di
montagne
Il sole azzurre delle
nevi di montagne
Scorre schiumeggiando
mescolando nel fondo le pietre nere con quelle bianche
Scorre coi suoi pesci
che nuotano contro corrente
Vigili nelle curve
S'inabissa e s'inalbera
Pazza del proprio
fragore
Scorre in alto tra le
montagne
Tra le montagne verso la
piana
Verso la piana
inseguendola
Senza poterla raggiungere.
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