Lucas Cranach il Vecchio, Il giudizio di Paride |
Ecco
Afrodite/Venere nell’Inno omerico (1-6; 69-74) a lei dedicato:
O Musa, dimmi le
opere di Afrodite d'oro,
dea di Cipro, che
infonde il dolce desiderio negli dei
e domina le stirpi
degli uomini mortali,
e gli uccelli che
volano nel cielo, e tutti gli animali,
quanti,
innumerevoli, nutre la terra, e quanti il mare:
tutti hanno nel
cuore le opere di Citerea dalla bella corona.
…
… al suo seguito
Docili andavano
grigi lupi, leoni feroci,
e orsi e pantere
veloci avide di cerbiatti;
e lei a vederli
gioiva, nella mente e nel cuore,
e versava nel loro
petto il desiderio: e subito tutti
giacevano a coppie
nelle valli ombrose …
Una dea che ha
imperio su dei e uomini, sorridente, e onnipotente (solo tre donne sfuggono ai
suoi lacci: Atena, Minerva, Estia). Quando non arriva a versare il desiderio
nel petto, si serve di mirabili artifizi (Saffo la chiamerà ‘tessitrice d’inganni’): astuta e suadente, nonché elikoblépharos, dea dagli occhi a spirale,
ipnotica e spietata.
Col tempo (il tempo
indurisce la fluidità del mito, sempre) parrà ritirarsi in zone più superne,
lasciando il compito di sciogliere e allacciare passioni al suo temibile sgherro,
Eros.
Il sorriso di
Afrodite è quello degli sposi etruschi, enigmatico: la serenità, la placida e
controllata grazia, l’indubbia bellezza costituiscono il vischio delle sue trappole.
Perché Afrodite è
bella, talmente bella da avere dei difetti.
E i Greci, che
furono filosofi d’istinto, seppero che proprio un difetto regala la perfezione;
e di difetti la Cipride ne aveva più d’uno, sette per la precisione:
1. Il piedino greco, col secondo dito più lungo dell'alluce
2. L’ovvio strabismo, una impercettibile deviazione verso l'esterno dell'asse visivo, che dona allo sguardo una certa allure sognante (da deliziosa tontolona)
3. Linee addominali oblique
4. Capelli biondi con colore (naturale!) differente all'attaccatura
5. Medio della mano più lungo
6. Lievi rughe circolari sul collo
7. Due fossette proprio sopra le natiche
L’ultima qualità,
assai difficile da constatare nella vita quotidiana, torna negli epigrammi di
Rufino, poeta licenzioso del II secolo d. C., incluso, assieme a Paolo Silenziario e a numerosi genî poetici, nel V libro dell’Antologia Palatina.
Rufino parodizza il
celeberrimo episodio del giudizio di Paride. La storia è nota: il papà e la
mamma di Achille, Peleo e Teti, stanno per sposarsi; alle nozze non viene
invitata la dea della discordia, Eris: quest’ultima, perfida, getta una mela d’oro
al convito nuziale con su scritto: “Alla più bella”. A chi spetta il fatal pomo? Giunone, Afrodite e Atena
si accapigliano come etère della suburra. Interviene Zeus: “Signorine mie belle,
placatevi; un po’ di decoro; è inutile questo trambusto: c’è un solo modo per
districare il gliuommero, il groviglio, il gomitolo: per giudicare la più bella
ci vuole l’uomo più bello. Ed è un mortale. Si chiama Paride, o Paride
Alessandro, o Alessandro, o come volete voi, vive in Asia Minore. Uno sciupafemmine,
un superficiale, ne convengo, ma è il tipo adatto (d’altronde, ahi, io non son
da meno). Andate ordunque laggiù,
ragazze mie, e sbrigatevi e fatela finita, che ho il mondo da mandare avanti”.
E le dee si acconciarono al volere di Zeus; e Paride scelse e scelse,
ovviamente, Afrodite, la tessitrice d’inganni, femmina ancor più perfida di
Eris - Afrodite che, di sottecchi, sorridendo alla sua maniera, aveva promesso
al pastorello, in cambio del giudizio a suo favore, l’amore della donna più
bella del mondo: Elena di Sparta.
E Rufino, il
sensuale, licenzioso Rufino, burlone e satiresco, si mette nei panni di
Alessandro Paride: e davanti non ha, però, i volti luminosi di tre chiare
deità, ma tre bei sederi:
Ant. Pal., V, 35 (trad.
Filippo Maria Pontani)
Giudice fui di tre
culi: m’avevano scelto le donne,
mostrando il nudo
abbaglio delle membra.
L’una brillava d’un
bianco dolcissimo fiore di glutei
Che fossettine tonde suggellavano.
L’altra s’apriva:
luceva vermiglia la carne di neve,
più colorita di
purpurea rosa.
Mare tranquillo la
terza, striato di taciti flutti:
sulla morbida pelle,
inconsci fremiti.
Chi le dee giudicò,
sdegnato avrebbe la vista
Dei culi, se mirato
avesse questi.
“Fossettine tonde
suggellavano …”, un fondoschiena degno di Cipride; il settimo difetto.
Ma Rufino non si
ferma; ci prende gusto:
Ant. Pal., V, 36 (trad.
Filippo Maria Pontani)
Erano tre: chi l’aveva,
la fica più bella? Una lite
Scoppiò fra
Rodoclea, Ròdope e Mèlite.
Presero ad arbitro
me, si pararono nude, stillanti
[Néttare, come le famose dee
Quella di Rodòpe
dava brillìo tra le cosce, di gemma –
Boccio di rosa che
gran vento solca
<…>
Umida, un idolo
appena scolpito un tempio pareva
Quella di Rodoclea,
pari a cristallo.
Conscio di tutte le
pene che a Paride valse la scelta,
tutt’e e tre le
divine coronai.
Meravigliosi.
Eppure, non posso rileggere questo epigramma senza contenere il dolore. Che
perdita irrecuperabile! Che rovina! La fica di Mélite, dov’è? Persa nelle more della
tradizione manoscritta. Chissà cosa scrisse mai Rufino della fica di Mèlite.
Non lo sapremo mai. Non lo saprò mai. Cosa non darei per quelle due righe: carrettate
di libri inutili, intere bibliografie, intere biblioteche.
:D
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