“So bene, Italiani, che i più vi chiedono il
potere in un modo e, ottenutolo, lo esercitano in un altro. Prima si mostrano
attivi, deferenti e modesti; poi si rivelano negligenti e arroganti. Ma io
la penso ben diversamente, perché quanto
più importante è la Repubblica nel suo complesso rispetto ai parlamentari,
tanto più si deve preferire la cura effettiva dell'amministrazione dello Stato
alla richiesta di queste cariche. So bene quanto sia impegnativo questo compito
che io assumo per la vostra immensa benevolenza. Sostenere le necessità del popolo senza intaccare l'erario … aver cura di tutto sia in Patria che all'estero e
fare ciò tra la malevolenza, l'ostilità e gli intrighi, è, Italiani, compito
più difficile di quanto si possa supporre. Aggiungete che se altri sbagliano
trovano mille motivi di difesa: l'antico lignaggio, le gesta dei loro padri, le ricchezze di consanguinei e parenti, la folla di clienti. Io, se ho speranze, le ho solo in me, e
devo tutelarle con il mio valore e con la mia integrità. Non posso contare su
altro. Comprendo, Italiani, che gli occhi di tutti sono rivolti a me, che i
giusti e gli onesti mi sostengono, perché i miei successi tornano a vantaggio
della Repubblica, che l’aristocrazia dei partiti, invece, è pronta ad
attaccarmi. Tanto più devo darmi da fare perché voi non veniate irretiti e al
tempo stesso quelli falliscano nei loro scopi. Dall'infanzia fino a questa età
sono vissuto in mezzo a fatiche e pericoli di ogni genere. La condotta che io
perseguivo senza mire di compenso prima di ottenere da voi questa carica, non
intendo, Italiani, cambiarla proprio ora che ho ricevuto la ricompensa. Moderarsi nell'esercizio del potere è
difficile per coloro che si sono finti onesti durante la candidatura: per me,
invece, che per tutta la vita mi sono dedicato all'esercizio della virtù,
l'agire rettamente è diventato da abitudine, seconda natura.
... Vi prego di riflettere bene e di
vedere se non sia meglio cambiare parere destinando a questo incarico o ad un
altro simile qualcuno della cerchia dei partiti, un uomo certo di antico
lignaggio e ricco di clienti e amici, ma privo di esperienza:
uno, voglio dire, che di fronte a un compito così gravoso, essendo del tutto
incompetente, cominci ad agitarsi e ad affannarsi e alla fine prenda qualcuno
del popolo a imbeccarlo nella sua condotta. Il più delle volte accade infatti
che l'uomo da voi incaricato di comandare, cerchi per sé un altro comandante ...
Ora, Italiani, mettete a confronto me, uomo nuovo, con la superbia di questa
gente. Ciò che costoro sono soliti udire o leggere, io in parte l'ho visto con
i miei occhi, in parte l'ho fatto personalmente. Ciò che essi hanno imparato
sui libri, io l'ho imparato con il servizio effettivo. Ora giudicate voi se valgono più i fatti o le parole. Essi disprezzano
la mia umile origine, io la loro inettitudine. A me si può rinfacciare la
mia condizione, a loro una condotta disonorevole. Io ritengo che la natura sia
unica e comune a tutti: è il valore che
crea la vera nobiltà … Se poi credono di avere il diritto di disprezzarmi,
facciano altrettanto con i loro antenati, che, come me, hanno acquistato la
nobiltà con il valore. Sono invidiosi della mia carica: lo siano dunque anche
delle mie fatiche, della mia rettitudine, dei pericoli che ho affrontato,
perché solo grazie a questi ho ottenuto la Presidenza. Invece, uomini guastati dalla superbia, vivono come se disprezzassero
le cariche che voi conferite e poi ve le chiedono, come se fossero vissuti
onestamente. Si sbagliano davvero, se sperano di raggiungere
contemporanemente due obiettivi incompatibili fra loro: i piaceri dell'ozio e i
premi del valore. E anche quando parlano dinanzi a voi o in Parlamento, in
quasi tutti i discorsi esaltano i loro predecessori: credono di nobilitare se
stessi ricordando le imprese di quelli. Ma è proprio il contrario: quanto più
fu gloriosa la vita di quelli, tanto più è vergognosa la loro indolenza. E non
può essere che così: la gloria di coloro che furon prima è come una luce che
splende sui discendenti e non lascia nell'ombra né i loro vizi né le loro
virtù. Confesso, Italiani, che per me questa luce non splende. Ma ho un
privilegio che mi fa molto più onore: posso parlare di imprese che io stesso ho
compiuto. Vedete ora quanto siano ingiusti: i diritti che pretendono in nome
della virtù altrui, non li vogliono concedere a me in nome della mia,
evidentemente perché non ho ritratti di antenati famosi e perché la mia nobiltà
è recente. Ma è certo meglio essersela
conquistata da soli, che, una volta ereditata, averla guastata.
Per parte mia non ignoro che, se ora
volessero rispondermi, potrebbero profondersi in discorsi eloquenti e forbiti.
Ma dal momento che non perdono occasione per coprire d'insulti me e voi a
proposito dell'alto onore che mi avete concesso, non ho voluto tacere, per
evitare che la mia moderazione venisse scambiata per un'ammissione di colpa. Quanto
a me, sono profondamente convinto che nessun discorso può recarmi danno,
perché, se è veritiero, non può che essere a mio favore, se è falso, la condotta della mia vita è lì a smentirlo.
Nondimeno, poiché viene messa sotto accusa la vostra decisione di conferirmi
l'onore più alto e l'incarico più impegnativo, considerate attentamente se non
dobbiate pentirvene. Io non posso, per conquistare la vostra fiducia, vantare
ritratti o trionfi o consolati, ma se necessario, posso mostrare lance,
stendardi, falere, altre decorazioni militari, e infine le cicatrici che mi
attraversano il petto. Questi sono i
miei ritratti, questa è la mia nobiltà: non mi è stata lasciata in eredità come
la loro, ma l'ho conquistata a prezzo di innumerevoli fatiche e pericoli.
Le mie parole non sono forbite, ma
non me ne curo. La virtù parla da sola.
Gli orpelli servono a loro, che debbono ammantare di belle parole le loro
azioni vergognose … Ma io ho imparato
cose di gran lunga più utili alla Repubblica: … vivere al sicuro nel lusso e
sottoporre il popolo a dura disciplina è comportarsi da tiranno, non da
comandante. Chi ci precedette, tenendo questi comportamenti o altri simili,
rese illustre sé stesso e la Repubblica. Questi di adesso, facendosi forti delle imprese di tali uomini, da
cui sono così dissimili nella condotta, disprezzano noi che ne seguiamo
l'esempio ed esigono da voi tutti gli
onori, non a titolo di merito, ma come dovuti. Ma nel loro smisurato
orgoglio commettono un grave errore. Gli antenati lasciarono loro tutto quello
che potevano: ricchezze, ritratti, la loro stessa illustre memoria; non
lasciarono loro la virtù, e non
avrebbero potuto, considerato che è la sola cosa che non si può dare né ricevere in dono. Dicono che sono volgare e di
rozzi costumi, perché non snon vanto metodi e retoriche raffinate e perché non mi
servo di istrioni o pennivendoli. Sono ben lieto di ammetterlo, Italiani. Da
mio padre e da altre venerande persone ho imparato che l'eleganza si addice
alle donne, la fatica agli uomini e che i galantuomini devono distinguersi per
gloria più che per denaro: le armi, non le suppellettili, sono il loro vanto. Ebbene,
continuino dunque a fare sempre ciò che più loro piace e torna gradito: si
diano agli amori, al bere, là dove hanno trascorso la gioventù, nei bagordi,
passino la vecchiaia, schiavi del ventre e della parte più vergognosa del
corpo. Lascino a noi il sudore, la polvere e altre cose del genere: noi le
preferiamo ai loro banchetti. Ma non è così. Dopo essersi coperti di vergogna, questi indegni personaggi vengono a
strappare le ricompense agli onesti. Così,
in maniera profondamente ingiusta, i vizi peggiori, la lussuria e l'ozio, non
danneggiano chi li pratica, ma rovinano la comunità che non ne ha colpa.
Ora, poiché ho risposto loro come il mio
temperamento e certo non i loro misfatti esigevano, aggiungerò poche parole a
proposito della Repubblica … Voi, dunque, che siete in età di lottare, unite i
vostri sforzi ai miei e prendete le difese della Repubblica senza lasciarvi
cogliere dallo sgomento per le disgrazie degli altri o per l'arroganza dei
comandanti. Io sarò al vostro fianco in marcia o nella lotta, consigliere e
compagno nei pericoli, e in ogni circostanza tratterò voi e me nello stesso
modo. E veramente con l'aiuto di Dio tutto è pronto per noi: vittoria, preda e
gloria. Ma anche se queste fossero incerte o remote, nondimeno sarebbe dovere
di tutti i buoni cittadini venire in aiuto della Repubblica. Nessuno si è mai
garantito l'immortalità con la viltà, nessun padre ha mai augurato ai suoi
figli una vita eterna piuttosto che onesta e virtuosa. Direi di più, Italiani, se le parole potessero dare coraggio ai vili;
per i valorosi credo di aver detto abbastanza".
Discorso (con leggeri aggiustamenti e tagli) di Gaio Mario (Arpino, 157 a. C. - Roma, 86 a. C. ) all'esercito, 107 a.C. circa; contenuto in Gaio Sallustio Crispo, La guerra giugurtina, LXXXV
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