martedì 28 gennaio 2014

Quattro versioni di un traditore

Cajamarca 1532. Francisco Pizarro, comandante di sessantadue cavalieri e centosei fanti, si schiera contro i cinquemila guerrieri dell'Inca Atahuallpa (1) .
Gli spagnoli hanno passato la notte in preghiera. Pizarro, indurito da marce forzate, febbri, assassinii e sorretto da un'ostinazione messianica, non prega. Ha visto morire centinaia di uomini (i propri uomini); sente vicina la meta e la gloria che già fu di Cortez in Messico. Manda un'ambasceria al sovrano, di cui fa parte il sacerdote Vicente di Valverde: intima all'Inca la sottomissione piena alla simmetrica e divina monarchia di Spagna di cui egli, Francisco Pizarro da Trujillo, è esecutore, materiale e spirituale.
Atahuallpa rifiuta: non ha mai sentito parlare né di Carlo V né di Cristo.

"Il sacerdote Vicente di Valverde esce dall'ombra e va incontro a Atahuallpa. Con una mano alza la Bibbia e con l'altra il crocifisso, come se stesse scongiurando una tempesta in alto mare, e grida che qui c'è Dio, il vero Dio, e che tutto il resto è falsità. L'interprete traduce e Atahuallpa ... chiede:
"Chi te l'ha detto?".
"Lo dice la Bibbia, il libro sacro".
"Dammela affinché me lo dica" (2)

Atahuallpa prende il libro, se lo rigira tra le mani, cerca di aprirlo, ma non ci riesce. Lo scuote, lo ausculta, ma quello scrigno che dovrebbe contenere la voce sacra rimane muto. Atahuallpa, già usurpatore e traditore del fratellastro Huáscar, compie quindi un secondo tradimento, condannando la propria gente. Ignora la potenza della parola. Non la riconosce. Se avesse intuito che quelle pagine fatali sono più potenti del centinaio di masnadieri che da anni arrancava in Perù; se avesse compreso che un singolo libro, commentato, postillato, annotato e venerato dai bianchi per millenni ha fatto in modo da generare una marea di perfidie, astuzie, crudeltà, infamie - se Atahuallpa, com'era dovere d'un dio sovrano, avesse capito tutto questo avrebbe potuto annientare quel manipolo di butterati gaglioffi in pochi attimi.


La storia, invece, piegò il corso in modo assieme tragico e farsesco decretando la morte di centinaia di migliaia di esseri umani.
Atahuallpa non capisce; è arrogante e stolido. Dialoga da un trono d'oro a baldacchino, sorretto dalla più alta nobiltà del regno. Forse getta il libro a terra, forse colpisce la mano di Valverde che cerca, sacrilego, di aprirlo davanti ai suoi occhi. Pizarro non aspetta altro. È il segno, la profanazione del dio cristiano.
Ordina l'attacco. Le spade toledane fanno strage dei nobili Inca.

“La lotta per la cattura di Atahuallpa fu patetica e sanguinosa. Gli spagnoli uccidevano via via i nobili che reggevano il trono, e altri si sostituivano subito ai caduti, lasciandosi fare a pezzi senza reagire e badando solo a che il sovrano non cadesse a terra. A molti vennero mozzate le mani, e tuttavia continuarono a reggere il peso con le spalle e con la testa. Visto catturare l'inca, i guerrieri indiani rimasero interdetti, paralizzati. Gli spagnoli ne passarono centinaia, forse migliaia, a fil di spada, incontrando scarsissima resistenza ...”(3)

Cajamarca 1533. L'Inca è prigioniero nel proprio regno. Condannato a morte, insiste nel tradimento, sino all'abiezione:

“Quando il suo palazzo si tramutò nel suo carcere, non volle crederci. Atahuallpa, prigioniero di Pizarro, disse: "Sono il più grande di tutti i principi della terra ...".
Seduto sul trono di Atahuallpa, Pizarro gli annunciò che aveva deciso di confermare la sua sentenza di morte. Atahuallpa rispose: "Non ti burlare di me".
Non ci vuole credere nemmeno ora, mentre sale passo passo la gradinata, trascinando catene, nella luce lattiginosa dell'alba ...
A Quito piangeranno la morte dell'ombra che protegge: perplessi, smarriti, negata la memoria, soli ...
Prima che l'arganello di ferro gli spezzi la nuca, piange, bacia la croce e accetta di farsi battezzare con un altro nome. Dicendo di chiamarsi Francisco, che è il nome di colui che lo ha vinto, bussa alla porta del paradiso degli europei, dove non c'è un posto riservato per lui”(4)

Cadono le città: Cajamarca, Quito, Cuzco.

“Tra le pietre di Cuzco annerite dall'incendio, i vecchi e i paralitici attendono, muti, i giorni a venire”(5)

Quito 1579. I giorni a venire perfezionano il tradimento. Vi è una rivolta di indios quijos. Beto e Guami, profeti, capeggiano l'insurrezione. Il figlio di Atahuallpa, Francisco, che ha scelto il proprio nome in onore dell'assassino del padre e del proprio popolo, la reprime nel sangue. Cattura i profeti e li espone alla derisione cruenta dell'umiliazione:

“Li fanno girare su un carro per le strade di Quito, li tormentano con tenaglie roventi, li impiccano, li squartano e mostrano i loro pezzi. Dal palco d'onore il capitano Francisco Atahuallpa assiste alla cerimonia” (6)

1608 Cordoba. Il poeta meticcio Inca Garcilaso de la Vega, nato dall'unione del conquistador Sebastián Garcilaso de la Vega Vargas e di Chimpu Ocllo (battezzata Isabel Suárez), figlia d'una cugina di Atahuallpa, consegna alla storia letteraria le sue ultime opere:

“A settant'anni si china sul tavolo, intinge la penna nel calamaio di corno e scrive in tono di discolpa.
È uomo di prosa minuziosa e garbata. Elogia l'invasore nella lingua dell'invasore, che ha fatto sua. Con una mano saluta la conquista come opera della Divina Provvidenza: i conquistatori, braccia di Dio, hanno evangelizzato il nuovo mondo e la tragedia ha pagato il prezzo della salvezza. Con l'altra mano dice addio al regno degli Incas, prima distrutto che conosciuto, e lo evoca con nostalgie da paradiso. Una mano appartiene a suo padre, capitano di Pizarro. L'altra è di sua madre, cugina di Atahuallpa, che quel capitano oltraggiò e gettò tra le braccia di un soldato.
Come l'America, l'Inca Garcilaso è nato da una violenza. Come l'America, vive lacerato.
Anche se è da mezzo secolo che vive in Europa, sente ancora, come fossero recenti, le voci dell'infanzia a Cuzco, cose ricevute con il latte e con le fasce: venne al mondo in quella città diroccata, otto anni dopo l'entrata degli spagnoli, e in quella città bevve, dalle labbra di sua madre, le storie che vengono dal giorno lontano in  cui il sole lasciò cadere, sul lago Titicaca, il principe e la principessa nati dai suoi amori con la luna” (7)

Garcilaso scrive nella lingua elegante dei carnefici; venera i monarchi spagnoli, deità ulteriori e ben più potenti di quelle dei propri padri. Cos'è stata la conquista se non un semplice cambio di sovranità alla luce della vera fede?
Ma la vecchiaia incalza, il rimorso si accentua; non più domato dall'imperio della ragione il tumulto del sangue antico reclama la propria verità. Ma è tardi. Il terzo tradimento è consumato.

Roma, 2014. Scrivo con un ipad, tecnica Apple. Più tardi, spedirò, per posta, tin.it, il testo presso un computer fisso, Microsoft, per le correzioni. Poi lo pubblicherò su blogger, piattaforma online posseduta dai padroni di youtube e google; da qui lo rilancerò su facebook e twitter. È il breve testo che state leggendo e che qualcuno di voi, cento, forse duecento, scorrerà nei prossimi giorni. Quindi una persona o due, sempre i soliti, mi spediranno un messaggio d'approvazione, con cellulare Samsung Vodaphone: e io, benigno, li riceverò con il mio Nokia Tim.
Il testo che leggete è apparentemente in italiano. In realtà è scritto nel gotico internazionale dei conquistadores. Io scrivo pensieri Inca, che il sangue ancora vivifica, ma la prosa, e il concetto che la doma, appartiene agli spagnoli del nostro tempo. Di fatto sono un traditore. Pensare secondo il volere dei barbari rende barbari; o inoffensivi. E patetici. Volete fare la rivoluzione via sms? Impossibile. La lingua è il pensiero. Se non ci appartiene, siamo noi che apparteniamo agli altri. Gli Incas lo sapevano bene:

“Appare un altro idioma ... decade la nostra lingua patria …”

“Avrai perduto, uomo, la tua sapienza profonda, la tua scrittura …”

“La tua storia, senza la tua lingua, sarà come immondizie raccolta …”

“I barbuti uomini bianchi saranno i padroni anche della tua lingua?”(8)

E che dobbiamo fare? Sperare che il nemico lentamente capitoli o si uccida l'un l'altro. Non abbiamo certo la forza di Pizarro che piegò alla propria volontà di potenza imperiale un testo straniero, la Bibbia, rabberciato da pastori ebrei che avevano orecchiato leggende e costumi più antichi (egiziani, babilonesi, caldei); e non abbiamo neanche la forza di Ercole che vestiva della pelle del leone di Nemea, da lui abbattuto.
Il nostro nemico è troppo potente. Ci ha già dissolti; e dissipato la nostra cultura, i costumi, la storia. I portali barocchi non cadono da soli. Rendersi conto di una sconfitta così gigantesca è un debole conforto. D'altra parte non c'è rimedio. L'Italia si appresta a diventare, con propria gioia, una nota a pie’ di pagina dei nuovi mercenari spagnoli. Certo, rimane la possibilità di farsi ascari o kapo, cosa di cui la maggioranza si compiace, fessa o criminale com'è.
Poveri italiani, rinchiusi nelle riserve, ubriachi, rincretiniti, costretti a una lingua che gli fa pensare cose impensabili sino a qualche decennio fa; poveri babbei italiani, marci, corrotti, spaesati; che si coprono le orecchie non sapendo da dove arriverà il prossimo colpo. Ignoranti. E, sì, traditori.
Ci faranno aprire un casinò come i Navajos dell'Arizona? Il gioco d'azzardo va forte. Ci avete mai pensato? Lotterie, riffe, bet win, bingo, gratta e vinci: una babilonia del rischio. D'altronde non è ciò che facciamo di continuo? Giocare per passare il tempo? Giocare col pc, gli emoticon, le telefonate, la televisione, le email - interconnessioni del nulla.
Nichilismo ludico.
Non ch'io sia migliore. Quanto mi rimane da campare se va tutto bene? Vent'anni? Morte le passioni, spezzati e interrati gli dei come le statue di Ozymandias, mi trastullerò quattro lustri divagando, giochicchiando, sopravvivendo, fra un cappuccino e l'altro, come voi.
Ho misurato la mia vita con cucchiaini da caffè, diceva il poeta.
Come fece Takeshi Kitano, yakuza in disarmo, nel film Sonatine: tradito dal proprio boss, insidiato dai killer della gang nemica, si ritira sulla spiaggia di Okinawa assieme a una manciata di compagni, che viene lentamente decimata; e come passa le giornate? Fra scherzi, goliardate, karaoke, amori impossibili. Al suo aiutante, seriosissimo, che gli ricorda i doveri e le attitudini di un capo replica con un inevitabile e sconcertante: che posso fare? Certo, alla fine si prende una vendetta sanguinosa, ma la vendetta, in tal caso, è una variante orgogliosa, proterva e desueta del suicidio. Cioè della sconfitta.
A fine lettura mettete un like, grazie.

(1) Inca (figlio del sole) è titolo onorifico dei sovrani, prima che sostantivo e aggettivo riferiti al popolo
(2) Eduardo Galeano, Memoria del fuoco, I, Le origini, Rizzoli, 1997
(3) Francesco Saba Sardi, introduzione a Inca Garcilaso de la Vega, Commentarii reali degli Incas, Rusconi, 1982
(4) Eduardo Galeano, cit.
(5) Eduardo Galeano, cit.
(6) Eduardo Galeano, cit.
(7) Eduardo Galeano, cit.
(8) Sebastián Salazar Bondy-Alejandro Romualdo-Gianni Toti, Poesie e canti degli Incas quechua, Fahrenheit 451, 1995

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