Cajamarca
1532. Francisco Pizarro, comandante di sessantadue cavalieri e centosei fanti,
si schiera contro i cinquemila guerrieri dell'Inca Atahuallpa (1) .
Gli
spagnoli hanno passato la notte in preghiera. Pizarro, indurito da marce
forzate, febbri, assassinii e sorretto da un'ostinazione messianica, non prega.
Ha visto morire centinaia di uomini (i propri uomini); sente vicina la meta e
la gloria che già fu di Cortez in Messico. Manda un'ambasceria al sovrano, di
cui fa parte il sacerdote Vicente di Valverde: intima all'Inca la sottomissione
piena alla simmetrica e divina monarchia di Spagna di cui egli, Francisco Pizarro
da Trujillo, è esecutore, materiale e spirituale.
Atahuallpa
rifiuta: non ha mai sentito parlare né di Carlo V né di Cristo.
"Il sacerdote
Vicente di Valverde esce dall'ombra e va incontro a Atahuallpa. Con una mano
alza la Bibbia e con l'altra il crocifisso, come se stesse scongiurando una
tempesta in alto mare, e grida che qui c'è Dio, il vero Dio, e che tutto il
resto è falsità. L'interprete traduce e Atahuallpa ... chiede:
"Chi te l'ha
detto?".
"Lo dice la Bibbia,
il libro sacro".
"Dammela affinché
me lo dica" (2)
Atahuallpa
prende il libro, se lo rigira tra le mani, cerca di aprirlo, ma non ci riesce.
Lo scuote, lo ausculta, ma quello scrigno che dovrebbe contenere la voce sacra
rimane muto. Atahuallpa, già usurpatore e traditore del fratellastro Huáscar,
compie quindi un secondo tradimento, condannando la propria gente. Ignora la
potenza della parola. Non la riconosce. Se avesse intuito che quelle pagine
fatali sono più potenti del centinaio di masnadieri che da anni arrancava in
Perù; se avesse compreso che un singolo libro, commentato, postillato, annotato
e venerato dai bianchi per millenni ha fatto in modo da generare una marea di
perfidie, astuzie, crudeltà, infamie - se Atahuallpa, com'era dovere d'un dio
sovrano, avesse capito tutto questo avrebbe potuto annientare quel manipolo di
butterati gaglioffi in pochi attimi.
La
storia, invece, piegò il corso in modo assieme tragico e farsesco decretando
la morte di centinaia di migliaia di esseri umani.
Atahuallpa
non capisce; è arrogante e stolido. Dialoga da un trono d'oro a baldacchino,
sorretto dalla più alta nobiltà del regno. Forse getta il libro a terra, forse colpisce
la mano di Valverde che cerca, sacrilego, di aprirlo davanti ai suoi occhi.
Pizarro non aspetta altro. È il segno, la profanazione del dio cristiano.
Ordina
l'attacco. Le spade toledane fanno strage dei nobili Inca.
“La lotta per la cattura
di Atahuallpa fu patetica e sanguinosa. Gli spagnoli uccidevano via via i
nobili che reggevano il trono, e altri si sostituivano subito ai caduti,
lasciandosi fare a pezzi senza reagire e badando solo a che il sovrano non
cadesse a terra. A molti vennero mozzate le mani, e tuttavia continuarono a
reggere il peso con le spalle e con la testa. Visto catturare l'inca, i
guerrieri indiani rimasero interdetti, paralizzati. Gli spagnoli ne passarono
centinaia, forse migliaia, a fil di spada, incontrando scarsissima resistenza
...”(3)
Cajamarca 1533. L'Inca
è prigioniero nel proprio regno. Condannato a morte, insiste nel tradimento,
sino all'abiezione:
“Quando il suo palazzo
si tramutò nel suo carcere, non volle crederci. Atahuallpa, prigioniero di
Pizarro, disse: "Sono il più grande di tutti i principi della terra
...".
Seduto sul trono di
Atahuallpa, Pizarro gli annunciò che aveva deciso di confermare la sua sentenza
di morte. Atahuallpa rispose: "Non ti burlare di me".
Non ci vuole credere
nemmeno ora, mentre sale passo passo la gradinata, trascinando catene, nella
luce lattiginosa dell'alba ...
A Quito piangeranno la
morte dell'ombra che protegge: perplessi, smarriti, negata la memoria, soli ...
Prima che l'arganello di
ferro gli spezzi la nuca, piange, bacia la croce e accetta di farsi battezzare
con un altro nome. Dicendo di chiamarsi Francisco, che è il nome di colui che
lo ha vinto, bussa alla porta del paradiso degli europei, dove non c'è un posto
riservato per lui”(4)
Cadono
le città: Cajamarca, Quito, Cuzco.
“Tra le pietre di Cuzco
annerite dall'incendio, i vecchi e i paralitici attendono, muti, i giorni a
venire”(5)
Quito
1579. I giorni a venire perfezionano il tradimento. Vi è una rivolta di indios
quijos. Beto e Guami, profeti, capeggiano l'insurrezione. Il figlio di
Atahuallpa, Francisco, che ha scelto il proprio nome in onore dell'assassino
del padre e del proprio popolo, la reprime nel sangue. Cattura i profeti e li
espone alla derisione cruenta dell'umiliazione:
“Li fanno girare su un
carro per le strade di Quito, li tormentano con tenaglie roventi, li impiccano,
li squartano e mostrano i loro pezzi. Dal palco d'onore il capitano Francisco
Atahuallpa assiste alla cerimonia” (6)
1608
Cordoba. Il poeta meticcio Inca Garcilaso de la Vega, nato dall'unione del
conquistador Sebastián Garcilaso de la Vega Vargas e di Chimpu Ocllo
(battezzata Isabel Suárez), figlia d'una cugina di Atahuallpa, consegna alla
storia letteraria le sue ultime opere:
“A settant'anni si china
sul tavolo, intinge la penna nel calamaio di corno e scrive in tono di
discolpa.
È uomo di prosa
minuziosa e garbata. Elogia l'invasore nella lingua dell'invasore, che ha fatto
sua. Con una mano saluta la conquista come opera della Divina Provvidenza: i
conquistatori, braccia di Dio, hanno evangelizzato il nuovo mondo e la tragedia
ha pagato il prezzo della salvezza. Con l'altra mano dice addio al regno degli
Incas, prima distrutto che conosciuto, e lo evoca con nostalgie da paradiso.
Una mano appartiene a suo padre, capitano di Pizarro. L'altra è di sua madre,
cugina di Atahuallpa, che quel capitano oltraggiò e gettò tra le braccia di un
soldato.
Come l'America, l'Inca
Garcilaso è nato da una violenza. Come l'America, vive lacerato.
Anche se è da mezzo
secolo che vive in Europa, sente ancora, come fossero recenti, le voci dell'infanzia
a Cuzco, cose ricevute con il latte e con le fasce: venne al mondo in quella
città diroccata, otto anni dopo l'entrata degli spagnoli, e in quella città
bevve, dalle labbra di sua madre, le storie che vengono dal giorno lontano
in cui il sole lasciò cadere, sul lago
Titicaca, il principe e la principessa nati dai suoi amori con la luna” (7)
Garcilaso
scrive nella lingua elegante dei carnefici; venera i monarchi spagnoli, deità
ulteriori e ben più potenti di quelle dei propri padri. Cos'è stata la
conquista se non un semplice cambio di sovranità alla luce della vera fede?
Ma
la vecchiaia incalza, il rimorso si accentua; non più domato dall'imperio della
ragione il tumulto del sangue antico reclama la propria verità. Ma è tardi. Il terzo tradimento è consumato.
Roma,
2014. Scrivo con un ipad, tecnica Apple. Più tardi, spedirò, per posta, tin.it,
il testo presso un computer fisso, Microsoft, per le correzioni. Poi lo
pubblicherò su blogger, piattaforma online posseduta dai padroni di youtube e
google; da qui lo rilancerò su facebook e twitter. È il breve testo che state
leggendo e che qualcuno di voi, cento, forse duecento, scorrerà nei prossimi
giorni. Quindi una persona o due, sempre i soliti, mi spediranno un messaggio
d'approvazione, con cellulare Samsung Vodaphone: e io, benigno, li riceverò con
il mio Nokia Tim.
Il
testo che leggete è apparentemente in italiano. In realtà è scritto nel gotico
internazionale dei conquistadores. Io scrivo pensieri Inca, che il sangue
ancora vivifica, ma la prosa, e il concetto che la doma, appartiene agli
spagnoli del nostro tempo. Di fatto sono un traditore. Pensare secondo il
volere dei barbari rende barbari; o inoffensivi. E patetici. Volete fare la
rivoluzione via sms? Impossibile. La lingua è il pensiero. Se non ci
appartiene, siamo noi che apparteniamo agli altri. Gli Incas lo sapevano bene:
“Appare un altro idioma
... decade la nostra lingua patria …”
“Avrai perduto, uomo, la
tua sapienza profonda, la tua scrittura …”
“La tua storia, senza la
tua lingua, sarà come immondizie raccolta …”
“I barbuti uomini
bianchi saranno i padroni anche della tua lingua?”(8)
E
che dobbiamo fare? Sperare che il nemico lentamente capitoli o si uccida l'un
l'altro. Non abbiamo certo la forza di Pizarro che piegò alla propria volontà
di potenza imperiale un testo straniero, la Bibbia, rabberciato da pastori
ebrei che avevano orecchiato leggende e costumi più antichi (egiziani,
babilonesi, caldei); e non abbiamo neanche la forza di Ercole che vestiva della
pelle del leone di Nemea, da lui abbattuto.
Il
nostro nemico è troppo potente. Ci ha già dissolti; e dissipato la nostra
cultura, i costumi, la storia. I portali barocchi non cadono da soli. Rendersi
conto di una sconfitta così gigantesca è un debole conforto. D'altra parte non
c'è rimedio. L'Italia si appresta a diventare, con propria gioia, una nota a
pie’ di pagina dei nuovi mercenari spagnoli. Certo, rimane la possibilità di farsi
ascari o kapo, cosa di cui la maggioranza si compiace, fessa o criminale com'è.
Poveri
italiani, rinchiusi nelle riserve, ubriachi, rincretiniti, costretti a una
lingua che gli fa pensare cose impensabili sino a qualche decennio fa; poveri
babbei italiani, marci, corrotti, spaesati; che si coprono le orecchie non
sapendo da dove arriverà il prossimo colpo. Ignoranti. E, sì, traditori.
Ci
faranno aprire un casinò come i Navajos dell'Arizona? Il gioco d'azzardo va
forte. Ci avete mai pensato? Lotterie, riffe, bet win, bingo, gratta e vinci:
una babilonia del rischio. D'altronde non è ciò che facciamo di continuo?
Giocare per passare il tempo? Giocare col pc, gli emoticon, le telefonate, la
televisione, le email - interconnessioni del nulla.
Nichilismo
ludico.
Non
ch'io sia migliore. Quanto mi rimane da campare se va tutto bene? Vent'anni?
Morte le passioni, spezzati e interrati gli dei come le statue di Ozymandias,
mi trastullerò quattro lustri divagando, giochicchiando, sopravvivendo, fra un
cappuccino e l'altro, come voi.
Ho
misurato la mia vita con cucchiaini da caffè, diceva il poeta.
Come
fece Takeshi Kitano, yakuza in disarmo, nel film Sonatine: tradito dal proprio boss, insidiato dai killer della gang
nemica, si ritira sulla spiaggia di Okinawa assieme a una manciata di compagni, che viene
lentamente decimata; e come passa le giornate? Fra scherzi, goliardate,
karaoke, amori impossibili. Al suo aiutante, seriosissimo, che gli ricorda i
doveri e le attitudini di un capo replica con un inevitabile e sconcertante:
che posso fare? Certo, alla fine si prende una vendetta sanguinosa, ma la
vendetta, in tal caso, è una variante orgogliosa, proterva e desueta del
suicidio. Cioè della sconfitta.
A
fine lettura mettete un like, grazie.
(1)
Inca (figlio del sole) è titolo onorifico dei sovrani, prima che sostantivo e
aggettivo riferiti al popolo
(2)
Eduardo Galeano, Memoria del fuoco,
I, Le origini, Rizzoli, 1997
(3)
Francesco Saba Sardi, introduzione a Inca Garcilaso de la Vega, Commentarii
reali degli Incas, Rusconi, 1982
(4)
Eduardo Galeano, cit.
(5)
Eduardo Galeano, cit.
(6)
Eduardo Galeano, cit.
(7)
Eduardo Galeano, cit.
(8) Sebastián Salazar Bondy-Alejandro Romualdo-Gianni
Toti, Poesie e canti degli Incas quechua,
Fahrenheit 451, 1995
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