Lorenzo Carlo
La sera stava calando rapidamente, grigia e malinconica, quasi che l’atmosfera del cimitero avesse scavalcato il muro di recinzione, permeando anche i banchi dei fiori e i pochi passanti stanchi.
Cesira veniva avanti piano, con passi lenti e strascicati. Arrivata al suo banco dei fiori si rivolse alla figlia Valentina, una graziosa adolescente dalla figura efebica e dalla vistosa chioma rosso-Tiziano:
“Eccomi, Roscè. Ci ho messo un po’ perché da Lidl c’era una fila incredibile. E poi parlano sempre di crisi. Tieni questi sono i sacchetti di nonna: vaglieli a portare sennò quella non cena. Ah, e portale pure ‘sti quattro crisantemi che tanto ormai non se li compra più nessuno e domani sono da buttare”
La ragazzina non rispose nemmeno. Si alzò di scatto, prese i sacchetti e i fiori, scosse i lunghi capelli e si avviò senza neppure salutare.
“E non fare come al solito, che ti fai aspettare ore per cenare: lo sai com’è tuo padre! Vai e torni, d’accordo?”
La Roscetta neppure stavolta rispose. Scosse di nuovo i capelli e voltò l’angolo. Finalmente! Una delle cose che odiava di più, in questa vita di merda, era proprio passare il pomeriggio al banco dei fiori a rimpiazzare sua madre. E poi per quattro vecchiette che compravano due crisantemi ciascuna e contrattavano pure sul prezzo…
Ma adesso, finalmente, c’era l’ora sua! Arrivò rapidamente vicino a un gruppo di casermoni, le case popolari dei ferrovieri, e sotto le finestre del secondo caseggiato emise il suo fischio alla pecorara. Subito si aprì una finestra al secondo piano, un moretto si affacciò e disse “Arrivo!”.
In un paio di minuti uscì dal portone, si avvicinò a Valentina, la guardò con venerazione e disse. “Ciao, Roscè!” poi le prese dalle mani i sacchetti ed i fiori.
“Ciao, Ciriola. Andiamo”
I due si avviarono a passi rapidi verso il parco, oddio…”parco”, diciamo la discarica con vaste zone di alberi fitti.
Cesira veniva avanti piano, con passi lenti e strascicati. Arrivata al suo banco dei fiori si rivolse alla figlia Valentina, una graziosa adolescente dalla figura efebica e dalla vistosa chioma rosso-Tiziano:
“Eccomi, Roscè. Ci ho messo un po’ perché da Lidl c’era una fila incredibile. E poi parlano sempre di crisi. Tieni questi sono i sacchetti di nonna: vaglieli a portare sennò quella non cena. Ah, e portale pure ‘sti quattro crisantemi che tanto ormai non se li compra più nessuno e domani sono da buttare”
La ragazzina non rispose nemmeno. Si alzò di scatto, prese i sacchetti e i fiori, scosse i lunghi capelli e si avviò senza neppure salutare.
“E non fare come al solito, che ti fai aspettare ore per cenare: lo sai com’è tuo padre! Vai e torni, d’accordo?”
La Roscetta neppure stavolta rispose. Scosse di nuovo i capelli e voltò l’angolo. Finalmente! Una delle cose che odiava di più, in questa vita di merda, era proprio passare il pomeriggio al banco dei fiori a rimpiazzare sua madre. E poi per quattro vecchiette che compravano due crisantemi ciascuna e contrattavano pure sul prezzo…
Ma adesso, finalmente, c’era l’ora sua! Arrivò rapidamente vicino a un gruppo di casermoni, le case popolari dei ferrovieri, e sotto le finestre del secondo caseggiato emise il suo fischio alla pecorara. Subito si aprì una finestra al secondo piano, un moretto si affacciò e disse “Arrivo!”.
In un paio di minuti uscì dal portone, si avvicinò a Valentina, la guardò con venerazione e disse. “Ciao, Roscè!” poi le prese dalle mani i sacchetti ed i fiori.
“Ciao, Ciriola. Andiamo”
I due si avviarono a passi rapidi verso il parco, oddio…”parco”, diciamo la discarica con vaste zone di alberi fitti.
“Mi sa che i telefonini ce li siamo già fatti tutti. Qua s’è sparsa la voce e non passa più nessuno: ci hanno tutti paura della banda nostra!”
“A Ciriò, primo se fosse una banda sarebbe mia e non nostra; secondo siamo due e mi pare esagerato chiamarla banda, no? Comunque stasera neanche mi andava. Facciamo uno strappo fino da mia nonna, le lasciamo i sacchetti e i fiori e poi ce ne torniamo, dai!”
All’uscita del “parco” imboccarono canticchiando un sentiero fra i prati brulli e ricoperti di cartacce. In lontananza si vedeva una lucetta.
“Eppure qualcosa dobbiamo fare, Ciriò! Fatti venire un’idea, per una volta.”
“Che ne dici di cercare un po’ di bottiglie e di spaccarle a sassate?”
“A Ciriò, ma ancora ce speri di riuscire a battermi?”
Intanto, arrivati ad un precario cancelletto, lo aprirono ed entrarono in una recinzione al centro della quale ora si intravvedeva una fatiscente casupola. A destra del sentiero, nel buio ormai profondo, si scorgevano a malapena alcune macchie bianche.
“Ecco le pecore di mia nonna” disse Valentina indicando le macchie bianche. “Andiamo a vedere dove stà Geiar”.
“A Roscè, mi ridici perché tua nonna gli ha dato sto nome strano al cane?”
“Ma che ne so! Dice mia madre che era uno della televisione che piaceva un sacco a mia nonna. Eccolo! E te pareva: dorme! Quello ormai ci avrà cent’anni e non fa altro che dormire. E mia nonna dice che fa la guardia alle pecore. Ma sono le pecore che fanno la guardia a lui! A Ciriò… sai che facciamo? E’ Geiar che mò svegliamo a serciate!”
Detto fatto Valentina si chinò a raccogliere due o tre sassi e ne tirò uno verso la sagoma accucciata di un vecchio cane-lupo che ora si scorgeva abbastanza chiaramente. Un guaito disperato fece capire che già il primo sasso aveva centrato il bersaglio. Il cane neppure riuscì ad alzarsi sulle zampe, rimase accucciato ululando il suo dolore e dal ventre cominciò a colare del sangue.
Valentina a questo punto cambiò faccia: si spaventò e forse si pentì pure, un pochetto. Ma, decisa come sempre, corse subito verso la casa della nonna, spalancò la porta senza neppure annunciarsi e gridò: “A nonna, a Geiar gli esce del sangue dalla pancia!” e solo allora si accorse che insieme alla nonna c’era quel vecchio dottore che ogni tanto veniva a controllare le pecore. E proprio lui fu il primo a reagire: posò sul tavolino il bicchierino di amaro Lucano che la nonna gli aveva offerto ed uscì di corsa portandosi dietro, come sempre, la sua rotonda e malridotta borsa di cuoio.
Raggiunse il cane, accese una sua pila e gli illuminò il ventre, estrasse garze e strani attrezzi dalla borsa insieme ad una bottiglietta, fece una iniezione al cane, aspettò qualche minuto e poi cominciò a ricucirgli la ferita, Poi gli fasciò il ventre, lo prese fra le braccia e si avviò all’interno della casetta, seguito dalla nonna e dai due ragazzi che avevano seguito tutta l’operazione nel più assoluto silenzio.
Una volta entrati il veterinario si guardò intorno alla ricerca di uno spazio libero e possibilmente confortevole ma presto si arrese all’evidenza.
“Filomena, dove lo metto il cane?”
“Ma mettilo sul letto mio, pòra creatura!”
E così il dottore adagiò delicatamente il cane ancora addormentato sulla vecchia trapunta che ricopriva il letto della nonna.
Valentina fu la prima ad avvicinarsi e fissò il cane con curiosità. Il rimorso, semmai c’era stato, sembrava già sparito.
“A nonna, ma hai visto che orecchie grandi che ci ha? Io là fuori, col fatto che dorme sempre, non me n’ero mai accorta.”
La nonna neanche le rispose. “Nando, vai a buttare quei fiori dietro casa che quelli sono i fiori dei morti. E poi ritorna che ti faccio un panino con la frittata di cicoria”.
Il Ciriola ubbidì prontamente e al suo ritorno trovò già tutti intorno al tavolino che tagliavano in quattro una spessa frittata ripiena di verdura: ognuno ci riempì una rosetta e cominciarono a mangiare con piacere.
bella fiaba pasoliniana, lettura sconsigliata ai minori di anni diciotto, raccomandata a chi ama i propri figli, i nonni e gli animali...
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