sabato 25 ottobre 2014

La poesia della domenica - Andrew Marvell, Alla sua amante ritrosa

Jean Marc Nattier, Gli amanti
Il secentesco Andrew Marvell viene ascritto (assieme al caposcuola John Donne, a Richard Crashaw e Henry Vaughan), nella corrente dei cosiddetti poeti metafisici. Il tratto comune di tale scuola - tratto piuttosto incerto, a dir la verità - è da rintracciarsi in una particolare tecnica espressiva, per cui il sentimento, e massimamente il sentimento d'amore, viene declinato, piuttosto che con diretta spontaneità, tramite la mediazione di immagini, simboli e correlativi, lambiccati, a volte, sino alla freddezza e all'astrusità - una preziosità concettuale in consonanza, tuttavia, oltre che col magistero di Shakespeare, con gran parte del Seicento poetico europeo.
Al di là di tali questioni, è facile rilevare come la poesia di Marvell si inscriva, con palese naturalezza, nel solco del carpe diem occidentale. Essa riecheggia, infatti, la classicità latina (Orazio, ovviamente, e l'immortale Catullo di Amemus, mea Lesbia: "I soli possono tramontare e tornare/noi una volta che è tramontata la breve luce/dobbiamo dormire una sola eterna notte") nonché il memento mori medioevale e la vanitas barocca.
Il poeta esorta l'amante: se fossimo eterni, mia cara, potremmo indugiare su questa terra in giochi d'amore lenti e dolcissimi, per sempre, sino al giorno del giudizio, ma il tempo divoratore incalza, la bellezza svanisce, non essere ritrosa, godiamo insieme questo breve tempo, godiamo più che possiamo.
Un tema antichissimo, forse l'unico che possa rendere la poesia sicuramente immortale; esso non cessa di stancarci, e nuovamente e continuamente ci commuove, poiché parla di Amore e Morte, le sole pulsioni dell'uomo - quegli istinti potenti e congeniti che rendon ragione, nelle loro infinite permutazioni e variazioni, dell'apparente molteplicità dell'esistenza. 


Avessimo abbastanza Mondo e Tempo,
Non sarebbe un delitto, Signora, la vostra ritrosia.
Penseremmo seduti a quale strada prendere,
A come trascorrere il nostro lungo giorno d’Amore.
Voi sulla riva del Gange trovereste rubini: io presso
L’onda del fiume Humber mi lamenterei.
Vi amerei fino a dieci anni prima del diluvio,
E voi, se vi piacesse, potreste rifiutarmi
Fino alla conversione degli Ebrei.
Il mio amore vegetale avrebbe il tempo
Di crescere più grande di tutti gli imperi
E anche più lento.
Cent’anni se ne andrebbero a lodare
I vostri occhi e a contemplare il vostro volto.
Duecento per adorare uno dei vostri seni
E trentamila almeno per adorare insieme tutto il resto.
Un Evo intero per ciascuna parte, e l’ultimo
Alfine mostrerebbe il vostro cuore.
Perché senza alcun dubbio, Signora,
Questo cerimoniale voi lo meritate, e io non vorrei
Amarvi a minor prezzo.
Ma alle mie spalle odo continuamente
L’alato carro del tempo che si avvicina veloce:
W laggiù da ogni parte, davanti a noi,
Si stendono deserti di vasta eternità.
La vostra bellezza non sarà più ritrovata;
E non si potrà più udire nel vostro sepolcro di marmo
Echeggiare il mio canto: solo i vermi tenteranno
Quella verginità a lungo preservata:
E il vostro strano onore sarà mutato in cenere;
Tutta la mia lussuria trasformata in polvere.
Certo la tomba è un luogo intimo e bello
Ma dubito che qualcuno vi voglia fare all’amore.
Ora, dunque, mentre il colore della giovinezza
Si posa sulla vostra pelle come rugiada del mattino,
Ora mentre l’anima consenziente
Brucia con fiamme importune,
Ora finché possiamo godiamoci il piacere;
Subito come uccelli da preda amorosi
Divoriamo il nostro tempo,
Piuttosto che languire nelle sue lente mascelle.
Tutta la nostra energia, tutta la nostra dolcezza
Cerchiamo di addensarla in una sola sfera:
Gettiamo i nostri piaceri con rude violenza
Oltre i cancelli di ferro della vita.
Così sebbene non si possa obbligare il nostro sole
A fermarsi, possiamo tuttavia obbligarlo a correre.

Traduzione di Roberto Sanesi.

Nessun commento:

Posta un commento