Anticipiamo brevi parti dell'incipit del nuovo romanzo che vede per protagonista il popolare Salvo Montalbano, La tana del coniglio.
Di
una sola cosa aviva cirtizza, lo scanto infinito e terribili.
Correva
e correva a perdifiato, non sapeva manco lui da quanto.
Aviva
passato sterrati, sentieri, pascoli, orti, senza un'ummira d'omo, e campi
deserti e sicchi che non ci crisciva manco un arbolo.
Doveva
assolutaminti arrivari. Dovi, non lo sapiva.
Abbisognava
curriri, e sempre cchiù forte.
Ma
pirchì?
D'un
tratto s'accorse d'una rumorata alle so’ spalli. Era quello che lo scantava? E
cos'era, ‘na truniata luntana, ‘na mareggiata, la voce di dio che annonciava l’apocalissi?
E pirchì curriva accussì malo? A zampettoni, sartannu di continuo?
“E
come perché, Montalbano”, gli fici una voci precisa 'ntifica a quella del
quistori. “Perchè un coniglio sei. Sei sempre scappato. Scappa anche ora! Salvati!”
Ed
era vero! Un cunigghio era, bianco e nero, che curriva verso la so' tana.
….
“Sbrigati
Montalbano, sbrigati che i cani non aspettano!” fici ancora la voci mallitta.
I
cani! Altro che l’apocalissi! Cani da caccia erano, e sulle sue tracce.
“Forza
Montalbano, forza” riprendeva il quistori trattenendo a stento na risateddra
sinistra. E Montalbano zampettava, zampettava ma si vidiva subbito che non era cosa.
Quanto
avrebbe potuto resistere accussì?
Il
primo cani, granne come ‘na montagna, gli si era ormai addosso.
“Aiuto”
gridò Montalbano, ma potiva gridare un cuniglieddro? Al massimo movere il naso
e le orecchie.
“Aiutò”
gridò di nuovo. Madunnuzza, com’era patetico!
“Forza,
Montalbano, forza!” e stavolta alla risateddra se ne aggiunsero altre vasce e
ghignanti.
Infine
vidì la tana. Un buco stretto aperto nella crita del campo. Vicina! Era vicina!
“Forza
Montalbano. Ancora un poco, un poco!”
La
sarvizza, a portata di zampa, un buco dove arripararsi. Ma quanno si stava priparando
all'ultimo balzo sentì, pesante come chiummo, l’ugna del segugio. “Aiuto!” cercò
di squittire ancora il commissario.
“Ah
ah ah” ridiva il quistore, alto come un angilu dell’inferno. "Salvati, Salvo ..."
……
Ed
ecco che la scena cangiava: lui che bubboliava tutto, come il cunigghio pupo del
sugno, al centro della piazza di Vigata, accucciato su du’ pedi darré, co le
mani davanti alla vucca, che piagnucolava: intorno … tutto il paisi: e Fazio, Pasquano,
Lattes, quel fitenti di Arquà, il quistori (granne e vistuto di rosso come un
parrino del diavolo), Augello, Ingrid (la traditrice!) e Livia (putiva mancare
lei?) se la ridivano bella di lui. Pirsino Catarella, Catarella!, allongava i vrazzi
babbiandolo per joco … e lui, il
Montalbano-cunigghio, che faciva? Si giustificava trimante, "Non è vero,
non è vero”, frignava.
……
Si
arrisbigliò di colpo, sudatizzo, malgrado la corrente fridda che arrivava dalla
finestra, aperta di colpo da una ventata umida che trasiva direttamente dal
mare scuro e furibondo.
"Giornata
tinta è" disse, ma lo disse ancora spaisato, prioccupato, quasi che il sugno
malanimo ancora lo tenesse stretto.
Il
vento fini di spalancare i vetri e uno spruzzo gilatizzo finì di arrisbigliarlo
del tutto. Si susì di scatto e chiuse con fracasso le imposte vincenno la forza
del vento. Addrumò tutte le luci della casa come a scacciare lo spirito malo della
notte.
Annò
in cucina, accese il foco sotto la caffettiera, poi si fici una doccia gilata.
S'asciugò e indossò ancora il linzolo bianco che s'era portato appresso. Come
un sinatore dell’antica Roma passò sullunne dal bagno alla cucina. Prese la
caffittiera e si inchì un cicarone intero di caffè e se lo vippì tutto. Poi
fece il bis.
Si
rilassò un poco. Il vento fora s'era squetato. S'addrumò con calma ‘na sicaretta
e cominciò a pinsari.
Ma
quel sugno, alla fine, che viniva a significare? Un cuniglieddro, lui!
Un
eroe non ci teneva a esserlo e non lo era mai stato, ma del piricolo mai aveva
avuto davvero paura, anche quando era stato firito e aviva viduto la morti in
faccia.
"Di
che ti maravigli, Montalbà? Invecchi, chistu è sicuro. E come tutti i vecchi temi
il futuro, le sorprese. E la vicchiaglia, poi! Le malattie, la memoria vacante,
la vista che se ne va. Il pannolone. Non
te lo dice sempre anche Livia, in quel suo interminabile priari da parrino nordista?”
“O
macari è colpa del quintalazzo di sarde a beccafico che m’ha lasciato Adelina
in frigo” tintò di ridersela subito dopo. “Pannolone un corno!”. Ma nun era
cosa. Quarchi cosa lo tormentava nel profunno del cori. Un tarlo che lo rodiva
di dentro.
Il
ciriveddro mallitto lo rimandò alla scena della piazza in cui tutti lo babbiavano
come un pupo e ricominciò a strinciri i denti per l’amarezza e l’ingiustizia
della situazione.
“Ma
che minchia mi sta succedendo stamattina?”
…….
“Nun
e cchiù cosa pi mia, 'sta vita” pensò amaro. Vuliva spegnere la sicaretta, ma il
tilifono squillò improvviso come ‘na tromma del giudizio e gli fici mancare il bersaglio
e centrare il tavulino con la brace cavuda. Montalbano fu preso da una raggia
violenta, improvvisa. S'arzò dalla sedia, ancora col linzolo addosso, cogli
occhi sbarracati come un congiurato fanatico pronto a liberari la ripubblica di
Roma dal tiranno. Prisi la cornetta come un pugnale e, invece d'affondarlo nel
corpo di Cesare, ci urlò dintra. Gli venne una specie di latrato da lupo
mannaro, orribili, come se il gargarozzo non fusse più adatto per fari voci d’omo,
ma solo versi d'armalo furioso.
"Madunnuzza
bedda, che fu" spiò scantata la voce dall'altra parte del filo che nun era
altri che il poviro Catarella.
“Cassaahrrr”
ruggì Montalbano, che vuliva forse significare: “Cosa c'è, con chi ho l’onore
di parlare, di grazia, caro interlocutore”, ma gli venne ancora quel gridari di
gola.
“Dottori,
ah, dottori Augello ... Ah Madonnuzza biniditta ... ah Signuri mio … ‘na vestia
… ‘na tigri firoce ... l'ammaza … ah dottori … accorresse …”.
"Iiiioooooo …"
aggravò la convirsazione Montalbano che, stavolta, voleva forse dire "Son
io, benedett'uomo, null'altri”, ma ormai, per ristare in tema, il dado era
tratto. Dall'altra parte della linea vinivano ora rumorate tirribbili, e voci, ammuttuni,
allarmi, strepiti, richiami, ordini alla sanfasò. Un mutuperio da fine de’
tempi.
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