lunedì 13 gennaio 2014

L'investitore americano: il "making of" di un libro (e per cominciare, le prime righe)

Per il ciclo “Autoritratto di editore” questo pomeriggio alle 18 da Plautilla Marco Federici Solari e Lorenzo Flabbi raccontano la vita della giovane sigla romana L'Orma ripercorrendo l'iter di lavoro del romanzo L'investitore americano di Jan Peter Bremer. Ne proponiamo  qui la pagina iniziale.

 Jan Peter Bremer
La notte prima il litigio era stato violento e la mattina era rimasto a letto come anestetizzato. Non aveva sentito neppure i passi pesanti della moglie che usciva di casa. Probabilmente lo stremava l’afa che durava da settimane. O era stata quella lite a provarlo più di quanto non credesse? Guardò la parete bianca dietro al tavolo. Il diverbio non era poi stato così pesante e in nessun caso quello scontro gli avrebbe impedito di raccogliere le forze e gettarsi a testa bassa nel lavoro.

Annuì e chiuse gli occhi. Col capo risolutamente proteso in avanti, i piedi abbronzati quasi incollati alla tavola, quel giorno avrebbe cavalcato con la penna per le pagine del suo taccuino, facendo surf con azzurri occhi d’acciaio in un vorticare continuo tra cielo e mare.
Guardò nuovamente la parete spoglia. Già il giorno prima alla stessa ora non aveva forse avuto quella stessa immagine davanti agli occhi, una di quelle fotine che suo figlio aveva ritagliato da una rivista per attaccarle con lo scotch sopra il letto? La tavola da surf gialla, il corpo teso e possente, la chioma bionda, crespa di acqua salata.
Abbassò lo sguardo sul taccuino. Ma quel giorno sarebbe stato diverso. Quel giorno gli era già rimbalzata per la testa una frase che doveva assolutamente annotare. Una frase chiara che gli aveva lasciato un’impressione profonda. Ma cosa gli stava ribollendo dentro quando l’aveva pensata? E dove era finita ora quella frase? L’aveva composta lui, con le proprie forze, o l’aveva colta dalla bocca di un altro?
Cominciò a tamburellarsi la fronte con le nocchie a ritmo regolare. Dove aveva incontrato quella frase? Ricapitolò la giornata dall’inizio. La colazione – una banana – l’aveva fatta in poltrona, e poi? Poi si era messo in tasca la palla con cui faceva giocare il suo cane ed era uscito con lui per portarlo a spasso. Come sempre, in quelle calde mattine, aveva lanciato la palla nel fiumiciattolo artificiale che scende per la ripida china del parco. Invece di riportargliela indietro, quella volta il cane era saltato sulla riva di fronte, in mezzo a un gruppo di persone vestite leggere che si erano allontanate spaventate e tutto tranquillo si era scrollato l’acqua di dosso. Poi con uno scatto spavaldo della testa aveva lanciato la palla giù per la discesa e le si era gettato dietro a rotta di collo.
Sentì la rabbia della mattina tornare a infiammargli il viso e guardò sotto la scrivania dove il cane giaceva lungo disteso sulla pancia. Perché non alzava la testa quando lui lo guardava? Non sbatteva neppure le palpebre. Cosa gli era successo? Se l’era chiesto anche al parco. L’aveva dovuto chiamare più volte, e alla fine era stato costretto ad attraversare il fiumiciattolo in un punto in cui si restringeva. Quando se l’era visto ritornare trotterellando, non aveva più la palla.
Si appoggiò allo schienale. A dire il vero non era affatto raro che il cane nascondesse la pallina nel parco o che la lasciasse in giro, come intenzionalmente. Solo che le altre volte la sola domanda «Dov’è la palla?» bastava a sprigionare in lui un’enorme vitalità, e in men che non si dica gli saltava addosso con in bocca il giocattolo ritrovato. Oggi invece, comunque lo interrogasse, con sussurri, sibili, bisbigliando o con voce flautata, il cane sembrava estraniarsi sempre di più, come se non gli si stesse parlando, o meglio, come se avesse perduto ogni entusiasmo. Aveva abbassato la testa e, con un’indifferenza che contraddiceva la sua indole usuale, si era messo a rosicchiare qua e là fili d’erba.
Fece un respiro profondo. Probabilmente era stata proprio quell’indifferenza a spingerlo a cercare la palla con tanta ostinazione. Così si era messo a rovistare in ogni cespuglio nelle vicinanze, e a un certo punto aveva persino cominciato a guardare sotto i sassi. Di tanto in tanto lanciava qualche occhiata a una ragazza con i piedi nudi, finché questa, di punto in bianco, aveva fatto penzolare un sandalo rosso proprio davanti al suo viso chiedendogli se per caso non avesse visto l’altro del paio, per poi, al primo accenno di diniego, rivolgersi subito altrove e riprendere la propria ricerca.
Abbassò lo sguardo sul taccuino. In una situazione del genere una persona con un minimo di decenza gli avrebbe chiesto cosa stesse cercando a sua volta, magari domandando se potesse essergli d’aiuto. Un simile pensiero non era passato neanche per l’anticamera del cervello della ragazza. E come se non bastasse, la sua ricerca difettava di ogni serietà, e anzi passeggiava su e giù distratta e civettuola. Tanto per cominciare, come si poteva perdere una scarpa? e lui, dal canto suo, come avrebbe reagito se fosse capitato a uno dei suoi figli? Dopo essere strisciato fuori da un cespuglio si era di nuovo ritrovato davanti la giovane donna, e lei gli aveva detto che la lezione di quel giorno era che si doveva anche saper rinunciare.
Un brivido gli attraversò il corpo. Per un attimo sedette ritto come una candela finché non distese le spalle in un gesto di rilassamento. Ma no, non era quella la frase che stava cercando.

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