venerdì 18 ottobre 2013

mvl teatro: i rinascimenti della crudeltà


Maria Cristina Reggio
Di fronte a un quiz sul legame tra follia, teatro e crudeltà, a uno spettatore diligentemente informato sulle storie del teatro del secolo passato, si accende immediatamente la lampadina del "caso Artaud", l’attore regista e poeta che urlava, anche nei suoi scritti, la sua insoddisfazione di fronte al teatro sentimental-borghese, reclamando una necessaria immersione nei riti antichi e tribali, vicini, ma soprattutto lontani.   Ma se ieri sera al Teatro Eliseo, dove  Jan Fabre riallestiva The Power of Theatrical Madness, uno spettacolo messo in scena nel 1984, il malcapitato spettatore diligente avesse risposto in questo modo alla sadica interrogazione sarebbe stato immediatamente denudato e percosso fino al pianto.


 Nel cuore degli anni ottanta del Novecento, Jan Fabre, il mago del pastiche postmoderno che mescola arti visive e teatrali, accendeva decine e decine di flebili lampade a goccia sul palcoscenico per proporre un fantasmagorico rinascimento della linea della crudeltà nellʼ immaginario degli spettatori, che avrebbe avuto origine, non nel Novecento artaudiano e surrealista, bensì quasi un secolo prima, con il teatro wagneriano e in particolare con il ciclo de Lʼanello del Nibelungo che andò in scena per la prima volta nel 1876. Il palcoscenico diventa, nelle mani dellʼartista belga, un immenso studio dʼartista neoclassico in cui, come in un ipotetico pantheon, quindici splendidi performer maschi e femmine, a un certo punto completamente nudi e con corpi scultorei che ricordano quelli perfetti degli dei olimpici (alcuni con glutei indimenticabili), alternano libidinosi amplessi a violente punizioni corporali. Spesso gli attori vengono schiaffeggiati quando sbagliano le risposte come poteva capitare allo spettatore diligente.

 Con simili violenze erotiche e coreografie ripetute fino allʼestenuazione (dei performer e degli spettatori (il tutto per la durata di quattro ore e venti) Jan Fabre riscrive  la storia del teatro occidentale moderno in un doppio movimento a ritroso: si tratta infatti del riallestimento  odierno di una produzione andata in scena circa trentʼanni fa e che oggi sembra snocciolare  all’indietro in un solo spettacolo il palinsesto di tante, se non di tutte, le figure presenti da tempo nella performance art, nel  teatro danza, nellʼarte visiva, nelle installazioni.  Se non si fosse stati avvisati dalla locandina che ci sarebbe trovati di fronte a uno spettacolo datato, si sarebbe rimasti sorpresi e al tempo stesso delusi da qualche ingenuità registica, come, per esempio dalle megaproiezoni di immagini di dipinti e incisioni su un gigantesco schermo video (quanti, ormai se ne sono visti, perfino negli spettacoli di prosa più tradizionali, per non parlar degli altri).

Ma bisogna ammettere che il gioco del ritorno del passato ha una strepitosa efficacia e che, in fondo, la tesi avanzata dallʼartista di Anversa avrebbe una sua logica: teatro e arte in occidente, anche negli esempi più gelidi e seriali del contemporaneo, sarebbero ancora tutti immersi in un conflitto non risolto tra romanticismo e classicismo, e in fondo tra dionisiaco e apollineo.  Il postmoderno, visto in questa prospettiva, sarebbe pensabile dunque non come un oltrepassamento della modernità e di conseguenza della storia, ma piuttosto come una forma singolare di rinascita di una tensione che le avanguardie sembravano avere anestetizzato, o semplicemente messo tra parentesi. E per gli spettatori abituati dai media alla spettacolarizzazione del reale-banale, finalmente, si riapre per qualche ora la cortina di un fantastico teatro che mostrare, trasfigurata, la bellezza e la crudeltà di un rinato Parnaso.

Nessun commento:

Posta un commento