Maria Cristina Reggio
Di fronte a un quiz sul legame
tra follia, teatro e crudeltà, a uno spettatore diligentemente informato sulle
storie del teatro del secolo passato, si accende immediatamente la lampadina
del "caso Artaud",
l’attore regista e poeta che urlava, anche nei suoi scritti, la sua
insoddisfazione di fronte al teatro sentimental-borghese, reclamando una necessaria immersione
nei riti antichi e tribali, vicini, ma soprattutto lontani. Ma se ieri sera al Teatro Eliseo, dove Jan Fabre riallestiva The
Power of Theatrical Madness, uno
spettacolo messo in scena nel 1984, il malcapitato spettatore diligente avesse
risposto in questo modo alla sadica interrogazione sarebbe stato immediatamente
denudato e percosso fino al pianto.
Nel cuore degli anni ottanta del Novecento, Jan
Fabre, il mago del pastiche postmoderno che mescola arti visive e teatrali,
accendeva decine e decine di flebili lampade a goccia sul palcoscenico per
proporre un fantasmagorico rinascimento della linea della crudeltà nellʼ
immaginario degli spettatori, che avrebbe avuto origine, non nel Novecento
artaudiano e surrealista, bensì quasi un secolo prima, con il teatro wagneriano
e in particolare con il ciclo de Lʼanello
del Nibelungo che andò in scena per la prima volta nel 1876. Il
palcoscenico diventa, nelle mani dellʼartista belga, un immenso studio dʼartista
neoclassico in cui, come in un ipotetico pantheon, quindici splendidi performer
maschi e femmine, a un certo punto completamente nudi e con corpi scultorei che
ricordano quelli perfetti degli dei olimpici (alcuni con glutei indimenticabili),
alternano libidinosi amplessi a violente punizioni corporali. Spesso gli attori vengono
schiaffeggiati quando sbagliano le risposte come poteva capitare allo
spettatore diligente.
Con simili violenze erotiche e coreografie
ripetute fino allʼestenuazione (dei performer e degli spettatori (il tutto per
la durata di quattro ore e venti) Jan Fabre riscrive la storia del teatro occidentale moderno in
un doppio movimento a ritroso: si tratta infatti del riallestimento odierno di una produzione andata in scena
circa trentʼanni fa e che oggi sembra snocciolare all’indietro in
un solo spettacolo il palinsesto di tante, se non di tutte, le figure presenti da tempo
nella performance art, nel teatro danza,
nellʼarte visiva, nelle installazioni. Se
non si fosse stati avvisati dalla locandina che ci sarebbe trovati di fronte a
uno spettacolo datato, si sarebbe rimasti sorpresi e al tempo stesso delusi da
qualche ingenuità registica, come, per esempio dalle megaproiezoni di immagini
di dipinti e incisioni su un gigantesco schermo video (quanti, ormai se ne sono
visti, perfino negli spettacoli di prosa più tradizionali, per non parlar degli
altri).
Ma bisogna ammettere che il gioco
del ritorno del passato ha una strepitosa efficacia e che, in fondo, la tesi
avanzata dallʼartista di Anversa avrebbe una sua logica: teatro e arte in
occidente, anche negli esempi più gelidi e seriali del contemporaneo, sarebbero
ancora tutti immersi in un conflitto non risolto tra romanticismo e
classicismo, e in fondo tra dionisiaco e apollineo. Il postmoderno, visto in questa prospettiva,
sarebbe pensabile dunque non come un oltrepassamento della modernità e di
conseguenza della storia, ma piuttosto come una forma singolare di rinascita di
una tensione che le avanguardie sembravano avere anestetizzato, o semplicemente
messo tra parentesi. E per gli spettatori abituati dai media alla
spettacolarizzazione del reale-banale, finalmente, si riapre per qualche ora la
cortina di un fantastico teatro che mostrare, trasfigurata, la bellezza e la
crudeltà di un rinato Parnaso.
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