venerdì 11 ottobre 2013

Tre poesie sull'autunno (John Keats, Vincenzo Cardarelli, Mimnermo)

Gustave Courbet, La foresta in autunno

Tre poesie sull’autunno, molto diverse fra loro.
John Keats, Vincenzo Cardarelli, Mimnermo.

John Keats (31 ottobre 1975 - Roma 23 febbraio 1821). La poesia è uno dei vertici della letteratura. Keats annota ogni minimo particolare, parla di nocciola, zucca, non di frutti; di api, pettirossi, agnelli, cavallette, rondini, mai di animali; di salici e viti, non di piante o verzure. Nella lotta fra la lingua dantesca, definita e implacabile, e quella petrarchesca, che si compiace della vaghezza, la poesia inglese ha compiuto la sua scelta. E Keats, che di se affermò: “Non so niente, non ho letto niente”, era, invece, un lettore avido di Alighieri. Scrisse un meraviglioso sonetto, Un sogno. Dopo la lettura dell’episodio di Paolo e Francesca di Dante. E poi, basta leggere quel verso: “Nubi striate fioriscono il giorno che dolcemente muore (While barred clouds bloom the soft-dying day)”: non ricorda, forse il verso di Purgatorio, VIII, 1-6:

Era già l'ora che volge il disio
ai navicanti e 'ntenerisce il core
lo dí c'han detto ai dolci amici addio;
e che lo novo peregrin d'amore
punge, s'e' ode squilla di lontano
che paia il giorno pianger che si more

Dal fiorentino Keats mutua l’atmosfera, dolcissima e crepuscolare, e in più, riesce a raggiungere un’equilibrio miracoloso fra il molle struggimento per il declino della stagione piena e la gioia per la messe di doni che l’autunno ha maturato proprio dall’estate trionfante. All’autunno sembra una poesia italiana o latina; in una lettera a Fanny Keats, il poeta disse: “Vorrei che l'italiano si sostituisse al francese in tutte le scuole del nostro paese, perché quella sì che è una lingua ricca di vera poesia e di fascino …”. Dopo Pablo Neruda, un altro estimatore della nostra povera patria.

Stagione di nebbie e morbida abbondanza,
Tu, intima amica del sole al suo culmine,
Che con lui cospiri per far grevi e benedette d'uva
Le viti appese alle gronde di paglia dei tetti,
Tu che fai piegare sotto le mele gli alberi muscosi del casolare,
E colmi di maturità fino al torsolo ogni frutto;
Tu che gonfi la zucca e arrotondi con un dolce seme
I gusci di nòcciola e ancora fai sbocciare
Fiori tardivi per le api, illudendole
Che i giorni del caldo non finiranno mai
Perché l'estate ha colmato le loro celle viscose:

Chi non ti ha mai vista, immersa nella tua ricchezza?
Può trovarti, a volte, chi ti cerca,
Seduta senza pensieri sull'aia
Coi capelli sollevati dal vaglio del vento,
O sprofondata nel sonno in un solco solo in parte mietuto,
Intontita dalle esalazioni dei papaveri, mentre il tuo falcetto
Risparmia il fascio vicino coi suoi fiori intrecciati.
A volte, come una spigolatrice, tieni ferma
La testa sotto un pesante fardello attraversando un torrente,
O, vicina a un torchio da sidro, con uno sguardo paziente,
Sorvegli per ore lo stillicidio delle ultime gocce.

E i canti di primavera? Dove sono?
Non pensarci, tu, che una tua musica ce l'hai -
Nubi striate fioriscono il giorno che dolcemente muore,
E toccano con rosea tinta le pianure di stoppia:
Allora i moscerini in coro lamentoso, in alto sollevati
Dal vento lieve, o giù lasciati cadere,
Piangono tra i salici del fiume,
E agnelli già adulti belano forte dal baluardo dei colli,
Le cavallette cantano, e con dolci acuti
Il pettirosso zufola dal chiuso del suo giardino:
Si raccolgono le rondini, trillando nei cieli. (1)

Vincenzo Cardarelli (Corneto Tarquinia, 1º maggio 1887 - Roma, 18 giugno 1959). È una piccola poesia, quasi dimessa. Come il suo autore, vissuto sempre in solitudine. Il suo poetare è, al contrario di Keats, di lingua petrarchesca, come nella migliore tradizione letteraria italiana: sfumato e mai precisato. I toni son quelli della rinuncia, di una mestizia senza eroismo.
Petrarca scrisse il De vita solitaria, un elogio della solitudine come occasione per la placida contemplazione della natura e per la riflessione religiosa, ma anche per ribadire il proprio ruolo centrale di umanista. La vita solitaria di Cardarelli, invece, è quella dell'artista novecentesco che ha perso il ruolo centrale di vate, di uno sconfitto che, nella creazione, sceglie una maniera piana, modesta, pacatamente rimembrante; uno stoicismo marginale opposto a un mondo che della poesia ha deciso di fare a meno. L'autunno è qui, insieme, stagione e metafora della vita.

Autunno. Già lo sentimmo venire
nel vento d'agosto,
nelle piogge di settembre
torrenziali e piangenti,
e un brivido percorse la terra
che ora, nuda e triste,
accoglie un sole smarrito.
Ora passa e declina,
in quest'autunno che incede
con lentezza indicibile,
il miglior tempo della nostra vita
e lungamente ci dice addio.

Mimnermo da Smirne (o da Colofone; 650 a. C. circa). Più che in Cardarelli, l’autunno qui è solo intuito; è la chiara allegoria del declino della vita, della vecchiaia. I giovani sono come le foglie della primavera, che godono una breve e intensa stagione, inconsapevoli del destino imposto dagli dei, da Zeus e dalle dee oscure, le Chere. E quando quella fugace gioia è dileguata, forse è preferibile la morte.
Non è ardito pensare che la celeberrima poesia di Ungaretti, Soldati (Si sta/come d’autunno/sugli alberi/le foglie), abbia qui una propria radice ispirativa.

Come le foglie che fa germogliare la stagione di primavera
ricca di fiori, appena cominciano a crescere ai raggi del sole,
noi, simili ad esse, per un tempo brevissimo godiamo
i fiori della giovinezza, né il bene né il male conoscendo
dagli dèi. Oscure sono già vicine le Chere,
l'una avendo il termine della penosa vecchiaia,
l'altra della morte. Breve vita ha il frutto
della giovinezza, come la luce del sole che si irradia sulla terra.
E quando questa stagione è trascorsa,
subito allora è meglio la morte che vivere.
Molti mali giungono nell'animo: a volte, il patrimonio
si consuma, e seguono i dolorosi effetti della povertà;
sente un altro la mancanza di figli,
e con questo rimpianto scende all'Ade sotterra;
un altro ha una malattia che spezza l'animo. Non v'è
un uomo al quale Zeus non dia molti mali. (2)

Consigli di lettura

John Keats, Iperione, odi e sonetti, Sansoni, 1984
Vincenzo Cardarelli, Tutte le opere, Mondadori, 1962
Mimnermo, Come le foglie, in I lirici greci, Einaudi, 1975


(1) Season of mists and mellow fruitfulness,
Close bosom friend of the maturing sun;
Conspiring with him how to load and bless
With fruit the vines that round the thatch-eves run;
To bend with apples the mossed cottage-trees,
And fill all fruit with ripeness to the core;
To swell the gourd and plump the hazel shells
With a sweet kernel; to set budding more,
And still more, later flowers for the bees,
Until they think warm days will never cease,
For summer has o’er-brimmed their clammy cells.

Who has not seen thee oft amid thy store?
Sometimes whoever seeks abroad may find
Thee sitting careless on a granary floor,
Thy hair soft-lifted by the winnowing wind;
Or on a half-reaped furrow sound asleep,
Drows’d with the fume of poppies, while thy hook
Spares the next swath and all its twined flowers:
And sometimes like a gleaner thou dost keep
Steady thy laden head across a brook;
Or by a cyder-press, with patient look,
Thou watchest the last oozings hours by hours.

Where are the songs of spring? Ay, where are they?
Think not of them, thou hast thy music too,-
While barred clouds bloom the soft-dying day,
And touch the stubble palins with rosy hue;
Then in a wailful choir the small gnats mourn
Among the river sallows, born aloft
Or sinking as the light wind lives or dies;
And full-grown lambs loud bleat from hilly bourn;
Hedge-crickets sing; and now with treble soft
The red-breast whistles from a garden-croft;
And gathering swallows twitter in the skies.

(2) ἡμεῖς δ', οἷά τε φύλλα φύει πολυάνθεμος ὥρη
ἔαρος, ὅτ' αἶψ' αὐγῆις αὔξεται ἠελίου,
τοῖς ἴκελοι πήχυιον ἐπὶ χρόνον ἄνθεσιν ἥβης
τερπόμεθα, πρὸς θεῶν εἰδότες οὔτε κακὸν
οὔτ' ἀγαθόν· Κῆρες δὲ παρεστήκασι μέλαιναι,
μὲν ἔχουσα τέλος γήραος ἀργαλέου,
δ' ἑτέρη θανάτοιο· μίνυνθα δὲ γίνεται ἥβης
καρπός, ὅσον τ' ἐπὶ γῆν κίδναται ἠέλιος.
αὐτὰρ ἐπὴν δὴ τοῦτο τέλος παραμείψεται ὥρης,
αὐτίκα δὴ τεθνάναι βέλτιον βίοτος·
πολλὰ γὰρ ἐν θυμῶι κακὰ γίνεται· ἄλλοτε οἶκος
τρυχοῦται, πενίης δ' ἔργ' ὀδυνηρὰ πέλει·
ἄλλος δ' αὖ παίδων ἐπιδεύεται, ὧν τε μάλιστα
ἱμείρων κατὰ γῆς ἔρχεται εἰς Ἀΐδην·
ἄλλος νοῦσον ἔχει θυμοφθόρον· οὐδέ τίς ἐστιν
ἀνθρώπων ὧι Ζεὺς μὴ κακὰ πολλὰ διδοῖ.

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