Marta Ancona
La
prossima volta…..No, non ci sarà una prossima volta.
Me ne
stavo da molti anni accoccolato – come un gatto, d’inverno, su un
termosifone – al quieto tepore di un quasi matrimonio, esito non
del tutto imprevedibile di una passione incandescente, quando…..ma
andiamo per gradi.
Rispondo
al nome di Giorgio, quantunque da me non troppo gradito, per via di
quella piccola libertà consentita a ogni coppia che abbia a che fare
con la nota e vistosa espansione che va sotto il titolo di
“gravidanza”. Tassello nuovo nell’albero genealogico.
Il
cognome, come in genere accade, l’ho ereditato, e di quello non so
chi sia il primo responsabile: Mauzaran. Non saprei quindi con chi
prendermela. Ho fatto ricerche, ma non ne ho trovato tracce. Da una
parte mi sento unico, e nuovo. Dall’altra temo il mio non esistere.
Una strana faccenda.
Sono
architetto, ma non edifico. Ho preferito di gran lunga la disciplina
che valuta la forma nello spazio, e il suo svilupparsi in percorsi
più o meno imprevedibili. L’idea, l’ordine. Il Lògos: In
principio era il Lògos…..
E’
forse un caso che una banale metafora attribuisca al Creatore la
qualifica di Divino Architetto? Ebbene no: L’architetto progetta,
in certo senso, il mondo; trasferisce dal disegno allo spazio un’idea
complessiva, spesso onnicomprensiva, più seducente di un trattato di
filosofia: il Lògos si è fatto carne.
Io ne sto
fuori, non al di sopra; non giudico, guardo; mi incanto e rendo
testimonianza.
Sono
arrivato ai cinquanta con non molti altri traguardi al mio attivo, se
si eccettua un tardivo riconoscimento, in ambito universitario, di
una qualche competenza professionale, acquisita con il solo ausilio
di ben oliati ingranaggi sinaptici su libri, fonti, opere. In attesa
di quest’ultimo ero riuscito a ricavarmi un angolino di lavoro non
del tutto spiacevole in un istituto, di grande prestigio ai miei
occhi fino a quando non vi misi piede. E non fu il mio ingresso a
pregiudicarlo. Vedere le cose dall’interno contribuisce a fare
cadere molte icone.
Mi
riconosco talune piccole manie alle quali peraltro sono affezionato:
costituiscono i soli binari entro i quali accetto di muovermi:
l’alimentazione, l’abbigliamento, l’arredamento della mia casa
devono così passare al mio vaglio. Sono vagamente ossessivo, metto
in ordine personalmente le mie carte, la mia cancelleria, tutti i
miei cassetti. Alimento qualche fobia, ho allergie al lattosio e al
pesce, per ora. Avrò tempo di scoprirne di nuove. Ho orrore della
vecchiaia, delle malattie, della morte. Ma anche la vita, la vita non
scherza. Col suo imprevedibile irrompere e il suo devastante
disordine.
Appartengo
alla generazione c.d. del ’77, quella più cattiva e arrabbiata.
Nel ’68 ero ancora troppo giovane ma avevo fatto in tempo ad
annusarne gli odori, da quello dei lacrimogeni a quello dell’hashish.
Sono odori che restano e marchiano. L’urlo delle sirene, le botte,
i compagni in galera, i morti ammazzati, i suicidi….Dalla borgata
nella quale sono nato e ho trascorso i primi anni dell’adolescenza,
da figlio della piccola borghesia, portavo quella rabbia un po’
impotente dei non del tutto esclusi. Di disordine ne facemmo (e
subimmo) in abbondanza.
Qualche
successo? A tutt’oggi non saprei rispondere: so solo dell’effetto
terapeutico che aveva sul mio sistema nervoso il rifugiarmi in
biblioteca di fronte a Palladio, Antonio da Sangallo, Borromini.
E’
stato giocoforza metter ordine, camminavamo sull’abisso senza
guardare giù. Li ho visti cadere, li ho visti buttarsi. Non era
quello che ci eravamo prefissi. La vita ci aveva preso la mano.
Nessuno sapeva indicare dove avrebbe portato la via che avevamo
intrapreso. Un buon punto interrogativo. Troppi punti interrogativi.
Bastava così.
Mi sono
occorsi molti anni per porre rimedio. Quando infine mi pareva di
esservi riuscito almeno per quanto umanamente possibile – poco –
ecco piombarmi sulla testa (per la verità solo al mio fianco,
lavorativamente parlando) la bomba di cui parlavo all’inizio. Bomba
non rende l’idea. Infatti non si è trattato di qualcosa di
deflagrante, al contrario. Bomba disinnescata, forse, o a
deflagrazione ritardata: Bomba Retard.
Avevo
appena perduto il mio Maestro, e con lui se n’erano andati una
discreta serie di puntelli. Che la cultura fosse rimasta priva di un
uomo di rilievo mi interessava meno, anche se era quello che andavo
raccontando in giro.
Come se
non bastasse, dopo poco avevo dovuto mio malgrado seguire mio padre
fino all’estremo commiato: mi era morto tra le braccia, dopo una
malattia breve (ma non abbastanza) e devastante, che ne aveva
stravolto fisico e mente. Difficilmente riuscirò a dimenticare quel
suo degradarsi di ora in ora, la sua sofferenza.
Ora porto
il suo anello, di zaffiro e diamanti, molto più che un’eredità.
Quell’intimo
confronto con la morte aveva conferito al mio incarnato, già
normalmente pallido, sfumature verdastre. Dicono i testimoni di
allora che i miei occhi si erano ingranditi smisuratamente, che ero
perennemente sudato, di un sudore freddo, malaticcio. Ero triste,
stanco, depresso, e nel contempo isterico, esagitato. Stati d’animo
incompatibili con qualsivoglia tentazione vitalistica. Eppure le
statistiche dicono che, proprio nelle circostanze più traumatiche,
la vita pare prendersi la sua rivincita.
Sofia
Mottaceni fece il suo ingresso nella mia vita quasi in sordina.
Ricordo a stento la prima volta che venne da noi, se non fosse che
subito mi colpì la sua eleganza misurata, e la bellezza, di cui
pareva scusarsi, come di qualcosa della quale proprio non voleva
assumersi la responsabilità.
Capelli
mossi, morbidi, di un tono caldo (Excellence dell’Oréal, Biondo
Scuro Dorato 4,8? No, non credo che siano tinti), pelle appena
ambrata, gambe affusolate ma ben tornite, fianchi piccoli, bacino
stretto, seno discreto (a differenza della maggior parte dei miei
compatrioti aborrisco il seno strabordante, o anche semplicemente
grande, e l’idea di sprofondarvi dentro mi provoca crisi di panico
claustrofobico). Ma niente di tutto ciò pareva a tutta prima
smuovermi, o commuovermi, se non la gratitudine per una presenza
gentile, aggraziata.
Monica
Teofasti se ne stava china per pomeriggi interi sul suo tavolo da
lavoro, chiusa, introversa, timida (? o forse magari altezzosa,
superba, scostante?). Di certo riservata. Alzava un muro di
impenetrabilità, invalicabile. Se non fosse stato per quelle
improvvise note scure della sua voce, inaspettate, per i rari scoppi
di risa a gola aperta, incontrollati, non avrei esitato un istante a
pensare i trovarmi di fronte a una bella statua e null’altro.
Ma quella
voce, e quelle risa! Sopravvenivano colpendomi come un grumo di
nostalgia alla bocca dello stomaco, una sensazione complessa,
alquanto violenta, difficile da descrivere e circoscrivere. Ero
spiazzato. Cominciai ad osservarmi agire.
Pian
piano quella parte di me che si prendeva un inaudito margine di
libertà d’azione capì che proprio gli ambiti, tutto sommato
abbastanza contigui, del nostro (mio e di lei) lavoro, potevano
essere un terreno fertile per una coltura di avvicinamento. Si
mostrava brillante, l’altro me, un conoscitore fine e appassionato,
finché riuscì a divenire un riferimento affidabile, cui chiedere
consigli sulle questioni di maggiore complessità inerenti la mia
disciplina, lasciando tuttavia a lei il campo libero negli argomenti
di sua specifica competenza.
Fatta la
prima breccia, quell’altro cominciò a cavare dal mio bagaglio
tutto il repertorio di ironia che avevo in serbo, con accompagnamento
di quel pizzico di falso cinismo che non guasta mai e che sembra
piacere tanto alle donne: le fa ridere, e accendere.
Con mio
sommo sgomento mi accorgevo che quei due stavano costruendo un legame
di complicità intellettuale sotto il quale c’era ben altro che
cresceva. Un marasma minaccioso che occorreva tenere a bada.
Non so
bene come, ripresi in mano la situazione, tant’è che, senza
doversi confessare, senza dover esternare alcunché delle nostre
emozioni o sentimenti, accadde che riuscissimo entrambi, insieme,
a far rientrare quel marasma sotto il controllo della ragione di
“stato”.
La
complicità che si era stabilita tra di noi (tra quei due) mi
induceva a ritenere che né l’uno né l’altra potesse accettare
di mettere a soqquadro la propria vita solo per vivere una passione
in più.
Ogni
volta che si vedevano, prendevano due bicchieri, le bottiglie di
Martini Dry e di gin che con impudente allegria si erano procurate e
procedevano a comporre il famoso cocktail. Guance arrossate e battute
di spirito per i novelli testimonial delle campagne pubblicitarie già
a base di Sharon Stone e Naomi Campbell, o del bel tenebroso a causa
del quale il modo intero ha potuto apprezzare la gonna più corta mai
vista….
Era il
loro piccolo rito quotidiano, il massimo che potevo consentire.
Ma dopo
circa tre anni successe qualcosa che non fui in grado di avvertire
per tempo e della quale a tutt’oggi non so farmi una ragione: allo
stesso modo in cui era apparsa, Fosca Tea Moniti scomparve, senza
lasciare tracce o spiegazioni, con la levità delle farfalle,
lasciandomi completamente basito.
Rimpianti?
Ma no, non è un termine che si attaglia al mio esistere. A ben
vedere non era successo niente di irreparabile. Quanto
all’imprevedibilità delle emozioni….è vero, avevano fatto
irruzione con una certa sfacciata esuberanza, ma mi pare di potermi
complimentare con me stesso per come sono riuscito a …..governarle?
e tuttavia c’è una cosa che non mi perdono, non avere capito che
la mia amica forse non era esattamente delle mia stessa opinione…..
o esigenza.
Sì, è
un pensiero velenoso. Tutto sommato la cosa si è conclusa, seppure
non per mio merito, nel migliore dei modi. Io non avrei saputo
escogitare una via d’uscita altrettanto definitiva.
E poi,
che cosa posso desiderare di meglio? Sono seduto qui, a piazza
Navona, alla mia destra e alle mie spalle Borromini mi culla tra le
sue severissime sfrenatezze, i suoi lucidissimi deliri.
La
ringrazio di avermi ascoltato, ha avuto molta pazienza, ma la prego,
adesso mi porti il solito!
- Martini
cocktail?
- Certo,
Martini cocktail!
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