sabato 5 ottobre 2013

Martini Cocktail - I racconti di MVL


Marta Ancona
La prossima volta…..No, non ci sarà una prossima volta.
Me ne stavo da molti anni accoccolato – come un gatto, d’inverno, su un termosifone – al quieto tepore di un quasi matrimonio, esito non del tutto imprevedibile di una passione incandescente, quando…..ma andiamo per gradi.
Rispondo al nome di Giorgio, quantunque da me non troppo gradito, per via di quella piccola libertà consentita a ogni coppia che abbia a che fare con la nota e vistosa espansione che va sotto il titolo di “gravidanza”. Tassello nuovo nell’albero genealogico.
Il cognome, come in genere accade, l’ho ereditato, e di quello non so chi sia il primo responsabile: Mauzaran. Non saprei quindi con chi prendermela. Ho fatto ricerche, ma non ne ho trovato tracce. Da una parte mi sento unico, e nuovo. Dall’altra temo il mio non esistere. Una strana faccenda.
Sono architetto, ma non edifico. Ho preferito di gran lunga la disciplina che valuta la forma nello spazio, e il suo svilupparsi in percorsi più o meno imprevedibili. L’idea, l’ordine. Il Lògos: In principio era il Lògos…..
E’ forse un caso che una banale metafora attribuisca al Creatore la qualifica di Divino Architetto? Ebbene no: L’architetto progetta, in certo senso, il mondo; trasferisce dal disegno allo spazio un’idea complessiva, spesso onnicomprensiva, più seducente di un trattato di filosofia: il Lògos si è fatto carne.
Io ne sto fuori, non al di sopra; non giudico, guardo; mi incanto e rendo testimonianza.
Sono arrivato ai cinquanta con non molti altri traguardi al mio attivo, se si eccettua un tardivo riconoscimento, in ambito universitario, di una qualche competenza professionale, acquisita con il solo ausilio di ben oliati ingranaggi sinaptici su libri, fonti, opere. In attesa di quest’ultimo ero riuscito a ricavarmi un angolino di lavoro non del tutto spiacevole in un istituto, di grande prestigio ai miei occhi fino a quando non vi misi piede. E non fu il mio ingresso a pregiudicarlo. Vedere le cose dall’interno contribuisce a fare cadere molte icone.
Mi riconosco talune piccole manie alle quali peraltro sono affezionato: costituiscono i soli binari entro i quali accetto di muovermi: l’alimentazione, l’abbigliamento, l’arredamento della mia casa devono così passare al mio vaglio. Sono vagamente ossessivo, metto in ordine personalmente le mie carte, la mia cancelleria, tutti i miei cassetti. Alimento qualche fobia, ho allergie al lattosio e al pesce, per ora. Avrò tempo di scoprirne di nuove. Ho orrore della vecchiaia, delle malattie, della morte. Ma anche la vita, la vita non scherza. Col suo imprevedibile irrompere e il suo devastante disordine.

Appartengo alla generazione c.d. del ’77, quella più cattiva e arrabbiata. Nel ’68 ero ancora troppo giovane ma avevo fatto in tempo ad annusarne gli odori, da quello dei lacrimogeni a quello dell’hashish. Sono odori che restano e marchiano. L’urlo delle sirene, le botte, i compagni in galera, i morti ammazzati, i suicidi….Dalla borgata nella quale sono nato e ho trascorso i primi anni dell’adolescenza, da figlio della piccola borghesia, portavo quella rabbia un po’ impotente dei non del tutto esclusi. Di disordine ne facemmo (e subimmo) in abbondanza.
Qualche successo? A tutt’oggi non saprei rispondere: so solo dell’effetto terapeutico che aveva sul mio sistema nervoso il rifugiarmi in biblioteca di fronte a Palladio, Antonio da Sangallo, Borromini.
E’ stato giocoforza metter ordine, camminavamo sull’abisso senza guardare giù. Li ho visti cadere, li ho visti buttarsi. Non era quello che ci eravamo prefissi. La vita ci aveva preso la mano. Nessuno sapeva indicare dove avrebbe portato la via che avevamo intrapreso. Un buon punto interrogativo. Troppi punti interrogativi. Bastava così.
Mi sono occorsi molti anni per porre rimedio. Quando infine mi pareva di esservi riuscito almeno per quanto umanamente possibile – poco – ecco piombarmi sulla testa (per la verità solo al mio fianco, lavorativamente parlando) la bomba di cui parlavo all’inizio. Bomba non rende l’idea. Infatti non si è trattato di qualcosa di deflagrante, al contrario. Bomba disinnescata, forse, o a deflagrazione ritardata: Bomba Retard.
Avevo appena perduto il mio Maestro, e con lui se n’erano andati una discreta serie di puntelli. Che la cultura fosse rimasta priva di un uomo di rilievo mi interessava meno, anche se era quello che andavo raccontando in giro.
Come se non bastasse, dopo poco avevo dovuto mio malgrado seguire mio padre fino all’estremo commiato: mi era morto tra le braccia, dopo una malattia breve (ma non abbastanza) e devastante, che ne aveva stravolto fisico e mente. Difficilmente riuscirò a dimenticare quel suo degradarsi di ora in ora, la sua sofferenza.
Ora porto il suo anello, di zaffiro e diamanti, molto più che un’eredità.
Quell’intimo confronto con la morte aveva conferito al mio incarnato, già normalmente pallido, sfumature verdastre. Dicono i testimoni di allora che i miei occhi si erano ingranditi smisuratamente, che ero perennemente sudato, di un sudore freddo, malaticcio. Ero triste, stanco, depresso, e nel contempo isterico, esagitato. Stati d’animo incompatibili con qualsivoglia tentazione vitalistica. Eppure le statistiche dicono che, proprio nelle circostanze più traumatiche, la vita pare prendersi la sua rivincita.
Sofia Mottaceni fece il suo ingresso nella mia vita quasi in sordina. Ricordo a stento la prima volta che venne da noi, se non fosse che subito mi colpì la sua eleganza misurata, e la bellezza, di cui pareva scusarsi, come di qualcosa della quale proprio non voleva assumersi la responsabilità.
Capelli mossi, morbidi, di un tono caldo (Excellence dell’Oréal, Biondo Scuro Dorato 4,8? No, non credo che siano tinti), pelle appena ambrata, gambe affusolate ma ben tornite, fianchi piccoli, bacino stretto, seno discreto (a differenza della maggior parte dei miei compatrioti aborrisco il seno strabordante, o anche semplicemente grande, e l’idea di sprofondarvi dentro mi provoca crisi di panico claustrofobico). Ma niente di tutto ciò pareva a tutta prima smuovermi, o commuovermi, se non la gratitudine per una presenza gentile, aggraziata.
Monica Teofasti se ne stava china per pomeriggi interi sul suo tavolo da lavoro, chiusa, introversa, timida (? o forse magari altezzosa, superba, scostante?). Di certo riservata. Alzava un muro di impenetrabilità, invalicabile. Se non fosse stato per quelle improvvise note scure della sua voce, inaspettate, per i rari scoppi di risa a gola aperta, incontrollati, non avrei esitato un istante a pensare i trovarmi di fronte a una bella statua e null’altro.
Ma quella voce, e quelle risa! Sopravvenivano colpendomi come un grumo di nostalgia alla bocca dello stomaco, una sensazione complessa, alquanto violenta, difficile da descrivere e circoscrivere. Ero spiazzato. Cominciai ad osservarmi agire.
Pian piano quella parte di me che si prendeva un inaudito margine di libertà d’azione capì che proprio gli ambiti, tutto sommato abbastanza contigui, del nostro (mio e di lei) lavoro, potevano essere un terreno fertile per una coltura di avvicinamento. Si mostrava brillante, l’altro me, un conoscitore fine e appassionato, finché riuscì a divenire un riferimento affidabile, cui chiedere consigli sulle questioni di maggiore complessità inerenti la mia disciplina, lasciando tuttavia a lei il campo libero negli argomenti di sua specifica competenza.
Fatta la prima breccia, quell’altro cominciò a cavare dal mio bagaglio tutto il repertorio di ironia che avevo in serbo, con accompagnamento di quel pizzico di falso cinismo che non guasta mai e che sembra piacere tanto alle donne: le fa ridere, e accendere.
Con mio sommo sgomento mi accorgevo che quei due stavano costruendo un legame di complicità intellettuale sotto il quale c’era ben altro che cresceva. Un marasma minaccioso che occorreva tenere a bada.
Non so bene come, ripresi in mano la situazione, tant’è che, senza doversi confessare, senza dover esternare alcunché delle nostre emozioni o sentimenti, accadde che riuscissimo entrambi, insieme, a far rientrare quel marasma sotto il controllo della ragione di “stato”.
La complicità che si era stabilita tra di noi (tra quei due) mi induceva a ritenere che né l’uno né l’altra potesse accettare di mettere a soqquadro la propria vita solo per vivere una passione in più.
Ogni volta che si vedevano, prendevano due bicchieri, le bottiglie di Martini Dry e di gin che con impudente allegria si erano procurate e procedevano a comporre il famoso cocktail. Guance arrossate e battute di spirito per i novelli testimonial delle campagne pubblicitarie già a base di Sharon Stone e Naomi Campbell, o del bel tenebroso a causa del quale il modo intero ha potuto apprezzare la gonna più corta mai vista….
Era il loro piccolo rito quotidiano, il massimo che potevo consentire.
Ma dopo circa tre anni successe qualcosa che non fui in grado di avvertire per tempo e della quale a tutt’oggi non so farmi una ragione: allo stesso modo in cui era apparsa, Fosca Tea Moniti scomparve, senza lasciare tracce o spiegazioni, con la levità delle farfalle, lasciandomi completamente basito.
Rimpianti? Ma no, non è un termine che si attaglia al mio esistere. A ben vedere non era successo niente di irreparabile. Quanto all’imprevedibilità delle emozioni….è vero, avevano fatto irruzione con una certa sfacciata esuberanza, ma mi pare di potermi complimentare con me stesso per come sono riuscito a …..governarle? e tuttavia c’è una cosa che non mi perdono, non avere capito che la mia amica forse non era esattamente delle mia stessa opinione….. o esigenza.
Sì, è un pensiero velenoso. Tutto sommato la cosa si è conclusa, seppure non per mio merito, nel migliore dei modi. Io non avrei saputo escogitare una via d’uscita altrettanto definitiva.
E poi, che cosa posso desiderare di meglio? Sono seduto qui, a piazza Navona, alla mia destra e alle mie spalle Borromini mi culla tra le sue severissime sfrenatezze, i suoi lucidissimi deliri.
La ringrazio di avermi ascoltato, ha avuto molta pazienza, ma la prego, adesso mi porti il solito!
- Martini cocktail?
- Certo, Martini cocktail!

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