Balthus, Il gatto nel Mediterraneo |
Prima o poi qualcuno si deciderà a raccontare
la storia della letteratura moderna come storia di una sconfitta. Una
capitolazione progressiva che vede l'artista sempre più emarginato dal ritmo
pulsante dei secoli, dagli onori, dai monumenti più duraturi del bronzo, dalle
acclamazioni dei re o dei signori, dal ruolo di creatori dello spirito dei
popoli.
A quando data l'inizio di questa parabola implacabile?
A quando data l'inizio di questa parabola implacabile?
In un post che parlava di tutt'altro (ma in
realtà parlava anche di questo poiché tutto si collega a tutto) abbiamo
presentato un brano de Il Novellino,
una raccolta duecentesca di brevi apologhi; in esso un giovane interroga due
individui. Ecco il primo:
“Uno, che
aveva il cuore più ardito e la faccia più tranquilla, si fece avanti ...”
Ardito, sereno, sicuro del proprio ruolo
sociale. È un mercante, molto ricco. Si è fatto strada da solo, ci tiene a
precisarlo, non deve nulla a nessuno.
Poi, il secondo:
“Una
persona d’aspetto nobile che aveva una faccia timorosa e stava più indietro che
l’altro. Non così arditamente disse ...”
Questo è un re, ma un re timoroso, uno
sconfitto. Il Novellino parteggia per il re; il Novellino è legato al Medioevo,
alla monarchia feudale, all’elaborazione poetica delle corti, a un mondo
libresco e pre-scientifico, legato ancora a una visione simbolica e fiabesca
della realtà.
Eppure il Novellino registra un cambiamento epocale. Il mercante
(il borghese) avanzano sulla scena della storia: sono i vincitori. Boccaccio e
Chaucer immortaleranno da subito la nuova figura sociale. La letteratura e l’arte
tutta cominciavano ad aprirsi, per la prima volta, a una platea universale,
sempre più ampia, formata dal nuovo ceto. La nascita degli stati nazionali, lo sviluppo della stampa operarono la diffusione democratica dell'arte: la tradizione della
forma e della versificazione, il culto del classico, la celebrazione del
mecenate (re o signore), il piacere iniziatico, riservato ai pochi felici,
compiaciuto nelle metafore allusive e preziose vengono progressivamente
accantonate come rumorosa ferraglia.
Il poeta è ormai artista per tutti,; viene costretto
a scendere dal piedistallo, poi a riciclarsi come secondo attore, quindi a comparsa,
figurante, infine a scomparire nelle seconde e terze file sino all’unica
rilevanza di zimbello.
Dal Settecento la rivoluzione industriale, la
centralità dei commerci, il crescere delle pubblicazioni popolari acuirono il
sentimento di una disfatta certa.
Le anime più sensibili reagirono variamente ad
essa; a volte inconsciamente, altre esplicitamente, spesso in modo confuso,
frontista o vitalistico, secondo gli umori, il coraggio, la chiarezza mentale.
Tutta la letteratura trascolorò,
inevitabilmente, nelle tinte sorprendenti e disperate della decadenza. In fuga
dal grigiore del diluvio democratico. Nell'ambito di tale sterminata serie di sfumature
si possono individuare, con un certo divertimento, i vari capicorrente e i loro
corrispettivi paradisi artificiali entro cui trovare scampo.
Hölderlin, Ruskin, Joyce, Verlaine, Nietzsche,
Laforgue, Pascoli, Gadda, Yeats.
Alcuni si diedero al neoclassico, altri
vagheggiarono i primitivi medioevali; talaltri inseguirono la Cristianità nella
sua virginale e inesistente purezza oppure celebrarono le regioni immacolate
dell'infanzia. Vi fu chi inseguì, con somma coerenza, lo scandalo dell'epater
le bourgeois (i decadenti veri e propri, quelli che si insegnano a scuola) o
chi si compiacque della propria emarginazione con tenuità crepuscolari da
refettorio; chi ricercò esclusivo gli aspetti più malati della realtà in
contrasto con la salute borghese o elesse il linguaggio come ultima roccaforte;
chi si atteggiò a Conan superomista o sciamò verso lande fantasmatiche; chi si
appigliò disperato a ogni nuovo movimento o increspatura del pensiero pur di scardinare
il mostro di metallo del'ordinario: avemmo, quindi, marxisti, freudisti, utopisti,
fascisti, tradizionalisti, strapaesani, scapigliati; o, a scelta, surrealisti,
espressionisti, futuristi, dadaisti. Più tardi: situazionisti, lacaniani,
fluxisti, improvvisatori del piffero, debordiani. Sempre più sfiduciati, però,
sempre più soli, sempre più sfiatati e autoparodici. Si può combattere contro
il gusto estetico di una platea di miliardi di utenti? Possono Gadda, Pasolini
e Pound avere una minima chance contro Gramellini? Ovviamente no. Anche perché il
capitalismo, con istinto liquido, ha inglobato non solo gli integrati, ma pure gli
apocalittici: la Kinsella, Bukowski, David Foster Wallace, Philip Roth militano
sotto la stessa bandiera.
Esagero?
Oggi l'unico eretico è chi non pubblica. Il
cassaintegrato intellettuale, il dis-integrato.
Se pubblicasse darebbe, forse, qualche fastidio? Ne dubito. E comunque non pubblica: ne é impossibilitato. Potrebbe farlo in proprio, per pura testimonianza; o su Internet, ma fra milioni di prosatori all'acqua di rose e poeti della domenica, annegherebbe mestamente.
Se pubblicasse darebbe, forse, qualche fastidio? Ne dubito. E comunque non pubblica: ne é impossibilitato. Potrebbe farlo in proprio, per pura testimonianza; o su Internet, ma fra milioni di prosatori all'acqua di rose e poeti della domenica, annegherebbe mestamente.
Se Baudelaire, nato a Roma nel 1975, postasse su
Facebook l'incipit fatale:
“La Morte consola, la
Morte, ahimè, fa vivere
Lei scopo della vita, lei unica speranza …”
Lei scopo della vita, lei unica speranza …”
si piglierebbe al massimo qualche like; magari
da chi lo confonde con l'autore di Dylan Dog.
L'unica soluzione è camuffarsi. Vivere la vita
come vogliono i massificatori e operare in segreto. Per questo parecchi artisti
del Novecento sono schizoidi. Lavorare in ufficio e poetare nell'ombra provoca disagi
non da poco. Ecco la strada, però: occulta, carbonara, da sabotatori; che è
bene declinare in maniera bifronte, infida, al modo di Torquato Tasso:
“Così a l’egro
fanciul porgiamo aspersi
di soavi licor gli
orli del vaso:
succhi amari
ingannato intanto ei beve,
e da l’inganno suo
vita riceve”
Leonardo da Vinci, Studi gatteschi |
Al fanciullo malato si fa trangugiare l’amara
medicina cospargendo il calice di miele. Ovvero: si fa finta d’essere uno dei
tanti, e, melliflui, si insinua la sedizione. Il veleno disciolto nello spritz
dell’happy hour. Si titola un post sui gatti, ad esempio, e la gente che fa? In
attesa di leggere versi batuffolosi è costretta a sciropparsi il sermone.
I gatti comunque bisogna metterli, poi. Tre
poesie, addirittura.
Di Charles Baudelaire. Baudelaire non è un uomo,
ma una delle più grandi reazioni alla massificazione letteraria mai emersi
nella storia. Un improvviso masso erratico, che costringe, per qualche tempo,
il fiume della medietà a deviare il corso impetuoso.
Baudelaire è un macigno che ha tentato di
arginare il corso dell’ordinario e della distruzione sistematica dell’eccellenza.
Un ostacolo che la storia, poi, si incaricherà di aggirare e disperdere nel
passato.
Baudelaire è uno sconfitto, ovviamente. Un poeta senza patria e signoria. Deraciné.
Di Baudelaire un Pasolini sempre più disgustato
dalla letteratura italiana a lui contemporanea, scrisse:
“Les
fleurs du mal escono nel 1857, e, com'é noto, fanno di colpo invecchiare e
retrocedere a uno stato di marginalità provinciale tutta la letteratura
italiana. Questo stato di inferiorità rispetto alle più importanti letterature
europee, è durato dunque un secolo, e non è ancora veramente finito”
Baudelaire ama i
recessi dell'anima. Le ombre, l'insania, la diversione sessuale, le droghe, i
lupanari, il vino, la donna fatale. Egli canta il chiaroscuro, la periferia, i
cuori languenti, l'angoscia e la dimenticanza.
È un decadente, pieno, eppure privo degli
sfinimenti di Verlaine; a lui appartiene ancora la saldezza del classico; Baudelaire
è uno degli ultimi patrizi che celebrano la grandezza di Roma, il Rutilio
Namaziano che, nel ritorno verso le Gallie, attraversa l’Italia devastata dai
Barbari e celebra la luce dileguante dell’Impero.
Baudelaire è la poesia, il dio Pan che muore. Un
colosso immane che si trascina esangue sulla scena. Un dio allo stremo delle
forze. Tutti possono vederlo ora; si esclama: era questo il dio nascosto che
pregavamo? Questa la nostra speranza? Questo il nostro terrore?
Sì, lui, ora morente ed esposto alla vista e al
dileggio, ma ancora maestoso nelle fattezze dell'agonia. Reclina il capo come
il galata morente, e pochi osano avvicinarlo.
Egli respira appena, ma un sospiro scuote gli
animi delle moltitudini.
Si deciderà infine? Tutti lo guardano aspettando
che l'ultima goccia di vita stilli da quel corpo immane. Finalmente saremo
liberi, grida qualcuno, ma la voce è spaesata come uno sguardo nel vuoto; qualcuno
tace e si torce le mani, in segreta disperazione, perché sente che, d'ora in poi,
un mondo gigantesco si disperde e si sarà più soli. Poi l’annuncio, fatale:
“… non un soffio di vento, non un’onda.
Allora Tamo, sulla poppa, guardò verso terra e gridò: ‘Il grande Pan è morto!’. Non aveva quasi finito di dirlo, che
subito si levò un gran gemito, non di una persona sola, ma di tante, pieno di
stupore”(1)
Ed ecco i gatti. Gatti
metaforici, gatti sfingei, gatti gatteschi.
Traduzioni di Giovanni Raboni
LXVI. I gatti, Le Corsaire, 14 novembre 1847
L'ardente innamorato, il dotto austero
Amano entrambi, nell'età matura,
I gatti dolci e possenti, orgoglio della casa,
Freddolosi e imboscati anche loro.
Amici della scienza e del piacere,
Cercano il silenzio e l'orrore del buio,
Dell'Erebo galoppini ideali se a servire,
Fieri come sono, potessero adattarsi.
S'atteggiano pensosi, nobilmente,
Come le grandi sfingi solitarie
Immerse, sembra, in sogni senza fine;
Feconde le reni, e piene di magiche scintille;
E come sabbia fine minime parti d'oro
Vagamente costellano le mistiche pupille (2)
LXVI. I gatti, Le Corsaire, 14 novembre 1847
L'ardente innamorato, il dotto austero
Amano entrambi, nell'età matura,
I gatti dolci e possenti, orgoglio della casa,
Freddolosi e imboscati anche loro.
Amici della scienza e del piacere,
Cercano il silenzio e l'orrore del buio,
Dell'Erebo galoppini ideali se a servire,
Fieri come sono, potessero adattarsi.
S'atteggiano pensosi, nobilmente,
Come le grandi sfingi solitarie
Immerse, sembra, in sogni senza fine;
Feconde le reni, e piene di magiche scintille;
E come sabbia fine minime parti d'oro
Vagamente costellano le mistiche pupille (2)
XXXIV. Il
gatto, Journal d'Alençon, 8 gennaio 1854
Mio gatto, gatto bello, vieni qui sul mio cuore
D'amante - gli artigli trattieni
E lascia ch'io m'immerga dentro le tue pupille
Dove il metallo all'agata si mischia.
Quando a te senza fretta lisciano le mie dita
La testa e l'elastica schiena
E la mano s'inebria di piacere palpando
Il tuo elettrico corpo
Con la mente rivedo la mia donna. Il suo sguardo
Simile al tuo, animale delizioso,
Freddo e profondo, e un dardo che ferisce e affonda
E dai piedi alla testa un'aria fine,
Un rischioso profumo
Ondeggiano sulle sue membra brune (3)
LI. Il gatto, 1857 1^ edizione de I fiori del male
I
Avanti e indietro va nel mio cervello,
Come se passeggiasse dentro casa,
Un gatto, forte, dolce, da innamorarsi bello.
Quando miagola, lo si sente appena,
Tanto il suo timbro è tenero e discreto;
Ma sia d'ira o di calma la sua voce,
Sempre è ricca e profonda.
Ed è questo il suo incanto, il suo segreto.
La sua voce che stilla, che s'insinua
Del mio essere nel fondo tenebroso,
Mi colma come un verso numeroso
E come un filtro mi dà gioia.
Mette a dormire i mali più crudeli,
Ogni estasi contiene;
Per dire la più lunga delle frasi
Non le servon parole.
Non c'è archetto che morda
Il perfetto strumento del mio cuore
Ne così regalmente
Faccia vibrare la sua corda estrema
Come fa la tua voce, gatto misterioso,
Gatto strano e serafico
E tutto, come un angelo,
Altrettanto sottile che armonioso!
II
La sua pelliccia bionda e bruna
Manda un profumo così dolce
Che ne fui, una sera, per averla
Carezzata una volta, tutto intriso.
Del luogo è il genio: e lui
Che giudica, presiede, ispira,
Nel suo impero, ogni cosa;
Che sia una fata o un dio?
Quando i miei occhi a questo gatto amato
Così docili vanno
Come a una calamita
Ed in me stesso guardo
Vedo con meraviglia
Il fuoco tenue delle sue pupille,
Chiari fanali, opali vive,
Scrutarmi fissamente (4)
Mio gatto, gatto bello, vieni qui sul mio cuore
D'amante - gli artigli trattieni
E lascia ch'io m'immerga dentro le tue pupille
Dove il metallo all'agata si mischia.
Quando a te senza fretta lisciano le mie dita
La testa e l'elastica schiena
E la mano s'inebria di piacere palpando
Il tuo elettrico corpo
Con la mente rivedo la mia donna. Il suo sguardo
Simile al tuo, animale delizioso,
Freddo e profondo, e un dardo che ferisce e affonda
E dai piedi alla testa un'aria fine,
Un rischioso profumo
Ondeggiano sulle sue membra brune (3)
LI. Il gatto, 1857 1^ edizione de I fiori del male
I
Avanti e indietro va nel mio cervello,
Come se passeggiasse dentro casa,
Un gatto, forte, dolce, da innamorarsi bello.
Quando miagola, lo si sente appena,
Tanto il suo timbro è tenero e discreto;
Ma sia d'ira o di calma la sua voce,
Sempre è ricca e profonda.
Ed è questo il suo incanto, il suo segreto.
La sua voce che stilla, che s'insinua
Del mio essere nel fondo tenebroso,
Mi colma come un verso numeroso
E come un filtro mi dà gioia.
Mette a dormire i mali più crudeli,
Ogni estasi contiene;
Per dire la più lunga delle frasi
Non le servon parole.
Non c'è archetto che morda
Il perfetto strumento del mio cuore
Ne così regalmente
Faccia vibrare la sua corda estrema
Come fa la tua voce, gatto misterioso,
Gatto strano e serafico
E tutto, come un angelo,
Altrettanto sottile che armonioso!
II
La sua pelliccia bionda e bruna
Manda un profumo così dolce
Che ne fui, una sera, per averla
Carezzata una volta, tutto intriso.
Del luogo è il genio: e lui
Che giudica, presiede, ispira,
Nel suo impero, ogni cosa;
Che sia una fata o un dio?
Quando i miei occhi a questo gatto amato
Così docili vanno
Come a una calamita
Ed in me stesso guardo
Vedo con meraviglia
Il fuoco tenue delle sue pupille,
Chiari fanali, opali vive,
Scrutarmi fissamente (4)
(1) Plutarco, Il tramonto degli oracoli, in Dialoghi
delfici, Adelphi, 1995 (trad. di M. Cavalli)
(2) Les amoureux fervents et les savants austères
Aiment également, dans leur mûre saison,
Les chats puissants et doux, orgueil de la maison,
Qui comme eux sont frileux et comme eux sédentaires.
Aiment également, dans leur mûre saison,
Les chats puissants et doux, orgueil de la maison,
Qui comme eux sont frileux et comme eux sédentaires.
Amis de la
science et de la volupté
Ils cherchent le silence et l'horreur des ténèbres;
L'Erèbe les eût pris pour ses coursiers funèbres,
S'ils pouvaient au servage incliner leur fierté.
Ils cherchent le silence et l'horreur des ténèbres;
L'Erèbe les eût pris pour ses coursiers funèbres,
S'ils pouvaient au servage incliner leur fierté.
Ils prennent en
songeant les nobles attitudes
Des grands sphinx allongés au fond des solitudes,
Qui semblent s'endormir dans un rêve sans fin;
Des grands sphinx allongés au fond des solitudes,
Qui semblent s'endormir dans un rêve sans fin;
Leurs reins
féconds sont pleins d'étincelles magiques,
Et des parcelles d'or, ainsi qu'un sable fin,
Etoilent vaguement leurs prunelles mystiques.
Et des parcelles d'or, ainsi qu'un sable fin,
Etoilent vaguement leurs prunelles mystiques.
(3) Viens, mon beau chat, sur mon coeur amoureux;
Retiens les griffes de ta patte,
Et laisse-moi plonger dans tes beaux yeux,
Mêlés de métal et d'agate.
Lorsque mes doigts caressent à loisir
Ta tête et ton dos élastique,
Et que ma main s'enivre du plaisir
De palper ton corps électrique,
Je vois ma femme en esprit. Son regard,
Comme le tien, aimable bête
Profond et froid, coupe et fend comme un dard,
Et, des pieds jusques à la tête,
Un air subtil, un dangereux parfum
Nagent autour de son corps brun.
(4)
I
Dans
ma cervelle se promène,
Ainsi qu'en son appartement,
Un beau chat, fort, doux et charmant.
Quand
il miaule, on l'entend à peine,
Tant son timbre est tendre et discret;
Mais
que sa voix s'apaise ou gronde,
Elle est toujours riche et profonde.
C'est là son charme et son secret.
Cette
voix, qui perle et qui filtre
Dans mon fonds le plus ténébreux,
Me remplit comme un vers nombreux
Et me réjouit comme un philtre.
Elle endort les plus cruels maux
Et contient toutes les extases;
Pour dire les plus longues phrases,
Elle n'a pas besoin de mots.
Non,
il n'est pas d'archet qui morde
Sur mon coeur, parfait instrument,
Et fasse plus royalement
Chanter sa plus vibrante corde,
Que ta voix, chat mystérieux,
Chat séraphique, chat étrange,
En qui tout est, comme en un ange,
Aussi subtil qu'harmonieux!
II
De sa fourrure blonde et brune
Sort
un parfum si doux, qu'un soir
J'en fus embaumé, pour l'avoir
Caressée une fois, rien qu'une.
C'est
l'esprit familier du lieu;
Il
juge, il préside, il inspire
Toutes choses dans son empire;
peut-être
est-il fée, est-il dieu?
Quand mes yeux, vers ce chat que j'aime
Tirés
comme par un aimant,
Se retournent docilement
Et que je regarde en moi-même,
Je vois avec étonnement
Le feu de ses prunelles pâles,
Clairs fanaux, vivantes opales
Qui me contemplent fixement.
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