giovedì 17 ottobre 2013

Due o tre cose su Alice Munro, riflessioni tardive intorno al Nobel 2013

Maria Teresa Carbone
Una settimana dopo l'assegnazione del Nobel per la letteratura a Alice Munro, Ladbrokes si è portato avanti: le scommesse per il vincitore dell'anno prossimo sono aperte, chiunque può puntare soldi sul candidato preferito (ci sono anche due italiani, Umberto Eco e Dacia Maraini, qui ribattezzata "Darcia"). Il favorito è l'eterno Murakami Haruki, destinato probabilmente a non assicurarsi il premio neanche questa volta: troppo giovane (anche se ormai, a 64 anni, forse l'età canonica è stata raggiunta) e un po' troppo pop per i gusti degli accademici svedesi. 
Già, i misteriosi gusti degli accademici di Stoccolma: ogni anno le redazioni culturali di tutto il mondo cercano di prepararsi al fatidico secondo (o terzo)  giovedì di ottobre, spulciando la lista dei Nobel più probabili e chiamando a raccolta i loro collaboratori. Spesso il gioco non funziona e ci si trova a dover rintracciare all'ultimo momento qualcuno che possa dire - peggio, scrivere - qualcosa di decente su un autore sconosciuto ai più (caso classico degli ultimi anni, Herta Müller). Ma qualche volta l'elenco dei favoriti contiene il nome giusto, a dimostrazione che i criteri dei giurati del Nobel si muovono secondo binari in parte prevedibili: una giudiziosa alternanza di lingue e di provenienze, una costante attenzione alla solidità della carriera, che va di pari passo con una spiccata diffidenza nei confronti delle sperimentazioni (anche se il Nobel a Beckett nel '69 sta lì a testimoniare che le eccezioni sono consentite), una lodevole flessibilità nei confronti delle varie forme di scrittura, dal teatro alla poesia, al racconto. Come dire che il premio a Alice Munro rientra perfettamente nello schema, con l'aggiunta che per la prima volta l'accademia di Stoccolma assegna il riconoscimento a un/a canadese.
Un elemento in più a favore dell'autrice di Nemico, amico, amante e Il sogno di mia madre, anche se in una interessante intervista realizzata da Sara Sullam per Alfapiù (supplemento online di Alfabeta2), Marisa Caramella, curatrice del Meridiano Munro e estimatrice di lunga data della scrittrice, liquida il "fattore Canada" come irrilevante.
Al di là delle intenzioni dei giurati, è comunque indubbio che questo Nobel vale anche come riconoscimento alla politica culturale di un paese che qualche decina di anni fa era pressoché inesistente sulle mappe letterarie: i corposi sostegni alle case editrici e alle riviste culturali, le borse di studio per scrittori e studiosi, gli incentivi alle traduzioni estere sono stati miracolosi per la moltiplicazione degli autori e per il loro inserimento nel circuito dell'editoria internazionale. E di questo la schiva e anziana Munro deve essere consapevole se, alla notizia del premio, ha rivolto il primo commento ai giovani autori canadesi e allo stimolo che riceveranno dal suo Nobel. 
Le sue vicende editoriali in Italia, del resto, mostrano come il successo di un autore si conquisti lentamente, seguendo percorsi sinuosi. Tra il 1989, anno di uscita della prima traduzione del Percorso dell'amore per Serra e Riva, e il 2013 dei Meridiani (oltre che del Nobel) c'è un quarto di secolo che vede, da parte dei lettori, una crescente attenzione all'opera di Munro, segnata da alcune tappe importanti: il precoce interesse di Laura Lepetit, che a cavallo del millennio pubblica alcune sue raccolte nella Tartaruga; l'incontro con quella che diventerà "la" voce italiana della scrittrice, Susanna Basso, traduttrice o ri-traduttrice per Einaudi di tutti i suoi libri; l'entusiastico sostegno di Jonathan Franzen che nel 2004, fresco del successo delle Correzioni, apre la sua recensione di Runaway (In fuga) sul "New York Times" con queste parole: "Alice Munro può a buon diritto essere considerata il miglior autore di narrativa oggi attivo nel Nordamerica, ma al di fuori del Canada, dove i suoi libri sono bestseller, non ha mai avuto un vasto pubblico". 
Anche se Franzen è tanto più giovane di lei, sono state probabilmente queste parole a risvegliare l'attenzione dei lettori internazionali su Munro che oggi ha ampiamente superato lo stadio descritto con soave perfidia dalla sua collega (e concorrente al Nobel) Margaret Atwood:  "E' il tipo di scrittrice di cui spesso si dice - indipendentemente dalla sua fama - che meriterebbe di essere più conosciuta". Un peana collettivo si è infatti levato all'annuncio del riconoscimento di Stoccolma: "Finalmente un premio alla letteratura" si è azzardato a dire qualcuno, quasi che Mario Vargas Llosa, Tomas Tranströmer o Mo Yan - per citare gli ultimi tre Nobel prima del 2013 - fossero braccia sottratte all'agricoltura. 
Eppure, nulla togliendo alla maestria di Alice Munro nel costruire i suoi racconti come meccanismi perfettamente congegnati ("una maestra della short story contemporanea" è del resto la motivazione del Nobel), forse è il caso di sottrarre la scrittrice canadese alla tardiva agiografia di cui è oggetto. Brava, bravissima, certo, ma caratterizzata da una angustia di orizzonti non solo geografici (l'amata provincia dell'Ontario, dove è nata e vive) e soprattutto da una ripetitività, nella costruzione dei suoi delicati e rifinitissimi congegni, che nei momenti migliori può evocare una sorta di contemporaneo Vermeer della scrittura, ma che rischia spesso di cadere nella maniera. In una delle rare stroncature all'opera di Munro (uscita lo scorso giugno sulla "London Review of Books") Christian Lorentzen nota che questi racconti si leggono meglio uno alla volta, nella loro sede originale, le riviste letterarie come il "New Yorker", "infilati fra un reportage della guerra in Siria e una rilettura di Stefan Zweig, come un interludio rurale fra le atrocità del presente e i capolavori del passato... uno spaccato di triste vita allo sprofondo, filtrato da un occhio illuminato e ambientato 'ai vecchi tempi'". Forse, aggiunge, è la fedeltà di Munro a questo mondo, ad essere così apprezzata dai suoi ammiratori". Lettori fini che impugnano saldamente la lente di ingrandimento per cogliere le minime variazioni dell'autrice o lettori che più semplicemente non amano le sorprese?

5 commenti:

  1. richiamare Vermeer per definire la Munro con una immagine mi pare ottimo espediente di sintesi massima: forse anche Vermeer ha rischiato di cadere nella maniera. Quanto all'angustia dei confini geografici, penso a Giorgio Morandi e al suo essere riuscito a esprimere un mondo infinito dal chiuso forse claustrofobico del suo studio zeppo di nature morte e alle impercettibili variazioni sul tema

    RispondiElimina
  2. un particolare, quello della Munro, che diventa universale, temi permanenti dell'esistenza...
    Sulla ripetitività, poi, direi: pochi autori ne sono immuni, perché la vita dalla quale si attinge è, tutto sommato, breve e le cosa che contano e colpiscono al punto di "voler" essere raccontate sono davvero pochissime. Casomai è il come le si racconta che può variare e non solo stilisticamente...Una domanda: che cosa si intende, qui, per sperimentalismo, anzi per "sorpresa"? Questo tema della sorpresa mi interessa e affascina molto...

    RispondiElimina
  3. "Se il libro che leggiamo non ci sveglia con un pugno sul cranio, a che serve leggerlo?" (Franz Kafka, in una lettera al compagno di studi Oskar Pollak)

    RispondiElimina
    Risposte
    1. Il sogno di mia madre è un racconto forte, a mio avviso. Non è un pugno sul cranio, ma arriva al basso ventre...(io poi non ho letto così tante cose della Munro, quindi..non so). Per dire, eh...

      Elimina
    2. ...tra l'altro, come ha spiegato la traduttrice, proprio quel racconto nella lingua originale spiazza perché usa per metà del tempo il soggetto neutro, che in italiano è impossibile, ma che in inglese rende invece l'ambiguità cercata dalla Murno e il disvelamento del sesso del neonato arriva come una...sorpresa...

      Elimina