domenica 25 maggio 2014

Le note di Leo/ Kempff, pianista romantico

Un appuntamento con la musica, per traghettarci dalla domenica al lunedì.

Leonardo Castellucci* 


Da ragazzino, quando ascoltavo giornalmente musica come un vero 'predestinato' (più tardi mi accorsi che il mio destino, purtroppo, non sarebbe stato quello di fare il musicista di professione) amavo molto il vecchio Kempff (altro link qui, ndr), uno fra i più fascinosi protagonisti del pianismo tedesco anteguerra. Kempff, insieme con Backhaus, era l'epigono di un modo di suonare che si rifaceva al tardo romanticismo tedesco, e che aveva, a mio parere, nel francese Cortot un po' il modello ideale: molta passione, altrettanto sturm und drang, un'autorevolezza e un carisma che non si imparano. 
Lo ricordo in uno dei suoi ultimissimi concerti. Aveva passato gli ottanta anni, era affaticato e un po' dimentico. E infatti, mentre eseguiva una suonata di Beethoven si arrestò per un attimo (eravamo a Firenze, al Teatro della Pergola durante la stagione degli amici della Musica, avevo circa una ventina d'anni). Molti si accorsero di quel momento di difficoltà,sottolineandolo con un rumoroso silenzio. Lui fu bravissimo a rimediare: improvvisò alcune scale cromatiche nella stessa tonalità del pezzo e si riagganciò a un passaggio seguente portando a termine l'esecuzione. Il tenero e indelebile ricordo di un vecchio maestro ormai alla fine della carriera concertistica e della vita.

Oggi, se lo ascolto, lo sento datato, lento, imperfetto, ma sempre molto 'romantico' e intrigante. I grandi pianisti di oggi, nella media, sono macchine impressionanti di tecnica, alcuni gigioneggiano facendo finta di avere anche cuore, ma nel complesso danno risultati che si avvicinano quasi alla perfezione, pur nella loro diversa natura interpretativa, anche se pochi fra loro riescono a 'farsi musica' dimenticando loro stessi, come quasi sempre succedeva al maestro Kempff.

Ho scelto un'ora di buon ascolto. E alla prossima.

J.S.Bach : Fantaisie chromatique et fugue en ré mineur BWV 903

L.van Beethoven : Sonate pour piano n°22 op. 54 en fa majeur 
F.Schubert : Sonate pour piano en fa mineur D625 
F.Schubert : Drei Klavierstücke D946 
F.Schubert : Impromptus D. 899 n°3 et 4

al piano Wilhelm Kempff


*Leonardo Castellucci, fine conoscitore di musica, giornalista, scrittore, oggi direttore editoriale di Cinquesensi Editore.

sabato 24 maggio 2014

L'incipit della domenica - Alberto Moravia, Il ghiottone

Il ghiottone fa parte dei Racconti surrealisti e satirici. È uno scritto minore che si allontana dalle estenuazioni della psicologia romanzesca per riguadagnare la forza dell'allegoria e definirsi quale studio d'un carattere universale, felicemente esagerato nei tratti, e, perciò, universale e riconoscibile a qualsiasi latitudine, temporale e geografica.
Moravia oggi è paradossalmente dimenticato; a volte vilipeso. Parte della produzione, sessantennale, risente, inevitabilmente, delle fiacchezze della maniera; lo sguardo critico non sempre è lucido; i reportage appaiono discutibili, ma la nettezza e la verità della sua prosa migliore costituiscono uno dei vertici della letteratura italiana del Novecento.
Anche qui: basta scorrere le descrizioni debordanti della pescheria e della macelleria ("Quivi, tra i quarti bianchicci e sanguinosi appesi agli uncini di ferro e tenuti bene aperti e separati, con una macabra impudicizia, da robuste canne incrociate, il notaio può  ... farsi spaccare sul ceppo arrossato, con un sol colpo di mannaia, una bella bistecca con l'osso, o involtare nella sonora carta gialla il lobo scuro e lustro di un fegato, oppure farsi pesare sui piatti di ottone della bilancia un grappolo di trippe rugose e giallognole, o meglio ancora, il notaio è grande amatore di lessi, radunare insieme un grasso e irsuto piede di porco, una punta rasposa di lingua, e il lato destro di una testina di vitello con tutto l'orecchio quasi asinino, il tenerume delle cavità orbitali e persino qualche dente); i balletti grotteschi del protagonista nella cucina; gli sdilinquimenti golosi durante il pasto; l'eccezionale natura morta che Moravia compone presentando degli avanzi ("una crosta inseccolita di formaggio, quattro fagioli freddi cagliati nel sugo coagulato, un rimasuglio di insalata russa impiastricciata di maionese, l'avanzo unto e gelato di un pasticcio di maccheroni)". Siamo in presenza di un narratore di rilievo assoluto.
Il ghiottone possiede la forza simbolica di un dipinto primitivo e della migliore letteratura morale e didascalica, Balzac incluso.

Alberto Moravia
Nello studio del notaio gli scartafacci verdi e arancione, posati un pò* dappertutto sulle sedie e sulla tavola, a furia di starsene indisturbati l'uno sull'altro, si sono amalgamati in masse cartacee cementate dalla polvere e dall'abbandono. Da tempo i clienti hanno disertato lo studio, ma il notaio non se ne preoccupa, una piccola rendita gli permette di fare a meno di quei noiosi disturbatori delle sue più intime gioie. È il mattino presto, sulla tavola c'è ancora il vassoio del caffè e latte che sorbì or ora, ritta la testa bianca e rapata dall'enorme naso rubicondo nel colletto all'antica alto e inamidato, il notaio con una mano regge un giornale che ricopre mezzo scrittoio e gli ricade sulle ginocchia e con l'altra va a tentoni in un cassetto aperto a ghermire in una scatola un biscottino croccante che si caccia in bocca e mastica in fretta girando gli occhi attorno come se temesse di essere sorpreso. Piove, una luce bassa e umida entra per la finestra che una tenda a fiorami ricopre, al notaio in mancanza di clienti non resterebbe altro da fare che aspettare l'ora ancora lontana della colazione. E così infatti avveniva quando la sua ghiottoneria era ancora timida e non era passata dal palato a tutta la persona, dalle ore dei pasti alla giornata intera. Ma con gli anni ha trovato il modo, quando non mangia, di occuparsi almeno di quel che mangerà. Eccolo infatti respingere da sé il giornale, levarsi in piedi scuotendo di dosso le briciole dei biscotti e staccare dall'attaccapanni, oltre al cappello e al pastrano, una sporta di quelle che servono alle cuoche per la spesa. Prende la sporta sottobraccio, con una certa rigidità, come se fosse una busta di avvocato, si calca il cappello sul capo ed esce di casa a passettini dignitosi.
Per la strada cammina senza fretta, agitando in fondo all'animo un dubbio, anzi una domanda che lo riempie di dolce ansietà: pesce o carne? Alla cuoca chiacchierona e incompetente il notaio lascia la incombenza di comprare la pasta, il pane, la frutta, lui si incarica del piatto di mezzo e d'ogni eventuale squisitezza. Pesce, dunque, o carne? Ogni mattina questo dubbio ispira al notaio un brivido avventuroso; come se quella carne o quel pesce non dovesse comprarli in una bottega, bensì andarne a caccia o pescarlo con le reti in mezzo al mare. Robinson nella sua isola, incerto se adoperare il tridente o le frecce per procurarsi il cibo, provò di sicuro il medesimo brivido. Ecco la pescheria annunziata dal lezzo di scaglie e di salsedine; il notaio entra, guarda, esamina, i cesti scarsi non contengono che minutaglia azzurra e moscia, sui banchi giacciono pochi cefali, naselli e altri grossi pesci di dubbia freschezza, le bocche aperte e rosse atteggiate ad una specie di smorfia lamentosa. Deve essere mare grosso, pensa il notaio, e scuotendo il capo esce nella strada. Meglio affacciarsi tra i marmi gelati della macelleria.

giovedì 22 maggio 2014

Il Circolo Romano del Cinema ovvero: il passato è passato


[cliccare per allargare]

Rovistando fra le carte d'una donazione libraria ... ecco spuntare i fascicoli (di quattro pagine) del Circolo Romano del Cinema, annata 1949-1950.
La serie si arresta al numero 20. Sono integri i numeri dal 6 al 20: il 5 è incompleto; mancano i primi quattro.
Ogni fascicolo resoconta la visione di un film (francese, russo, italiano, americano) con estratti da critiche, brevi presentazioni, essenziali filmografie.


Ed ecco la sorpresa: in cauda si legge, in nota:
Il Circolo Romano del Cinema è stato fondato da Michelangelo Antonioni, Umberto Barbaro, Alessandro Blasetti, Marcello BolleroMario Camerini, Mario Chiari, Vittorio Cottafavi, Vittorio De Sica, C. Forges Davanzati, Gianni Franciolini, Pietro Germi, Alfredo Guarini, Gerardo Guerrieri, Alberto Lattuada, E. M. Margadonna, Francesco Pasinetti, Antonio Pietrangeli, Carlo Ponti, Gianni Puccini, Roberto Rossellini, Mario Serandrei, Antonello Trombadori, Aldo Vergano, Luchino Visconti, Cesare Zavattini.

Il Consiglio Direttivo del Circolo Romano del Cinema è composta da:
Presidente: Cesare Zavattini
Segretario: Gaetano Carancini
Tesoriere: Vittorio Calvino
Componenti: Umberto Barbaro, Angelo Besozzi, Alessandro Blasetti, Marcello Bollero, Luigi Comencini, Diego Fabbri, Guido Maria Gatti, Alfredo Guarini, Vinicio Marinucci, Gian Luigi Rondi, Mario Serandrei, Antonello Trombadori

Registi, produttori, critici, giornalisti. Fra i primi: Antonioni, Blasetti, Camerini, Cottafavi, De Sica, Germi, Lattuada, Pietrangeli, Rossellini, Vergano, Visconti.
Fra i critici Umberto Barbaro, che dà il nome alla Biblioteca del Cinema sita a Villa Pamphili. 
Ultimamente sono molto restio alla visione del cinema italiano.
Ci sono belle speranze nel cinema italiano, mi dicono. Bei nomi. Nomi di giovani promesse. Nomi affermati. Nomi che vanno a Cannes, a Berlino, a Venezia, a Hollywood. Eppure non mi fanno caldo né freddo questi bei nomi. Chissà perché. Sarà perché quando tentano di varcare le Alpi, questi bei nomi, si perdono nell'indistinto? "Ma se abbiamo appena vinto un Oscar, benedett'uomo!". Vero ... non ci avevo pensato ... allora che devo dirvi, non lo so nemmeno io (glc).

martedì 20 maggio 2014

Tognazzi, Gassman e il linguaggio aderenziale e desemplicizzato


"Scendiamo dunque e confondiamo la loro lingua, perché non comprendano più l'uno la lingua dell'altro. Il Signore li disperse di là su tutta la terra ed essi cessarono di costruire la città. Per questo la si chiamò Babele, perché là il Signore confuse la lingua di tutta la terra e di là il Signore li disperse su tutta la terra".

Bimbistica.
Bene, perfetto. La lingua si smaglia e il male comincia a colare dalle feritoie.
Pochi mesi fa una pubblicità sulla metropolitana:

I primi tre mesi svapi gratis …

Notevole. Ovviamente gli strappi cominciarono ben prima. C’è un film, eccezionale, del 1971, In nome del popolo italiano; regista: Dino Risi; protagonisti: Ugo Tognazzi e Vittorio Gassman. Attori incredibili. Incredibili: nel senso stretto della parola: non possiamo credere, a distanza di quarantatré anni, che fossero così bravi.
Tognazzi è un magistrato moralista e incorruttibile. Gassman un imprenditore amorale e rampante. Il primo sospetta l’altro d’aver ucciso una giovane ragazza con cui aveva una relazione mercenaria e adulterina.
Ecco una scena: tre minuti (incredibili anche questi). Da guardare:


lunedì 19 maggio 2014

Nel Far West di Monteverde

Dal bel volume di Nina Quarenghi Un salotto popolare a Rona. Monteverde 1909-1945 (Franco Angeli 2014) proponiamo una pagina che presenta il quartiere in una luce piuttosto insolita per chi lo ha conosciuto solo negli ultimi anni. Una conversazione con l'autrice si tiene da Plautilla (via Colautti 28-30) martedì 20 maggio alle 17.30.

Nina Quarenghi
Da sempre i movimenti migratori non sono casuali, ma sono il prodotto di fattori espulsivi, caratterizzanti i luoghi di partenza, e di fattori attrattivi, propri delle località di approdo; essi si possono ravvisare anche in questa analisi, essendo la popolazione di Monteverde nella prima metà del Novecento costituita interamente da immigrati. Ognuno di loro certamente lasciò la località di origine per una scelta personalissima, ma intravediamo alcuni motivi comuni: la precarietà economica del primo dopoguerra e la necessità di migliorare le proprie condizioni di vita; la volontà di trovare una via d’uscita alla fame e alla miseria per alcuni e per altri la necessità di continuare gli studi o di esercitare la propria professione in un orizzonte sociale più ampio di quello offerto dalla provincia.
Roma rappresentò, per molti abitanti del Centro, ma anche per i provenienti dal Nord e dal Sud Italia, la meta migliore:

Scelsi questo posto [al Ministero della pubblica istruzione] perché mi dava la garanzia della sede di Roma, e poi Roma ecco ... per la gente del Sud, Roma aveva un grande fascino.

Quella che si venne a costituire fu una società eterogenea per provenienze e professioni, costituita da persone apportatrici di culture, abitudini, stili di vita differenti, ma tutte accumunate da un’aspirazione al miglioramento e dalla volontà di stabilirsi definitivamente in un nuovo territorio. In questo senso Monteverde assomiglia a tutte le “terre di frontiera” colonizzate in breve tempo, nelle quali le diversità originarie tendono a stemperarsi e fondersi nel dare vita a una nuova e originale realtà sociale.

Laboratori Officina poesia/Appunti sul IX incontro + audio




Tema
L'assenza del mago non annulla il sortilegio. 

Incontro con la poesia e la traduzione di Silvia Bre*

           Conduce Sonia Gentili


Il nostro vivere, il nostro morire.
Come si allaccia e intreccia l'arte con la nostra esigenza del mistero dell'esistenza?
The un-answer question
La domanda che non ha risposta
I poeti non fanno altro che scendere tra i morti 
e riportarli alla luce
Poesia: trasmissione di uno svolgimento vocale da una mente all'altra
Meditare sulla traduzione aiuta a capire meglio la poesia: leggiamo il dire di quella voce qiando leggiamo (p.es.) Shakespeare tradotto
C'è qualcosa in ogni opera che sta "in mezzo" alle parole
al di là delle parole. 

(Silvia Bre legge Emily Dickinson tradotta da Silvia Bre. Poi si commenta). 

Emily Dickinson ha esercitato il dialogo dell'assenza, un dialogo attraverso la poesia: ne ha scritte 1758  trovate post-mortem
Come ogni poeta entra in un tempo diverso

"Sfondare" le parole per espropriarle di significato

La poesia è l'esperienza dell'abisso, eccesso, limite

Silvia Bre legge Entierro di Silvia Bre.

 


A conclusione dell'incontro Silvia Bre legge il poema integrale
Sempre perdendosi, scritto per Alfonso Benadduce
che lo ha portato in scena a teatro. 



*Silvia Bre è nata a Bergamo e vive a Roma. Le sue poesie sono apparse a partire dagli anni Ottanta sulle principali riviste letterarie italiane. Ha pubblicato I riposi (Rotundo 1990), Le barricate misteriose (Einaudi 2001; premio Montale), Sempre perdendosi (nottetempo 2006), Marmo (Einaudi 2007; Premio Viareggio). Tra le varie traduzioni poetiche, Il Canzoniere di Louise Labé (classici Mondandori 2000), Centoquattro poesie di Emily Dickinson (Einaudi 2011) e Uno zero più ampio (Einaudi 2013) il poema Il giardino di Vita Sackville-West (Elliot 2013). 

domenica 18 maggio 2014

Le note di Leo/ L'ultimo Ludwig

Un appuntamento con la musica, per traghettarci dalla domenica al lunedì.

Leonardo Castellucci*

Sordo, cirrotico, quasi isolato dal mondo, rinchiuso dentro la sua musica, unica àncora di salvezza a una condizione di forte disagio psico fisico, negli ultimi anni di vita, poco più che cinquantenne, Beethoven sceglie la strada dell'abbandono totale dentro i propri suoni. E sente, non con il senso dell'udito ma con il sesto senso della visione, nuove sonorità, più libere d'esprimere il disagio suo e della condizione umana.
Deluso dalle aspettative sentimentali, ideali, politiche, si ricovera in una inevitabile misantropia che, se da un lato lo rende ormai quasi intrattabile, dall'altro gli fornisce la grande opportunità di varcare la soglia della 'verità' musicale del suo tempo e di intuire un diverso destino per la musica.
Soprattutto negli ultimi quartetti, pur restando il fuoco e l'inconfondibile impronta del suo comporre, vengono introdotte sonorità nuovissime, non in linea con le regole dell'armonia, quasi un'anticipazione della crisi/cambiamento che un secolo dopo la sua morte sarà formalmente rivelato dalle idee dodecafoniche della Scuola di Vienna.  

Ludwig van Beethoven. 
Quartetto per archi n.16 in Fa maggiore, op.135


esegue lo storico QUARTETTO BORODIN


*Leonardo Castellucci, fine conoscitore di musica, giornalista, scrittore, oggi direttore editoriale di Cinquesensi Editore.

L'incipit della domenica - Detti intorno alla natura delle femmine (Proverbia quae dicuntur super natura feminarum)

Sotto il titolo Veneto, 1152-1160, ecco Giampaolo Dossena, nel primo volume della sua Storia confidenziale della letteratura italiana, presentare il poemetto:
“In terra veneta, in terre orientali della Valpadana ... si colloca ... un poemetto di cui ci sono pervenuti 756 versi ... il titolo è latino ... ma il testo ... è in un neo-latino d'Italia ... vale veramente la pena di leggere per intero questo poemetto, per la sua durezza, per la sua violenza. È un testo apertamente misogino, dettato da un odio tradizionale per le donne ... Le donne qui sono viste come una razza diversa dalla nostra, di noi uomini ... La misoginia è una tradizione vecchia e salda; in anni di poco anteriori al 1152-1160 è stato molto diffuso un poemetto intitolato Chastiemusart, ammaestramento dello stolto, altrettanto misogino …”.
Dopo una prolusione generale, l’autore (anonimo) dei Proverbia presenta le donne malvagie della storia: ingannatrici, fedifraghe, false (Eva, Didone, Elena, Medea, Pasifae …); quindi passa ai proverbi veri e propri: qui abbondano le metafore tratte dai bestiari, le sentenze popolari, gli accenni a una religiosità superstiziosa e tradizionale: lo stile del neolatino si gonfia, perciò, di quella forza espressiva plumbea e apodittica propria dell’Italia più profonda, quella della provincia contadina; lo stesso Dossena, ad esempio, rimane colpito dai versi 581-588, e osserva come il succo concettuale di tali righe (“mozzafiato”) l’avesse ritrovato, otto secoli dopo (inverno 1944-1945), nelle parole di un carrettiere:

Fate attenzione alle bestie: non si lasciano coprire
se son gravide, lo potete ben vedere:
anzi se il maschio le vuole comunque montare
lo feriscono a calci e lo mordono e cercano di fuggire
Ma ciò non lo fanno le donne: anche se hanno un bimbo nel ventre,
non hanno affatto cura di Dio né vergogna di niente;
allora vogliono che l’uomo batta di più il loro ventre [nell’amplesso];
nella loro follia pensano che la gente non lo saprà

(Poné ment a le bestie: no se lasa covrire
dapoi q'ele son plene, ben lo podé vedere,
avanti, se lo mascolo la vol unca sagire,
 fer-lo de li pei e mordelo e briga de fuçire.

Mai ço no fai le femene: anc abia fant en ventre,
de Dieu n'à ponto cura ni vergonça nïente;
enlora vol qe l'omo plui li bata lo ventre;
en soa fulia se pensa no lo savrà la çente)

Fra il 1152 e il 1944 passano, come detto, ottocento anni; solo il mondo ciclico delle campagne, irrigidito in gesti millenari, poteva conservare intatto, nella ferocia, tale sentire.
I Proverbia sono, ovviamente, un capolavoro, come la quasi totalità della letteratura italiana delle origini; così come avverrà poi nel Seicento inglese (l’età di Marlowe, Shakespeare, Donne, Webster), a quel tempo nulla era davvero codificato e numerosi fabbri, poeti e prosatori, erano liberi di forgiare la lingua a loro piacimento, senza inciampi formali.
Il passato gigantesco della latinità si disfaceva lentamente; nuovi idiomi, screziati da centinaia di dialetti, insorgevano; la ragione non aveva scacciato ancora la favola e la poesia era, perciò, possibile. L’Italia si preparava a divenire il centro culturale del mondo. [glc]

La traduzione è di G. Bonghi e C. A. Mangieri.
Il testo completo (in neolatino e italiano) può trovarsi qui:

Proverbia quae dicuntur super natura feminarum
Buona gente, cercate di capire perché ho scritto questo libro: l'ho composto in rima per le femmine malvagie, quelle che verso gli uomini non osservano il patto convenuto, (quelle) che ritengono più folle e matto chi più fedelmente le serve.

Sappiate che queste cose non vengono dettate per ogni donna, giacché credo che ve ne siano molte a cui non piacciono queste critiche: le buone si rallegrano di queste rime giuste, e le cattive, quando le odono, restano addolorate e tristi.

Mai da parte di femmina buona, saggia, pura e cortese saranno riprovate queste rime veraci: se le donne per bene le ascoltano, quando le avranno capite loderanno senza dubbio chi le ha composte e scritte.

Varrebbe più una donna senza difetti ed inganni che il tesoro indiano del Prete Gianni: chi potesse trovare una tal femmina ogni giorno dell'anno, anche se la pagasse a peso d'oro fino non ne avrebbe danno.

sabato 17 maggio 2014

Lettura, letteratura, conversazione e altre anticaglie inservibili

G. Luca Chiovelli

Qualche tempo fa scrissi Della letteratura non frega più niente a nessuno; Alessandro Perugia rispose con il suo Conversazione e democrazia.
Ora è ancora una volta il mio turno: cercherò di rispondere e ampliare il discorso.
Questi gli articoli precedenti:

- Della letteratura non frega più niente a nessuno

- Conversazione e democrazia

Se vorrete approfondire ... lunedì 19 maggio, Plautilla (via Colautti 28-30), ore 17.30: primo tè-matico: Ma la lett(erat)ura è morta, o fa solo finta?

Una lettura che non è più lettura

Una volta si diceva: "Ora mi leggo un libro". E si passava all'azione. Si leggeva ancora poesia; il romanzo russo; Robinson Crusoe, Don Chisciotte, il Demetrio Pianelli. Qualche classico scritto in lingue estinte; le sperimentazioni novecentesche: Joyce, Beckett; il teatro: Marlowe, Brecht, Pirandello.
Vi era, in Italia, persino uno spazio di discussione: a volte alto, talora pretenzioso, ma ancora vivo: associazioni, giornali, riviste, accademia.
Ogni lettore aveva tempo. Il discrimine è questo. Si aveva tempo; gli inciampi della vita, ovvio, esistevano: ma limitati entro la ragionevolezza.
Il tempo dell'otium permetteva di affrontare la lettura, quella vera, e di riflettere su di essa. Ogni italiano di buon gusto poteva costituire una riserva di esperienze su cui basare un discorso personale. Una visione della società. Basta leggere la prosa di una qualunque missiva alla redazione d'un periodico degli anni Sessanta-Settanta.
Oggi, paradossalmente, si legge molto di più. Dalla mattina sino a tarda notte il cervello viene sottoposto a un fuoco di fila d'informazione e messaggi; si legge il giornale, la free press, il periodico, il blog, la mail, il cellulare, i titoli televisivi, il post su Feisbuk, le stringhe di 140 caratteri, il volantino, la pubblicità, la relazione aziendale, il cedolino dello stipendio o della pensione, la prosa burocratica, le fatture, le didascalie sotto la foto del cane che bacia il gatto, del gatto che bacia il neonato, del neonato che fa smorfie da neonato, le comunicazioni di servizio.
Si compulsa ininterrottamente. La sera si è sfiniti, prosciugati, dilavati interiormente dalla tensione continua. E nella rete a strascico della lettura quotidiana cosa rimane impigliato? Rifiuti. Rottami d'un discorso incompiuto. Lacerti d'un esperienza che non avrà mai la pienezza dell'unità. E così, giorno dopo giorno, il mondo diviene incomprensibile, perché questi frantumi d'informazione, questi brandelli, non si organizzeranno mai in una visione soddisfacente, unica, totale - che stia salda - e su cui si possa esercitare la meditazione, l'intelligenza, e il continuo arricchimento che deriva dal dialogo e dallo studio. Di conseguenza, ognuno di noi non può che comunicare per frammenti.
Manca il terreno comune ... la lingua e l'esperienza comuni … mancano persino le abitudini che una volta facevano degli italiani un popolo ...
Non facciamo che scambiarci le tessere di mosaici diversi e di cui ignoriamo il disegno originario.
Il mondo, intanto, corre: incompreso. Crescono le nevrosi, le malattie, la schizofrenia.

Tutto è letteratura, quindi niente lo è davvero

Se la lettura non è più tale, ma una parodia d'essa, scompare la letteratura. Petrarca, Ovidio, Saffo, John Donne ... chi li capisce ormai ... ma chi li legge ... siamo troppo sfiniti e distratti per aprire quegli incunaboli fitti d'un sentimento misterioso e lontano, maturo e pieno, semplice e profondo ...
Siamo come Atahuallpa che scuoteva la Bibbia per sentire la voce del dio cristiano ... ci appaghiamo della novità, purché sia leggera, ovviamente, e non ci affatichi ... perché siamo stanchi ... E non abbiamo tempo.

Leggiamo tanto, leggiamo tutto ... Poesiole, incipit, motteggi, sentenze, esternazioni da cioccolatino, Carlo Cracco, Chiara Pizzighettoni, Roberto Calasso ... le nostre gerarchie sono offuscate, livellate ... in fondo, oggi, tutto è letteratura ... quindi niente lo è davvero.

venerdì 16 maggio 2014

Plautilla e Monteverdelegge in un articolo de L'Espresso

Un bell'articolo su L'Espresso in uscita oggi parla della bibliolibreria gratuita Plautilla e di Monteverdelegge

[cliccare per ingrandire]


giovedì 15 maggio 2014

Cose che si trovano nei libri


Lo scontrino d'acquisto de Il processo di Kafka ... otto anni fa.
Il 19 febbraio 2006 le cose alla libreria Croce non dovevano andar male: scontrino numero 176 alle diciotto.
Oggi è chiusa, ovvio ... in otto anni la desertificazione avanza e non s'arresta un'ora (per le librerie perdute consultate questo post).
Secondo alcuni non si è mai letto tanto ... ed è giusto: siamo sottoposti a stimoli continuativi: segnali, trilli, propaganda, messaggi, decrittazioni, insinuazioni, ammicchi subliminali, captatio benevolentiae, circonvenzioni pubblicitarie: il cervello elabora senza requie ... togliamo le ore al sonno ... sino all'una le due le tre ...
... sfiniti, sfibrati, svuotati ... abbiamo letto così tanto che l'idea di scorrere un libro ci disgusta ... a meno che questo non sia leggero ... qualcosa di leggero ... la lettura, infatti, è diversa dalla letteratura ...

Leggo gran parte della notte
D'inverno vado al sud

proclamano due versi de La terra desolata. Desolata, desertificata, liscia e senza asperità.
Ormai è così.
Chissà cosa avevano in mente i polinesiani di Rapa Nui quando continuavano a tagliare palme per i loro moai.
Chissà cosa è passato loro per il cervello quando hanno tagliato l'ultima.
Difficile rendersi conto dei fenomeni quando se ne fa parte.

mvl teatro: Tempeste nel deserto romano

Maria Cristina Reggio
Di solito lʼavanguardia non designa una data finale per il suo guardare avanti, ma esprime una sfida aperta a oltranza, che punta lʼindice verso un futuro mai circostanziato nel tempo. Invece Motus, gruppo teatrale di ricerca italiano, lavora dal 2011 a un progetto, Animale Politico Project, che mira a una data finale utopica, politicamente connotata, il 2068. Lʼambizione di prevedere proprio questa data finale, se da un lato sembra una contraddizione impensabile - per chi abbia superato i cinquanta - tuttavia con quel ʼ68 piazzato proprio nel futuro dellʼattuale XXI secolo, rende lʼintero progetto ardito e curioso, tanto più che gli ispiratori in sottofondo di questa operazione, sembrano proprio essere i sessantottini dello scorso millennio, i più irriducibili e accreditati a livello internazionale, ovvero il gruppo americano del Living Theatre di Judith Malina e dello scomparso Julian Beck.
La tappa più recente del progetto, Nella Tempesta, che ha avuto avvio in prima mondiale a Montreal nel 2013, si è tenuta dal 3 al 5 aprile al Teatro Valle Occupato, il gioiello settecentesco incastonato nel centro della capitale, che dal fatidico 14 giugno 2011 è gestito da un gruppo di volenterosissimi ri-fondatori dello spettacolo: si tratta di uno tra i pochissimi spazi rimasti aperti al teatro di ricerca nel deserto romano, mentre questʼultimo si allarga sempre più, con una desolante ampiezza direttamente  proporzionale al diffondersi nel centro storico di piazze e strade dedicate al tavolame mangereccio, tra i lavori a singhiozzo al Teatro India e l’abbandono traumatico  del Palladium da parte della Fondazione Roma-Europa, per tacere sugli sgomberi allʼAngelo Mai. 
A questo proposito, ci si chiede sovente come sia possibile che, a pochi passi dal cuore politico più blindato dello stato italiano, dove nessuno è mai autorizzato a manifestare nemmeno con una innocente bandierina il suo dissenso, a pena di poderose smanganellate, un gruppo di privati cittadini, per quanto appassionati e rivoluzionari, possa gestire autonomamente uno tra i teatri più belli e antichi della capitale, quando, in zone meno ambite, a occupare un magazzino o un cinema fatiscente, si rischia lo sgombero immediato.  Ma questa è, forse, unʼaltra storia, che sembra piuttosto un gioco di parole: non quella dellʼoccupazione di un teatro, ma del teatro di unʼoccupazione. E di occupazioni tratta anche questʼultimo lavoro teatrale che Daniela Nicolò ed Enrico Casagrande hanno costruito, insieme con gli attori, conferendogli un maturo impianto drammaturgico che sviluppa alcuni temi presenti in The Tempest di Shakespeare, li attraversa con la rabbiosa interpretazione politica di Une Tempête di Aimé Césaire e con il vitalismo rivoluzionario ereditato dal Living Theatre: occupazioni di territori, di case, di strade, nomadismi ondeggianti di chi cerca disperatamente unʼisola in cui restare, un riparo nella tempesta. 

mercoledì 14 maggio 2014

Curioso Manzoni

Dal libro di Paolo Albani Fenomeni curiosi, uscito in formato eBook per Quodlibet nella collana "Note azzurre" diretta da Giuseppe Dino Baldi, Elena Frontaloni e Paolo Maccari proponiamo una pagina dedicata, sia pur indirettamente, a Alessandro Manzoni.

Paolo Albani
In quell’immenso contenitore di fenomeni curiosi che sono gli scherzi (il mitico editore francese Jean–Jacques Pauvert edita nel 1964 una bellissima Encyclopédie des farces et attrappes et des mystications a cura di François Caradec e Noël Arnaud) ce n’è uno particolarmente ben congegnato e perfido ordito nei confronti di un famoso medico e antropologo italiano, esponente di spicco del positivismo scientifico.
Questi i fatti. Nel 1898, pubblicato a proprie spese (all’ultimo momento Hoepli non ha il coraggio di stamparlo), esce a Milano Genio e follia di Alessandro Manzoni in cui sono raccontate, usando il metodo lombrosiano (anche nel titolo il libro echeggia il linguaggio del Lombroso), le innumerevoli fobie, abulie e monomanie di Alessandro Manzoni. L’autore del libro è Paolo Bellezza (1867–1950), esperto di lingue moderne, pioniere degli studi  americanisti in Italia, all’epoca un autorevole studioso della vita del Manzoni e della sua opera che – si dice – conosce tutta a memoria.
In Genio e follia di Alessandro Manzoni sono delineati alcuni tratti a dir poco singolari, bizzarri della personalità di Manzoni. Si racconta ad esempio che Manzoni porta sempre con sé una boccetta di aceto fortissimo; un giorno, sorpreso da un suo malessere nervoso in mezzo al viale del giardino della villa di Brusuglio, temendo di svenire prima di rientrare, si mette a correre cercando allo stesso tempo di gettarsi sotto il naso l’aceto, ma il movimento inconsulto fa sì che qualche goccia di quel liquido bruciante gli vada in un occhio che ne resta gravemente malato. Le lettere ai familiari rivelano in Manzoni uno stato di massima depressione morale o di profonda indolenza dello spirito. Va soggetto a «fatica al capo» e soffre spesso di incomodi di digestione. Il suo temperamento lo spinge qualche volta a dare in escandescenze, a piangere come un fanciullo per cose che lo esasperano. Riferisce la poetessa Louise Colet, sua grande amica, che quando gli comunica la pace di Villafranca Manzoni «cade svenuto completamente nelle sue braccia». In preda a gravi commozioni e dolori pare abbia bisogno di mangiare di più. Alcuni biografi assicurano che Manzoni è epilettico, ragione per cui si muove sempre accompagnato da qualche fido compagno. È soggetto a rilassamenti d’attenzione, assenze o distrazioni dello spirito. Lo testimoniano diversi episodi. Per una sua nipotina fa l’analisi logica di un periodo dei Promessi Sposi; invece di lodare l’esecuzione di quel componimento, la maestra la giudica appena soddisfacente. Una volta, conversando con un amico, cita una sentenza che gli pare bella, ma non si rammenta dove l’abbia trovata. «Sfido!» – dice l’amico – «è vostra!» Manzoni è capace di rimettere allo stesso posto dieci, venti volte un pezzetto di legno o di brace quando cade fuori da dove l’ha posto nel caminetto. Qui forse, annota Bellezza, abbiamo un caso particolare di piromania.

martedì 13 maggio 2014

Post-diario di una dannata del Lingotto

Maria Teresa Carbone
Il Salone del libro è davvero la camera ardente della cultura italiana, come scrive qui sotto il nostro fustigatore preferito Gianluca Chiovelli, il quale - sospetto - al Lingotto non ha mai messo piede? Ma no, naturalmente, se non altro perché con la cultura ("l’insieme delle cognizioni intellettuali che una persona ha acquisito attraverso lo studio e l’esperienza, rielaborandole peraltro con un personale e profondo ripensamento così da convertire le nozioni da semplice erudizione in elemento costitutivo della sua personalità morale, della sua spiritualità e del suo gusto estetico, e, in breve, nella consapevolezza di sé e del proprio mondo", Treccani.it) la benemerita fiera torinese non ha niente a che fare. 
E', appunto, una fiera, dove la maggior parte della gente va  per vedere dal vivo bestie che altrimenti si sognano soltanto (o si guardano attraverso lo schermo di vetro della televisione) e magari, se capita, per comprare quegli stessi oggetti - libri, per lo più, ma non solo - che potresti trovare all'edicola d'angolo o ricevere a casa con lo sconto ma che qui si arricchiscono di fatica, di sudore, sono pronti a diventare ricordi. Forse le due ragazzine sedute davanti a me sul Torino Porta Nuova - Genova Brignole delle 18.12 di sabato 11 maggio avevano bisogno di sciropparsi trecento chilometri andata e ritorno per mettere le mani su La solitudine dei numeri primi di Paolo Giordano nel  formato verticale Flipback lanciato da Mondadori come una gran novità? Evidentemente no, ma vuoi mettere l'avventura di essere andate, DA SOLE, al Salone del libro? 
Detto questo, parliamo della edizione 2014 senza avere letto i trionfalistici comunicati ufficiali e basando questo breve post-diario sulla non sempre entusiastica, ma assidua presenza a quella che, con buona pace del nostro Vlad Tepes, è la più importante manifestazione editoriale (attenzione: editoriale, NON culturale) italiana. E a questo punto, beh, se lo stato di salute della nostra editoria si rispecchia nella cinque-giorni del Lingotto, non si può dire che siamo messi bene.  

Il Salone del Libro di Torino, camera ardente della cultura italiana

G. Luca Chiovelli
A Torino: sempre meno lettori, sempre più visitatori.
Una contraddizione deliziosa.
I salonisti torinesi esultano, squadernano dati impressionanti, grafici sardanapaleschi, in cui il trend (qualsiasi trend) s'impenna come un membro eccitato. Come conciliare questo trionfo cesariano con i piagnistei del resto dell'anno? Non saprei davvero ... naturalmente i dati sono veritieri ... Come è possibile che non lo siano? Forse sono sbagliati gli altri dati, quelli sulla non lettura?
Quién sabe?
Dati, grafici, statistiche, interrogazioni, sondaggi ...
Dicono la verità i sondaggi? Non ricordo quale umorista disse: ho pubblicato una mia foto accanto a quella di George Clooney. Poi ho invitato alla scelta: chi è più bello fra noi due? Ecco i risultati: lo 0,7 % ha votato me, il resto ha sbagliato risposta.

300.000 visitatori nel 2013 ... un'intera città come Bari o Catania che si riversa fra le pile di sbobba cartacea di Torino ... un miracolo, signori miei, un miracolo ... forse la benefica influenza della Sindone ... o forse è Baricco che attrae ... il miracolo del ciuffo ...

300.000 visitatori ... una fiumana impressionante ... attenzione! Questi sono dati inoppugnabili ... forniti dagli stessi organizzatori, come non crederci ... resta da capire perché tali manipoli trovino attraenti pile di libri eguali alle pile di libri che trovano in ogni libreria d'Italia ogni giorno dell'anno ... come se qualcuno, stressato dal traffico della settimana lavorativa, dicesse: "Oggi ci rilassiamo, cara ... è domenica, c'è un bel sole ... andiamo a farci un giretto sulla Pontina ... poi una visitina all'Ikea ..."

Pile e pile di libri presto inservibili:

Non c'è speranza omai
Infame pila sorgere,
ah, sì, vedrai, vedrai tra poco,
vedrai vedrai tra poco...
Ahi! Deh! Lasso!
Per man de' barbari
Alzata è già la pila
Ah! vili!... il rio spettacolo
quasi il respir m'invola! ...

300.000 ... non dubito ... credo ut intelligam ... eppure una spiegazione deve esserci ... secondo me sono le tartine, e lo spritz ... si va al salone del libercolo come a un party ... si incontrano note notorietà ... o celebri celebrità ... de visu confermiamo i nostri aneliti intellettuali da televisione ... uh, guarda c'è Concita ... e Corrado ... un incontro sulla fede con monsignor Ravasi ed Eugenio Scalfari, modera Paolo Mieli ... imperdibile ... ottimi questi rustici ... il libro di Loredana ... brava questa Chiara Pizzighettoni, ne ha parlato tanto bene D'Orrico sul Corsera ... un caffettino? ... ottimo lo stand di Eataly ... stasera c'è Umberto Eco con una lectio magistralis sulla contraccezione nel Medioevo, ci vai? In fondo questo Buttafuoco è un bel ragazzo ... la presentazione alle 21.00 ... c'è il ministro ... Ceronetti ... finanziamenti dalla regione ... quanta gente! L'ultimo di Bernardo Sughi lo hai letto? Notevolissimo ... ci prendiamo una cosa al volo ... ci vediamo ... hai saputo ... c'è pure Antonio ... un successone ...

Deve essere così ... le tartine e un certo tono glamour ... basta fare il confronto con il catering della festa del libro di Roma ... panini e lattine da bar di periferia ... salsicce sbrindellate, pizzette bisunte, caffè venefici, un profumo impercettibile di rancido crassume ... guardaroba improvvisati ... stand organizzati come le stie di un pollaio nichilista ... e soprattutto niente sedie, che il lettore romano deve avere la fibra del maratoneta ... E poi niente Ravasi niente Eco niente Baricco niente Scalfari ... Al massimo si vanta Zerocalcare, il fumettaro ... una disfatta glam.


domenica 11 maggio 2014

Conversazione e democrazia

Alessandro Perugia

Di quanti aspetti della vita sentiamo lamentare oggigiorno l’estinzione? L’ultimo che mi è capitato di sentir citare era il canto: “Non si canta più!”. Naturalmente, “non si balla più”. E dove sono finiti i giochi organizzati dei bambini, nascondino, campana, uno-due-tre-stella? Fra quanto la società si sarà trasformata in un condominio?
Scrive il nostro Chiovelli, in un suo recente post pubblicato su questo sito (Della letteratura non frega più niente a nessuno, 25 marzo 2014): “La lettura è diversa dalla letteratura”, cita Fahrenheit 451 e conclude: "Non oserei scrivere manco una pagina. Ogni parola ulteriore lorderebbe i pochi autori degni di essere letti. Se vergassi una sola riga sconsacrerei Shakespeare e Plutarco. È una responsabilità troppo grande".
Certamente non sono tempi da starsene con le mani in mano a guardare, caro Luca. Può essere sufficiente leggere Le origini del totalitarismo di Hannah Arendt (cap. X - Il tramonto della società classista) per sentirsi accapponare la pelle al cospetto del possibile futuro di ogni società atomizzata.

Le note di Leo/Il cappello a tre punte. De Falla, Picasso, Eduardo...

Un appuntamento con la musica, per traghettarci dalla domenica al lunedì.

Prima rappresentazione 1919
con scenografia di Pablo Picasso e costumi di Leonide Massine

Leonardo Castellucci*

El sombrero de tres picos (Il cappello a tre punte) è un balletto in un atto, su libretto di Gregorio Martìnez Sierra, tratto dall'omonimo romanzo di Pedro Antonio de Alarcon (dallo stesso romanzo Eduardo de Filippo trarrà lo spunto per il suo omonimo film del 1934). L'opera fu commissionata a Manuel De Falla da Diaghilev e rappresentata per la prima volta a Londra il 22 luglio 1919 con coreografie di Leonide Massine e scenografie di Pablo Picasso. Anni mitici per la cultura europea.

L'incipit della domenica - Enrico Berlinguer, La questione morale (intervista a La Repubblica del 28 luglio 1981)

A distanza di trentatré anni possono riscontrarsi due evidenze in tale intervista.
Primo: il testo si è rapidamente trasformato in luogo comune o in cibreo politico da citazione (spesso fuori luogo), escludendo in tal modo la conoscenza diretta (per pigrizia, neghittosità, ignoranza). Diciamo la verità: quanti di noi l'hanno letto integralmente?  
Secondo. Spesso, in Italia, i discorsi o le interviste più importanti (tali poiché analizzano, con sincerità disarmante e cristallina, una mutazione antropologica epocale) sono nascosti nelle pieghe della storiografia: il discorso di Paolo VI a Castelgandolfo del 1974 (in cui dichiarava la sudditanza della Chiesa al consumismo montante); il resoconto di Giulio Andreotti alla Camera dei Deputati del 1990 (quello di Gladio) dove si delineava la democrazia italiana quale sistema di potere dimidiato dal colonialismo americano; e, ovviamente, l'intervista di Enrico Berlinguer a Eugenio Scalfari del 1981, uscita su La Repubblica alla fine di luglio, quando gli Italiani imbarcavano palette e paperelle sulle cilindrate (ormai) medioalte per godersi il decennio da bere.
Sul testo c'è poco da dire: Berlinguer ha ragione in pieno: sull'ingiustizia sociale, sulla disoccupazione, sulla nevrosi e l'infelicità indotti da uno stile di vita edonista e da una società strutturata plutocraticamente, sulla corruzione, sulla partitocrazia che invade ogni campo della vita istituzionale e civile a danno dei cittadini, sulle distorsioni del sistema bancario et cetera.
Berlinguer, tuttavia, sbaglia (rovinosamente) due volte.
Anzitutto nella convinzione che la politica italiana potesse ancora vivere di una dialettica interna, propria, indipendente; tutte le prospettive indicavano, invece, una perdita di ruolo internazionale a vantaggio di una globalizzazione incontrastata in cui le multinazionali sarebbero state, di fatto, centrali decisionali economiche e culturali al di sopra delle legislazioni e delle costituzioni nazionali.