Dal bel volume di Antonella Agnoli La biblioteca che vorrei (Editrice Bibliografica 2014) proponiamo il capitolo dedicato ai (non) lettori. Il testo si può leggere anche all'interno dello speciale Leggere oggi, che la rivista Alfabeta2 ha messo online in occasione del Salone del libro di Torino e che contiene, tra gli altri, interventi di Luca Ferrieri, Paola Dècina Lombardi, Maurizio Caminito.
Antonella Agnoli
“Gli italiani non leggono e anche per questo non vanno in biblioteca” è una frase che sento dire da decenni. È lo sfondo del dibattito sui problemi del libro. Cosa ci dice l’Istat? “La po-polazione di 6 anni e più che, nel 2013, si è dedicata alla lettura di libri (per motivi non strettamente scolastici o professionali) nell’arco dell’ultimi 12 mesi è pari al 43,0 per cento”.
Quindi meno di un italiano su due legge almeno un libro l’anno: “Nel 2013 – continua l’Istat – si assiste ad una significativa flessione dei lettori di libri i quali, nel 2012, risultavano essere il 46,0 per cento della popolazione considerata: meno 3 punti percentuali” [Istat 2013]. Le sconsolanti conclusioni tratte da queste nude cifre sono così inattaccabili? Hanno il significato che viene loro attribuito nei convegni? “Quel che vedi dipende dal tuo punto di vista” mi ha insegnato Marianella Sclavi, un’amica che gira il mondo insegnando “l’arte di ascoltare” [Sclavi 2003].
Proviamo a guardare le cose diversamente: siamo sicuri che quando chiediamo a qualcuno se ha letto un libro negli ultimi 12 mesi, la parola “libro” abbia lo stesso significato per noi e per lui? Per “noi” intendo chi lavora nell’editoria o nelle biblioteche, gli intellettuali che di volumi ne possiedono a centinaia o a migliaia, i rilevatori dell’Istat. Per queste categorie di persone un libro è qualsiasi oggetto cartaceo rilegato che si compra in libreria. Ma “loro”, i cittadini che sono sempre di fretta, non per seguire gli aggiornamenti su Twitter ma per i ritmi frenetici che la vita impone, danno alla parola lo stesso significato? Forse no.
Condizionate da una tradizione intellettuale un po’ spocchiosa, le donne pensano che il ricettario di cucina che hanno comprato, e usato, non sia un libro. E gli uomini che si sono procurati un utilissimo manuale di bricolage rispondono “no” quando gli si chiede se hanno “letto un libro”. Entrambi probabilmente hanno dimenticato di aver comprato un giallo all’edicola della stazione, la dieta Dukan o magari La felicità di Epicuro nelle edizioni Stampa Alternativa. Bruno Mari, il vicepresidente della Giunti, spiega che esiste un’area grigia del mercato editoriale italiano (la manualistica, la cucina, gli atlanti, i dizionari) che interessa a milioni di persone che si considerano “non lettori” [Mari 2013].
Del resto, basterebbe guardare le statistiche dei prestiti nelle biblioteche, o le classifiche della “varia” pubblicate dai giornali, per scoprire che i libri con un risvolto pratico, i libri che insegnano a fare qualcosa sono richiestissimi. “La scomparsa degli utensili dalla nostra educazione collettiva è il primo passo verso una maggiore ignoranza del mondo di oggetti in cui abitiamo” [Crawford 2010, p. 1]. I cosiddetti non-lettori intuiscono che non c’è vero “sapere” senza “saper fare”, mentre i nostri punti di vista convenzionali spesso rendono sterile la discussione su cultura, ricerca e innovazione in Italia.
Non sarò io a sostenere che tutto va bene e che l’Italia è in realtà un paese di lettori, al contrario: so bene che “si dichiarano lettori di libri nel tempo libero il 30,7% dei residenti nell’Italia meridionale” meno di un terzo della popolazione [Istat 2013, p. 221].
Sono però convinta che dobbiamo rivalutare alcune forme di sapere “non libresco”, di artigianato. La competenza del contadino che sa tutto dei suoi campi, quella del pescatore che prevede il tempo solo guardando l’orizzonte, quella del giardiniere a cui basta un’occhiata per valutare lo stato di salute di una pianta sono saperi articolati, complessi e preziosi [Bonet 2014]. Molto più di quelli della “lettrice forte” che ogni settimana va in libreria a comprarsi l’ultimo romanzo entrato in finale al Campiello o allo Strega. Se provassimo a portare alcune di queste competenze in biblioteca, per farne fruire anche chi fatica ad avvitare una lampadina?
Un libro-culto della mia generazione è stato quello di Robert Pirsig Lo Zen e l’arte della manutenzione della motocicletta. Libro misterioso: diario di viaggio, trattato di filosofia, saggio sulla civiltà occidentale e nello stesso tempo manuale di manutenzione della motocicletta. Il suo significato, almeno per come l’ho capito io, è però semplice: la nostra visione della vita non può prescindere dal rapporto con il costruire, aggiustare, riparare gli oggetti. Una vita usa-e-getta mutila la nostra anima, come hanno riscoperto recentemente anche Richard Sennett [2012] e Matthew Crawford [2010].
Dobbiamo saper fare: controllare la moto, rimettere al suo posto la catena della bicicletta, cambiare la guarnizione di un rubinetto, accendere il caminetto senza incendiare la casa. In questa prospettiva, creare un luogo pubblico dove si facciano corsi di giardinaggio, si insegni l’uncinetto, si trovi qualcuno che ti aiuta a costruire uno scaffale, si tengano corsi di ikebana, o di soffiatura del vetro, è un luogo dove circolano dei saperi. Un tempo questa abilità passavano di padre in figlio, oppure si andava all’osteria in piazza e si trovava chi ti spiegava e magari ti dava una mano. Oggi le osterie mirano solo ad accalappiare i turisti, e per il rubinetto che gocciola siamo costretti a chiamare l’idraulico, ma c’è un bisogno latente di recuperare una dimensione manuale della conoscenza, e della vita, come ha mostrato Richard Sennett nel suo L’uomo artigiano [2012].
È questo bisogno che viene recepito dalle biblioteche nei paesi scandinavi, o negli Stati Uniti, dove i gruppi spontanei si danno appuntamento per un corso di falegnameria o l’organizzazione di una parata di Harley Davidson. È questo bisogno che oggi trova una nuova dimensione nelle stampanti 3D, che teoricamente consentono di produrre in casa praticamente qualsiasi cosa. È questo bisogno che viene riscoperto nelle social street, dove il mutuo aiuto viene organizzato con l’aiuto dei social network. È questo bisogno che possiamo intercettare attraverso la biblioteca, che ovviamente deve suscitare interessi, facilitare scoperte, organizzare gruppi, non trasformarsi in officina (anche se avere una stampante 3D in biblioteca è un esperimento interessante).
Oggi far nascere una biblioteca richiede un movimento che nasce dal basso, un progetto di edificio che nasce dalla domanda di cultura e di socialità, come è avvenuto con le tante manifestazioni del tipo di quelle per il recupero dei cantieri della Zisa a Palermo o del teatro Valle a Roma. Non è un caso che il movimento Occupy Wall Street, a New York, come prima iniziativa abbia aperto una piccola biblioteca sotto una tenda a Zuccotti Park, ed è ancora meno un caso che un giudice americano abbia condannato l’amministrazione comunale a risarcire la distruzione del patrimonio librario causata dalla polizia durante il successivo sgombero. Negli Stati Uniti si possono manganellare i dimostranti, non buttare al macero i libri: possiamo fare nostra questa grande manifestazione di democrazia, oltre che di rispetto per la cultura? Lo stesso è avvenuto nel 2013 anche nel Gezi Park di Istanbul, dove i manifestanti avevano costruito una biblioteca all’aria aperta.
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