giovedì 15 maggio 2014

mvl teatro: Tempeste nel deserto romano

Maria Cristina Reggio
Di solito lʼavanguardia non designa una data finale per il suo guardare avanti, ma esprime una sfida aperta a oltranza, che punta lʼindice verso un futuro mai circostanziato nel tempo. Invece Motus, gruppo teatrale di ricerca italiano, lavora dal 2011 a un progetto, Animale Politico Project, che mira a una data finale utopica, politicamente connotata, il 2068. Lʼambizione di prevedere proprio questa data finale, se da un lato sembra una contraddizione impensabile - per chi abbia superato i cinquanta - tuttavia con quel ʼ68 piazzato proprio nel futuro dellʼattuale XXI secolo, rende lʼintero progetto ardito e curioso, tanto più che gli ispiratori in sottofondo di questa operazione, sembrano proprio essere i sessantottini dello scorso millennio, i più irriducibili e accreditati a livello internazionale, ovvero il gruppo americano del Living Theatre di Judith Malina e dello scomparso Julian Beck.
La tappa più recente del progetto, Nella Tempesta, che ha avuto avvio in prima mondiale a Montreal nel 2013, si è tenuta dal 3 al 5 aprile al Teatro Valle Occupato, il gioiello settecentesco incastonato nel centro della capitale, che dal fatidico 14 giugno 2011 è gestito da un gruppo di volenterosissimi ri-fondatori dello spettacolo: si tratta di uno tra i pochissimi spazi rimasti aperti al teatro di ricerca nel deserto romano, mentre questʼultimo si allarga sempre più, con una desolante ampiezza direttamente  proporzionale al diffondersi nel centro storico di piazze e strade dedicate al tavolame mangereccio, tra i lavori a singhiozzo al Teatro India e l’abbandono traumatico  del Palladium da parte della Fondazione Roma-Europa, per tacere sugli sgomberi allʼAngelo Mai. 
A questo proposito, ci si chiede sovente come sia possibile che, a pochi passi dal cuore politico più blindato dello stato italiano, dove nessuno è mai autorizzato a manifestare nemmeno con una innocente bandierina il suo dissenso, a pena di poderose smanganellate, un gruppo di privati cittadini, per quanto appassionati e rivoluzionari, possa gestire autonomamente uno tra i teatri più belli e antichi della capitale, quando, in zone meno ambite, a occupare un magazzino o un cinema fatiscente, si rischia lo sgombero immediato.  Ma questa è, forse, unʼaltra storia, che sembra piuttosto un gioco di parole: non quella dellʼoccupazione di un teatro, ma del teatro di unʼoccupazione. E di occupazioni tratta anche questʼultimo lavoro teatrale che Daniela Nicolò ed Enrico Casagrande hanno costruito, insieme con gli attori, conferendogli un maturo impianto drammaturgico che sviluppa alcuni temi presenti in The Tempest di Shakespeare, li attraversa con la rabbiosa interpretazione politica di Une Tempête di Aimé Césaire e con il vitalismo rivoluzionario ereditato dal Living Theatre: occupazioni di territori, di case, di strade, nomadismi ondeggianti di chi cerca disperatamente unʼisola in cui restare, un riparo nella tempesta. 

Attingendo eccentricamente alla narrazione scespiriana, i Motus focalizzano il loro lavoro sul tema del "fare teatro", concentrandosi però non tanto su Prospero in quanto controfigura dellʼautore -maestro-padrone, il cui ruolo viene magistralmente affidato a un prepotente e silenzioso faro cercapersone, quanto piuttosto sullʼattore, lo schiavo, Ariel, il recluso nello spazio finzionale del teatro, che, con il corpo “icona” di Silvia Calderoni, cerca con lunghi balzi ondeggianti, il modo per uscire dalla rappresentazione per entrare nella realtà della vita vera e trovare un nesso tra la sua vita e quella di chi vive davvero nelle tempeste. Pur indulgendo con un certo autocompiacimento su una riflessività che rasenta talvolta un irritante narcisismo, tuttavia la scelta di rendere invisibile il capo pur mantenendone viva la presenza di interlocutore, rivolta lʼintera problematica del dramma, che da individuale diventa condivisibile, collettivo, comunitario.  Silvia Calderoni  incontra in scena altri attori (Glen Çaçi, Ilenia Caleo, Fortunato Leccese, Paola Stella Minni), si parlano, si raccontano le loro storie, le loro singolari esperienze e i loro mondi si incontrano su unʼisola che dovrebbe essere la loro salvezza, ma che si rivela essere nientʼaltro che un palcoscenico illusorio, lontano dalla realtà vera, unʼisola che protegge, ma anche una metafora dalla quale uscire per incontrare il vero " fuori", il mondo che non conosce i teatri.  Un montaggio di immagini video registrate e in real camera che dialogano con il tempo presente del palcoscenico crea questa irruzione del reale sulla scena: nel video i veri nomadi "occupanti" di qualche periferia lontana accolgono incuriositi e sorpresi la giovane performer, lʼextraterrestre dallʼandatura incerta, che trascina sulle spalle un alberello mozzo, come lei senza radici. Qui la potenza delle immagini reali del video "buca" il palcoscenico, fa arretrare imbarazzati i giochi di parole disegnati da una creatività sessantottina sul pavimento con le coperte. Il viaggio nel mondo stavolta è durato poco, e dopo brevi sortite anche Silvia Calderoni torna a casa, vinta dalla realtà si rifugia di nuovo al Teatro Valle, in uno spazio caldo e pieno di gente che dopo poco la applaudirà. E i cui velluti  la accolgono ancora affettuosi,  pur provati, con i loro odori umani, domestici, di cucina, inconsueti per un teatro e forse realisticamente  più simili a quello  che si immagina abbiano le coperte usate che fungono da scena. 

2 commenti:

  1. Marcella & Marco:
    Non è chiaro se l'autrice del pezzo, offesa dagli "odori domestici" provenienti dalle preziose poltrone di velluto rosso, invochi le manganellate sulle teste non sempre profumate dei "volenterosissimi" occupanti, oppure si compiaccia nonostante tutto della "bandierina rossa" messa accanto ai palazzi del potere. Da un blog di lettori attenti ci si aspetterebbe minore ambiguità. Quel 'bene comune' realizzato nel cuore di Roma merita una riflessione più meditata.

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  2. Un blog di lettori attenti – come ci definiscono ‘Marcella & Marco’ – non può non riflettere sulle parole. E il bravo lettore, davanti a tanto agitare del concetto, assai suggestivo, di “bene comune”, scopre che non si tratta di una recente arma segreta del prof. Rodotà, bensì di un’arma segreta medioevale, che risale addirittura al fondatore della Scolastica, al massimo filosofo cattolico, a Tommaso d’Aquino. La sua “Summa Theologica” non pecca certo di liberalismo moderno, vi si legge infatti (c’è bisogno di tradurlo?): “Impossibile est quod aliquis homo sit bonus, nisi sit bene proportionatus bono communi” (1-2, 92, 1, 3). Che cosa è allora questo ‘bonum’ di fronte al quale la volontà del singolo si piega o quantomeno si rapporta (con la teoria del bene comune si giustificò la pena di morte per chi metteva in pericolo la comunità, e si giustificò l’obbligo di andare in guerra)? Tommaso spiega che il proprio interesse è degno di attenzione soltanto se converge in quello comune: “Qui quaerit bonum commune, quaerit proprium, quia bonum proprium non potest esse sine communi; et bona dispositio partis est in respectu ad totum” (2-2, 61, 1, 3). Il bravo lettore sottolinea la frase “in respectu ad totum” e si accorge che accenna a un’armonia, a una proporzione, a una sezione aurea. Che legame ci sarà mai allora tra quel gerarchico, armonico, universo medioevale e i corpi desideranti che si impadroniscono della cosa pubblica in base ai loro gusti? Tommaso ammonisce: “Bonum multitudinis est majus quam bonum unius…”, il bene dei più è maggior bene di quello del singolo, quindi anche di quello di una parte, per quanto illuminata, avanguardistica, con il vento del progresso in poppa. Insomma il filosofo domenicano che mise a punto il concetto di bene comune non sembra affatto giustificare l’occupazione del Valle, ma si parva licet accostare all’Aquinate, ovvero citare i nomi della nostra attualità, Clemente Mastella, un tempo ministro, incaricò il prof. Rodotà (che i media presentano sempre come costituzionalista mentre è un docente di diritto civile) di ridefinire questo benedetto “bene comune”. Wikipedia ci informa della faccenda, riportando lunghissime citazioni delle bozze di legge, delle modifiche in commissione, delle chiacchiere burocratiche dove il sottoscritto lettore abituato alla cristallina prosa tomistica non si trova a proprio agio; eppure vorrebbe condividere con tutti voi questa esperienza: provate a dare uno sguardo a quelle carte, sia detto con tutto il rispetto per il lavoro dei nostri senatori, ci pare avvertire un sentore di italica furbizia, di un uso spregiudicato del “latinorum” renziano (del Renzo manzoniano) per accontentare i piccoli gruppi dei clientes, le minoranze che voglion farsi maggioranze senza passare per il voto…
    Emanuele Bonsignore

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