Maria Cristina Reggio
Di solito lʼavanguardia non designa una data finale per il
suo guardare avanti, ma esprime una sfida aperta a oltranza, che punta lʼindice
verso un futuro mai circostanziato nel tempo. Invece Motus,
gruppo teatrale di ricerca italiano, lavora dal 2011 a un progetto, Animale
Politico Project, che mira a una data finale utopica, politicamente
connotata, il 2068. Lʼambizione di prevedere proprio questa data finale, se da
un lato sembra una contraddizione impensabile - per chi abbia superato i
cinquanta - tuttavia con quel ʼ68 piazzato proprio nel futuro dellʼattuale XXI
secolo, rende lʼintero progetto ardito e curioso, tanto più che gli ispiratori
in sottofondo di questa operazione, sembrano proprio essere i sessantottini
dello scorso millennio, i più irriducibili e accreditati a livello
internazionale, ovvero il gruppo americano del Living Theatre di Judith Malina
e dello scomparso Julian Beck.
La tappa più recente del progetto, Nella Tempesta,
che ha avuto avvio in prima mondiale a Montreal nel 2013, si è tenuta dal 3 al
5 aprile al Teatro Valle Occupato,
il gioiello settecentesco incastonato nel centro della capitale, che dal
fatidico 14 giugno 2011 è gestito da un gruppo di volenterosissimi ri-fondatori
dello spettacolo: si tratta di uno tra i pochissimi spazi rimasti aperti al
teatro di ricerca nel deserto romano, mentre questʼultimo si allarga sempre
più, con una desolante ampiezza direttamente
proporzionale al diffondersi nel centro storico di piazze e strade
dedicate al tavolame mangereccio, tra i lavori a singhiozzo al Teatro India e
l’abbandono traumatico del Palladium da
parte della Fondazione Roma-Europa, per tacere sugli sgomberi allʼAngelo Mai.
A questo proposito, ci si chiede sovente come sia possibile che, a pochi passi dal
cuore politico più blindato dello stato italiano, dove nessuno è mai
autorizzato a manifestare nemmeno con una innocente bandierina il suo dissenso,
a pena di poderose smanganellate, un gruppo di privati cittadini, per quanto
appassionati e rivoluzionari, possa gestire autonomamente uno tra i teatri più
belli e antichi della capitale, quando, in zone meno ambite, a occupare un
magazzino o un cinema fatiscente, si rischia lo sgombero immediato. Ma questa è, forse, unʼaltra storia,
che sembra piuttosto un gioco di parole: non quella dellʼoccupazione di un
teatro, ma del teatro di unʼoccupazione. E di occupazioni tratta anche
questʼultimo lavoro teatrale che Daniela Nicolò ed Enrico Casagrande hanno
costruito, insieme con gli attori, conferendogli un maturo impianto
drammaturgico che sviluppa alcuni temi presenti in The Tempest di
Shakespeare, li attraversa con la rabbiosa interpretazione politica di Une
Tempête di Aimé Césaire e con il vitalismo rivoluzionario ereditato dal
Living Theatre: occupazioni di territori, di case, di strade, nomadismi
ondeggianti di chi cerca disperatamente unʼisola in cui restare, un riparo
nella tempesta.
Attingendo eccentricamente alla narrazione scespiriana, i Motus
focalizzano il loro lavoro sul tema del "fare teatro", concentrandosi
però non tanto su Prospero in quanto controfigura dellʼautore -maestro-padrone,
il cui ruolo viene magistralmente affidato a un prepotente e silenzioso faro
cercapersone, quanto piuttosto sullʼattore, lo schiavo, Ariel, il recluso nello
spazio finzionale del teatro, che, con il corpo “icona” di Silvia Calderoni,
cerca con lunghi balzi ondeggianti, il modo per uscire dalla rappresentazione
per entrare nella realtà della vita vera e trovare un nesso tra la sua vita e quella
di chi vive davvero nelle tempeste. Pur indulgendo con un certo
autocompiacimento su una riflessività che rasenta talvolta un irritante
narcisismo, tuttavia la scelta di rendere invisibile il capo pur mantenendone
viva la presenza di interlocutore, rivolta lʼintera problematica del dramma,
che da individuale diventa condivisibile, collettivo, comunitario. Silvia Calderoni incontra in scena altri attori (Glen Çaçi,
Ilenia Caleo, Fortunato Leccese, Paola Stella Minni), si parlano, si raccontano
le loro storie, le loro singolari esperienze e i loro mondi si incontrano su
unʼisola che dovrebbe essere la loro salvezza, ma che si rivela essere
nientʼaltro che un palcoscenico illusorio, lontano dalla realtà vera, unʼisola
che protegge, ma anche una metafora dalla quale uscire per incontrare il vero
" fuori", il mondo che non conosce i teatri. Un montaggio di immagini video registrate e
in real camera che dialogano con il tempo presente del palcoscenico crea questa
irruzione del reale sulla scena: nel video i veri nomadi "occupanti"
di qualche periferia lontana accolgono incuriositi e sorpresi la giovane
performer, lʼextraterrestre dallʼandatura incerta, che trascina sulle spalle un
alberello mozzo, come lei senza radici. Qui la potenza delle immagini reali del
video "buca" il palcoscenico, fa arretrare imbarazzati i giochi di
parole disegnati da una creatività sessantottina sul pavimento con le coperte.
Il viaggio nel mondo stavolta è durato poco, e dopo brevi sortite anche Silvia
Calderoni torna a casa, vinta dalla realtà si rifugia di nuovo al Teatro Valle,
in uno spazio caldo e pieno di gente che dopo poco la applaudirà. E i cui
velluti la accolgono ancora
affettuosi, pur provati, con i loro
odori umani, domestici, di cucina, inconsueti per un teatro e forse
realisticamente più simili a quello che si immagina abbiano le coperte usate che
fungono da scena.
Marcella & Marco:
RispondiEliminaNon è chiaro se l'autrice del pezzo, offesa dagli "odori domestici" provenienti dalle preziose poltrone di velluto rosso, invochi le manganellate sulle teste non sempre profumate dei "volenterosissimi" occupanti, oppure si compiaccia nonostante tutto della "bandierina rossa" messa accanto ai palazzi del potere. Da un blog di lettori attenti ci si aspetterebbe minore ambiguità. Quel 'bene comune' realizzato nel cuore di Roma merita una riflessione più meditata.
Un blog di lettori attenti – come ci definiscono ‘Marcella & Marco’ – non può non riflettere sulle parole. E il bravo lettore, davanti a tanto agitare del concetto, assai suggestivo, di “bene comune”, scopre che non si tratta di una recente arma segreta del prof. Rodotà, bensì di un’arma segreta medioevale, che risale addirittura al fondatore della Scolastica, al massimo filosofo cattolico, a Tommaso d’Aquino. La sua “Summa Theologica” non pecca certo di liberalismo moderno, vi si legge infatti (c’è bisogno di tradurlo?): “Impossibile est quod aliquis homo sit bonus, nisi sit bene proportionatus bono communi” (1-2, 92, 1, 3). Che cosa è allora questo ‘bonum’ di fronte al quale la volontà del singolo si piega o quantomeno si rapporta (con la teoria del bene comune si giustificò la pena di morte per chi metteva in pericolo la comunità, e si giustificò l’obbligo di andare in guerra)? Tommaso spiega che il proprio interesse è degno di attenzione soltanto se converge in quello comune: “Qui quaerit bonum commune, quaerit proprium, quia bonum proprium non potest esse sine communi; et bona dispositio partis est in respectu ad totum” (2-2, 61, 1, 3). Il bravo lettore sottolinea la frase “in respectu ad totum” e si accorge che accenna a un’armonia, a una proporzione, a una sezione aurea. Che legame ci sarà mai allora tra quel gerarchico, armonico, universo medioevale e i corpi desideranti che si impadroniscono della cosa pubblica in base ai loro gusti? Tommaso ammonisce: “Bonum multitudinis est majus quam bonum unius…”, il bene dei più è maggior bene di quello del singolo, quindi anche di quello di una parte, per quanto illuminata, avanguardistica, con il vento del progresso in poppa. Insomma il filosofo domenicano che mise a punto il concetto di bene comune non sembra affatto giustificare l’occupazione del Valle, ma si parva licet accostare all’Aquinate, ovvero citare i nomi della nostra attualità, Clemente Mastella, un tempo ministro, incaricò il prof. Rodotà (che i media presentano sempre come costituzionalista mentre è un docente di diritto civile) di ridefinire questo benedetto “bene comune”. Wikipedia ci informa della faccenda, riportando lunghissime citazioni delle bozze di legge, delle modifiche in commissione, delle chiacchiere burocratiche dove il sottoscritto lettore abituato alla cristallina prosa tomistica non si trova a proprio agio; eppure vorrebbe condividere con tutti voi questa esperienza: provate a dare uno sguardo a quelle carte, sia detto con tutto il rispetto per il lavoro dei nostri senatori, ci pare avvertire un sentore di italica furbizia, di un uso spregiudicato del “latinorum” renziano (del Renzo manzoniano) per accontentare i piccoli gruppi dei clientes, le minoranze che voglion farsi maggioranze senza passare per il voto…
RispondiEliminaEmanuele Bonsignore