venerdì 9 maggio 2014

Valerio ama Claudia: una storia d'amore immortale ("Odio e amo. Per quale motivo lo faccia, mi chiederai, non so, ma sento che accade, e mi tormento")

G. Luca Chiovelli

Qui la seconda parte

Storia d'amore forse no. Passione insana; e unilaterale. Catullo si strugge per Claudia, lei gli si concede, poi si allontana, quindi si riavvicina, lo usa per una vendetta, fugge via definitiva. Alti e bassi di un amore totale, fisico e spirituale, che impregnò i trent'anni di vita di uno dei maggiori poeti italiani.

Gaio Valerio Catullo (84 a. C.-54 a.C.) nasce a Verona, d'ottima famiglia.
La valle dell'Adige e il Garda, i laghi i boschi e i monti cisalpini costituirono il fondale perduto dell'immaginazione infantile.
Il padre di Catullo, che aveva possedimenti a Tivoli e una villa a Sirmione ("perla della penisola e delle isole") era uomo ragguardevole: diede ospitalità persino a Giulio Cesare; una visita che lasciò indifferente Gaio Valerio. Purtroppo ospitò anche, ahi, il proconsole della Gallia Cisalpina Quinto Cecilio Metello Celere, allora accompagnato dalla moglie Claudia, colta e bellissima, poco più che trentenne. Catullo, di dieci anni minore, fu travolto da questo primo incontro: tale evento costituirà, forse, l'occasione di una brillante prova poetica, il riadattamento d'un celeberrimo testo di Saffo:



Lui è, ovviamente, Quinto Metello.

L'incontro, nonostante la presenza maritale, si sottrae, da subito, alle ritenutezze del rapporto platonico:


Ma lei stessa, fuggendo dalle braccia del marito,
A me si donò furtiva in una notte di sogno.


Il destino del Veronese è segnato.
Si trasferisce a Roma. Conduce vita da studente scioperato, assieme a una brigata di agiati giovincelli, in cui militano i futuri poetae novi: Lucio Licinio Calvo, il bresciano Gaio Elvio Cinna, il comasco Cecilio; Cornificio, Gellio, Pollione. Insofferenti alle trombe dell'epica e devoti alla cristallina preziosità di Callimaco, alle brevi arguzie, all'epigramma fulmineo.
Catullo scrive. Cela la sua amata Claudia (lei, in onore della pronuncia plebea, si ribattezzerà Clodia) sotto le vesti letterarie di Lesbia (ancora un omaggio a Saffo).
Una dissimulazione che, ai tempi, era già un debole segreto.
Ecco Ovidio, Tristia, 2, 427


Così il lascivo Catullo cantava la sua amante
Cui dava il falso nome di Lesbia ...

(sic sua lascivo cantata est saepe Catullo
femina, cui falsum Lesbia nomen erat ...)

Rincara perfido Apuleio, svelando gli altarini, nel De Magia, X:



Catullo nominò Lesbia invece di Clodia ...

(Accusent C. Catullum quod Lesbiam pro Clodia nominarit …)

La morte del fratello nella Troade lo costringe al ritorno a Verona.

Durante l'assenza Claudia lo tradisce. Un amico di Catullo, Allio (o Mallio), scrive al poeta:


è indegno restare a Verona,
Catullo, mentre qui uno dei tuoi piú vecchi amici
Cerca calore nella solitudine di un letto

Al ritorno a Roma trova Claudia amante di Marco Celio Rufo.

Si imbarca per la Bitinia, come un adepto della Légion Étrangère: un viaggio per dimenticare.
Torna a Roma nel 56; si riavvicina a Claudia, come condannato da un sortilegio d'amore: tuttavia non si fa illusioni. È roso dalla gelosia.
Nel salotto mondano e letterario che la donna, ora vedova, apre ai nuovi venti populisti, egli conta innumerevoli rivali che cadono sotto la sua furia iconoclasta.
Si scalda, la chiama puttana, si pente; dice di amarla come una madre, una figlia: il nucleo tematico della sua poetica in un guscio di noce:


Odio e amo. Per quale motivo io lo faccia, forse ti chiederai
Non lo so, ma sento che accade, e mi tormento

Infine prega agli dei di liberarlo da questa peste. Invano.

Ormai sente vicina la morte. Non sappiamo perché: una malattia contratta nei viaggi, la disillusione politica (l'affarismo e le clientele filocesariane), il dolore per il fratello; oppure la consunzione d'amore, perché no.
Nella prossima puntata esamineremo in breve la figura di Claudia.
Ora voglio dire due cose su Gaio Valerio Catullo.

La prima. Catullo è un classico. Ed è un classico non perché scrisse in latino duemila anni fa o perché ne insegnano il culto nei residui licei italiani.

Catullo è un classico (a cui si deve il nostro zelo di lettori) perché sopporta la rilettura. Una, due dieci volte. Una rilettura che lo svela, ogni volta, migliore. È la qualità dei classici: la patina del tempo li soffonde, inestricabilmente, di affetto, venerazione, mistero; verità. Catullo dice il vero: sì, è così: questa è la vita, l'amore, la rabbia, l'infelicità.

La seconda. Baudelaire scrisse che Catullo e la brigata di poetae novi furono compositori esclusivamente epidermici e sensuali. Anche Omero ogni tanto dormicchia: Baudelaire con lui, stavolta.
Esaminiamo la lirica più famosa del Veronese, Godiamoci la vita, mia Lesbia, e l'amore. Questa non è una lirica erotica, una semplice dimostrazione di sensualità. No: è la disperata celebrazione dell'Amore all'ombra della Morte; e celebrazione contro il senso comune, i mores, i pettegolezzi.
Diceva Leopardi:


Fratelli a un tempo stesso Amore e Morte
Ingenerò la sorte …

In soli tredici versi (tredici) Catullo sfoga il suo sentimento; e questo è tanto più ardente quanto più insidiato dalla piccineria morale (i vecchi inaciditi) e dalla Morte, qui trasfigurata nei termini maestosi di una visione lucreziana (Se questa nostra breve luce muore/noi dormiremo un'unica notte senza fine).
Tali immagini immortali sono rese con un linguaggio immediato, colloquiale, bramoso; impaziente di affermare il breve lume di un'esistenza condannata all'eterno nulla.
Da questo punto di vista Catullo è un decadente. La Morte in lui non è più, come nell'epica, diluita nella retorica del ‘dulce et decorum est pro patria mori’: gloriosa e renitente al pessimismo. Qui la morte è maledetta, è la fine di tutto: agli uomini non resta che un breve scampolo di vita per tentare la felicità.

Se il quinto carme è il vertice amoroso del canzoniere, non deve sorprendere che il contraltare funebre d'esso, la poesia in morte del fratello (carme centouno), parli con gli stessi toni disperati, seppur rassegnati e mesti: stavolta per un diverso amore, quello del sangue: 


Di gente in gente, di mare in mare ho viaggiato,
o fratello, e giungo a questa mesta cerimonia
per consegnarti il funereo dono supremo
e per parlare invano con le tue ceneri mute,
poiché la sorte mi ha rapito te, proprio te,
o infelice fratello precocemente strappato al mio affetto.
E ora queste offerte, che io porgo, come comanda l'antico
rito degli avi, dono dolente per la cerimonia,
gradisci; sono madide di molto pianto fraterno;
ti saluto per sempre, o fratello, addio.

Gigantesca.

Ed ecco le poesie per Claudia (traduzioni di Mario Ramous):


III.
Quante risate al liceo per questo passero, goliardicamente equivocato ... Una interpretazione scollacciata che, tuttavia, pare investire anche il mondo accademico tanto che un autorevole studioso americano, H. D. Jocelyn, dedicherà alla quaestio un saggio negazionista: H. D Jocelyn, On some unnecessarily indecent interpretations of Catullus 2 and 3, American Journal of Philology, 1980

Pianga Venere, piangano Amore
E tutti gli uomini gentili:
È morto il passero del mio amore,
Morto il passero che il mio amore
Amava più degli occhi suoi.
Dolcissimo, la riconosceva
Come una bambina la madre,
Non si staccava dal suo grembo,
Le saltellava intorno
E soltanto per lei cinguettava.
Ora se ne va per quella strada oscura
Da cui, giurano, non torna nessuno.
Siate maledette, maledette tenebre
Dell’Orco che ogni cosa bella divorate:
Una delizia di passero m’avete strappato.
Maledette, passerotto infelice:
Ora per te gli occhi, perle del mio amore,
Si arrossano un poco, gonfi di pianto.

V.
Una delle più belle poesie di ogni tempo.

Godiamoci la vita, mia Lesbia, l'amore,
E il mormorio dei vecchi inaciditi
Consideriamolo un soldo bucato.
I giorni che muoiono possono tornare,
Ma se questa nostra breve luce muore
Noi dormiremo un'unica notte senza fine.
Dammi mille baci e ancora cento,
Dammene altri mille e ancora cento,
Sempre, sempre mille e ancora cento.
E quando alla fine saranno migliaia
Per scordare tutto ne imbroglieremo il conto,
Perché nessuno possa stringere in malie
Un numero di baci così grande.

VII.
Variazione del carme precedente. Cirene è città della Libia nota per la coltivazione del silfio, pianta aromatica e medicinale. Batto è il mitico fondatore di Cirene: la sua statua campeggiava al centro della città.

Mi chiedi con quanti baci, Lesbia,
Tu possa giungere a saziarmi:
Quanti sono i granelli di sabbia
Che a Cirene assediano i filari di silfio
Tra l'oracolo arroventato di Giove
E l'urna sacra dell'antico Batto,
O quante, nel silenzio della notte, le stelle
Che vegliano i nostri amori furtivi.
Se tu mi baci con cosí tanti baci
Che i curiosi non possano contarli
O le malelingue gettarvi una malia,
Allora si placherà il delirio di Catullo

VIII.
I primi disinganni. Il discidium

Povero Catullo, basta con le illusioni:
Se muore, credimi, ogni cosa è perduta.
Una fiammata di gioia i tuoi giorni
Quando correvi dove lei, l'anima tua voleva,
Amata come amata non sarà nessuna:
Nascevano allora tutti i giochi d'amore
Che tu volevi e lei non si negava.
Una fiammata di gioia quei giorni.
Ora non vuole piú:  e tu, coraggio, non volere,
Non inseguirla, come un miserabile, se fugge,
Ma con tutta la tua volontà resisti, non cedere.
Addio, anima mia. Catullo non cede piú,
Non verrà a cercarti, non ti vorrà per forza:
Ma tu soffrirai di non essere desiderata.
Guardati, dunque: cosa può darti la vita?
Chi ti vorrà? a chi sembrerai bella?
Chi amerai? da chi sarai amata?
E chi bacerai? a chi morderai le labbra?
Ma tu, Catullo, resisti, non cedere.

XI.
Si allude alla campagna di Giulio Cesare nella Britannia (55 a. C.).
Eccezionale l'evocazione di un Oriente favoloso.

Furio, Aurelio, che miei compagni
Sino all'estremo dell'India verreste
Alle cui rive lontane batte sonoro
Il mare d'Oriente,
Tra gli Arabi indolenti, gli Ircani,
Gli Sciti, i Parti armati di frecce
O sino alle acque che il Nilo trascolora
Con le sue sette foci;
E oltre i monti aspri delle Alpi
Per visitare i luoghi dove vinse Cesare,
Il Reno di Gallia, i Britanni
Orribili e sperduti;
Voi che con me, qualunque sia il volere
Degli dei, sopportereste ogni mia pena,
Ripetete all'amore mio queste poche
Parole amare.
Se ne viva felice con i suoi amanti
E in un solo abbraccio, svuotandoli
D'ogni vigore, ne possieda quanti vuole
Senza amarne nessuno,
Ma non mi chieda l'amore di un tempo:
Per colpa sua è caduto come il fiore
Al margine di un prato se lo tocca
Il vomere passando.

XXXVII. 
Il tempio dei Dioscuri sorgeva nel Foro di Roma. In Iberia, patria dell’odiato Egnazio, prosperavano le colonie di conigli e usanze igieniche abominevoli.

Puttanieri di quell'ignobile taverna
Nove colonne oltre il tempio dei Dioscuri,
Credete d'avere l'uccello solo voi,
Di poter fottere le donne solo voi,
Considerandoci tutti cornuti?
O forse perché sedete cento o duecento
In fila come tanti idioti, non credete
Che potrei incularvi tutti e duecento?
Credetelo, credetelo: su ogni muro
Qui fuori scriverò che avete il culo rotto.
Fuggitami dalle braccia, la donna mia,
Amata come amata non sarà nessuna,
Anche lei, che mi costrinse a tante battaglie,
Siede tra voi. E come se ne foste degni
La chiavate tutti e non siete, maledetti,
Che mezze canaglie, puttanieri da strada:
Tu più di tutti, tu Egnazio, capellone
Modello, nato fra i conigli della Spagna,
Che ti fai bello di una barba incolta
E di denti sciacquati con la tua urina.

XLII.
Ancora un esagitato turpiloquio: Claudia diviene ‘putida turpis moecha’. La flagitatio era antica forma di giustizia popolare per cui "anziché ricorrere al pretore ... il creditore poteva fare una chiassata al fine di ottenere indietro il suo avere" (una istituzione simile a quella, veneziana, della pittima).
È incerto se Catullo si riferisca a Lesbia oppure ad Ameana, amante dell'infame parvenue Mamurra.

Avanti, endecasillabi, accorrete,
Tutti, tutti quanti, dovunque siete, tutti.
Beffandosi di me questa puttana infame
Non vuole più restituirmi i taccuini
Che mi appartengono: non permettetelo.
Non diamole respiro, li rivoglio.
Se vi preme saperlo, è questa che dimena
Il culo e ride sguaiata mostrando i denti
Come una baldracca, un cane randagio.
Circondatela e gridatele addosso:
'Lurida puttana, restituiscili,
Restituiscili, puttana lurida'.
Te ne freghi? Sei una fogna, una troia,
La carogna più infame che ci sia.
Ma questo evidentemente non basta.
Se non altro, che bruci di vergogna,
Femmina di bronzo, muso di cagna.
Gridatele addosso ancora più forte:
'Lurida puttana, restituiscili,
Restituiscili, puttana lurida'.
Non si ottiene niente, niente la scuote.
Bisognerà proprio cambiare tono,
Se vogliamo ottenere qualcosa: 'Di grazia,
Fiore d'ogni virtù, rendimi i taccuini'.

XLIII.
Qui di sicuro Catullo denigra le forme sgraziate di Ameana, termine di paragone buono per delineare la bellezza perfetta di Claudia.

Buon dio, ragazza, con quel nasone,
Quei piedacci, con gli occhi spenti,
Quelle dita tozze e la bocca molle,
Con quel tuo linguaggio volgare,
Proprio te, puttanella di quel fallito
Di Formia, dicono bella i provinciali?
E ti paragonano alla mia Lesbia?
O società imbecille e senza gusto.


Simile a un dio mi sembra che sia
E forse più di un dio, vorrei dire,
Chi, sedendoti accanto, gli occhi fissi
Ti ascolta ridere
Dolcemente; ed io mi sento morire
D'invidia: quando ti guardo io, Lesbia,
A me non rimane in cuore nemmeno
Un po' di voce,
La lingua si secca e un fuoco sottile
Mi scorre nelle ossa, le orecchie
Mi ronzano dentro e su questi occhi
Scende la notte.

LVIII.

Celio, la mia Lesbia, quella Lesbia,
Quella sola Lesbia che amavo
Più di ogni cosa e di me stesso,
Ora all'angolo dei vicoli spreme
Questa gioventù dorata di Remo.

LXXXVIII.
Estratti. Il primo incontro con Claudia, i tradimenti di lei, la sopportazione paziente, il dolore per la morte del fratello e i ringraziamenti all’amico, Allio, che ha permesso brevi attimi di felicità fra i due amanti.

... Mi è caro, caro che a me, come amico sincero,
Tu chieda il conforto affettuoso della poesia.
Ma perché anche tu, Allio, conosca le mie amarezze
E non creda che io rinneghi i doveri dell'ospite,
Ascolta in che traversie io stesso sono immerso
E non chiedere a un infelice di donarti gioia.
Al tempo della mia prima toga candida, quando
L'età fiorita si godeva la sua primavera,
Mi abbandonai a vivere e certo lo sa la dea
Che dolce e amaro mescola in ogni affanno d'amore,
Ma tutto, tutto nel pianto la morte del fratello
Ha cancellato. Ahimè fratello, fratello mio,
Tu con la tua morte tu ogni gioia m'hai spezzato,
Con te tutta la nostra casa con te hai sepolto,
Con te ogni mia felicità, che nella tua vita
Tu di dolce amore ti nutrivi, con te è finita.
E con la sua morte io ho bandito dalla mente
Le mie fantasie, ogni piacere dello spirito.
Ora tu mi scrivi: “è indegno restare a Verona,
Catullo, mentre qui uno dei tuoi piú vecchi amici
Cerca calore nella solitudine di un letto”;
No, Allio, non è indegno, ma triste, questo sí.
Mi perdonerai dunque se non ti offro quei doni
Che il lutto anche a me ha tolto, ma non mi è possibile.
Ma non posso certo tacere, o dee, quanto, come
E con quale tenerezza Allio m'abbia aiutato,
E perché il tempo fuggendo verso l'oblio dei secoli
Non ricopra di nera notte questo suo affetto,
Io lo dirò a voi e voi dovrete dirlo a tutti:
Fate che queste carte continuino a parlarne
. . .
E sempre, sempre più in morte diventi famoso,
Non lasciate che tessendo la sua trama sottile
Il ragno avvolga di indifferenza il nome di Albo.
E voi sapete che tormenti m'abbia dato Venere
Con la sua ambiguità, a che punto m'abbia ridotto,
Quando io bruciavo come la rupe di Sicilia
O la sorgente Màlia alle Termopili dell'Eta,
O gli occhi dolenti si consumavano nel pianto
Bagnando le guance di una amara pioggia di lacrime,
Come dalla cima di un monte che si perde in cielo
Sgorga limpido un ruscello tra i muschi delle rocce
Che, precipitando a valle lungo tutto il pendio,
Penetra attraverso le strade affollate di gente,
Alleviando la stanchezza e il sudore dei viandanti
Quando il caldo opprimente screpola i campi riarsi.
E come nel buio della tempesta i marinai
Sentono arrivare in un soffio il vento favorevole
invocato nelle preghiere a Castore e Polluce,
Così fu per me l'aiuto che mi venne da Allio.
Egli mi aprì davanti un campo che m'era vietato:
A me, alla mia donna egli diede la sua casa,
Perché lì vivessimo il nostro reciproco amore.
E lì entrando con passo leggero la mia dea
Si fermò bianca di luce sulla soglia consunta,
Puntando il suo piede nel sandalo con un fruscio ...
E affascinante …,
La luce mia in un abbraccio si strinse al mio grembo,
E volandole tutto intorno candido di luce
Risplendeva Amore nella sua tunica di croco.
Anche se non le basta Catullo, sopporterò,
Purché sia donna discreta, qualche amore furtivo
Per non rendermi noioso come fanno gli sciocchi.
Giunone stessa, regina dei cieli, seppe vincere,
Abituata com'era all'infedeltà di Giove,
L'ira per le colpe del suo capriccioso marito.
Ma non si può paragonare gli uomini agli dei:
Smettila con queste pose da vecchio rimbambito,
Non fu certo la mano del padre che la condusse,
Avvolta di profumi orientali, nella mia casa,
Ma lei stessa, fuggendo dalle braccia del marito,
A me si donò furtiva in una notte di sogno.
E questo mi basta, se lei ricorderà felici
Quegli istanti che solo a me, a me solo ha donato.
Per tutto quello che m'hai dato dunque, accetta in dono
Questi versi, Allio, scritti come meglio ho potuto,
Perché in tutto il tempo a venire nessun giorno mai
Possa corrodere di ruggine nera il tuo nome.
Ed infiniti vi aggiungeranno gli dei quei doni,
Che Temi dava un tempo in premio agli uomini giusti.
Siate felici, tu e l'anima della tua vita,
E la casa in cui ci amammo io e la donna mia,
E chi da allora mi concede e mi nega rifugio
Perché da lui viene la ragione d'ogni mio bene,
Ma innanzi a tutti lei, più cara di me stesso, lei,
La luce mia, che con la sua mi fa dolce la vita.

2 commenti: