Ti racconto un libro
Silvio Perrella, Giùnapoli
Neri Pozza, 2006
Elvira Sessa
“Fatta di schiaffi, di parole mal comprese, di occhi che guardano e di piedi che provano a orientarsi tra le strade della città”, così il protagonista senza nome del romanzo “Giùnapoli” racconta la sua iniziazione alla vita partenopea.
Un percorso iniziato nel 1973, scandito da partenze e ritorni, da instancabili passeggiate con gli occhi tra le stratificazioni urbanistiche, sociali e letterarie della città.
La Napoli di Perrella è una seduttrice schizofrenica, dove si intrecciano “più città, spesso sconosciute le une alle altre” (Camaldoli, i Colli Aminei, il bosco di Capodimonte, il Vomero, la Ferrovia, Fuorigrotta, Montesanto, i Quartieri Spagnoli); è una creatura che non è donna nè uomo, “non è solo storia e non è solo natura”. “È la città delle possibilità segrete, dove bisogna trasformarsi in archeologi della bellezza”; è un’Arpia che artiglia le orecchie degli stranieri con la “forza tellurica” della sua lingua ed è capace di far sentire sempre straniero anche chi la abita da anni. Il personaggio di Perrella se ne accorge, vano è ogni tentativo di anatomizzarla e governarla: la Napoli sventrata dalla speculazione edilizia che vomita nel mare la sua rabbia di vittima di un oscuro fato, sottrae ribelle il suo corpo ad ogni lettino clinico, ad ogni classificazione urbanistica e letteraria, “sfugge, sfugge, e quando pensi di possederne un tratto (...) ecco che arriva la confusione, non sai più come orientarti, tutto scoppia (...) e non rimane che cenere immaginativa”, “e io continuo a perdermi, anche nei luoghi che conosco benissimo”. È questa, come ricorda Perrella, la Napoli inafferrabile delle pagine di Anna Maria Ortese, Raffaele La Capria, Ermanno Rea, Domenico Rea, Sergio De Santis, Mario Pomilio e della generosità di Tullio Pironti.
È la Napoli delle contraddizioni: l’espressione “Giùnapoli”, usata nella zona residenziale della città (il Vomero) per indicare i quartieri che le si stendono ai piedi, condensa tutta l’anima di questa metropoli apparentemente di tutti e per tutti, ma, allo stesso tempo in preda al disordine morale, dove “ognuno pensa a se stesso e alla propria famiglia e se ne infischia dello spazio pubblico”, ostaggio di una classe digerente (al posto di quella dirigente) e progettata in verticale secondo un preciso disegno politico, come spiega l’architetto Italo Ferraro al protagonista del romanzo: la verticalità di Napoli non è casuale, è stata voluta perchè “contribuisce a rafforzare i privilegi. Chi sta in alto in genere Napolha più luce e più vista.(...) La verticalità di Napoli è soprattutto una verticalità sociale”. Così Perrella apre una amara riflessione sul destino partenopeo ma senza sfociare nel pessimismo: “Quale sarà il futuro di Napoli? Quello di una città tribale, costretta a un’illegalità pulviscolare, o quello di una metropoli multietnica spalancata sul Mediterraneo?(...) Di certo, se rivolto il tappeto del mondo e osservo la sua tessitura, non posso non sperare che il filo di Napoli si intrecci sempre più fittamente a tutti gli altri.”
In fondo, nel romanzo, la tagliente ragione dura solo un lampo: la Menade partenopea con le dita unte dalle delizie fritte del Vomero, trascina il lettore in una sfrenata danza di luci e musiche jazz, pop, rock e soul napoletano, dagli Osanna a Pino Daniele, fino a lasciarlo stremato a terra con la voglia di ricominciare di nuovo, ormai prigioniero della malussìa, quel “sentimento salmastro” che, come un sortilegio, incatena per sempre a questa città di mistero, di mare e di vento.
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