A distanza di trentatré anni possono riscontrarsi due evidenze in tale intervista.
Primo: il testo si è rapidamente trasformato in luogo comune o in cibreo politico da citazione (spesso fuori luogo), escludendo in tal modo la conoscenza diretta (per pigrizia, neghittosità, ignoranza). Diciamo la verità: quanti di noi l'hanno letto integralmente?
Secondo. Spesso, in Italia, i discorsi o le interviste più importanti (tali poiché analizzano, con sincerità disarmante e cristallina, una mutazione antropologica epocale) sono nascosti nelle pieghe della storiografia: il discorso di Paolo VI a Castelgandolfo del 1974 (in cui dichiarava la sudditanza della Chiesa al consumismo montante); il resoconto di Giulio Andreotti alla Camera dei Deputati del 1990 (quello di Gladio) dove si delineava la democrazia italiana quale sistema di potere dimidiato dal colonialismo americano; e, ovviamente, l'intervista di Enrico Berlinguer a Eugenio Scalfari del 1981, uscita su La Repubblica alla fine di luglio, quando gli Italiani imbarcavano palette e paperelle sulle cilindrate (ormai) medioalte per godersi il decennio da bere.
Sul testo c'è poco da dire: Berlinguer ha ragione in pieno: sull'ingiustizia sociale, sulla disoccupazione, sulla nevrosi e l'infelicità indotti da uno stile di vita edonista e da una società strutturata plutocraticamente, sulla corruzione, sulla partitocrazia che invade ogni campo della vita istituzionale e civile a danno dei cittadini, sulle distorsioni del sistema bancario et cetera.
Berlinguer, tuttavia, sbaglia (rovinosamente) due volte.
Anzitutto nella convinzione che la politica italiana potesse ancora vivere di una dialettica interna, propria, indipendente; tutte le prospettive indicavano, invece, una perdita di ruolo internazionale a vantaggio di una globalizzazione incontrastata in cui le multinazionali sarebbero state, di fatto, centrali decisionali economiche e culturali al di sopra delle legislazioni e delle costituzioni nazionali.
E soprattutto egli sbaglia nel credere che il progressismo del voto sul divorzio e sull'aborto potesse mutarsi in voti elettorali per il PCI; o la sinistra in generale. Quei voti, invece, erano dettati non da un avanzamento illuminato del corpo nazionale, ma proprio dalle suggestioni del nuovo consumismo amorale per cui ogni struttura sociale, morale e culturale pregressa (la famiglia tradizionale, ad esempio) era un impaccio alla propria crescita indiscriminata e travolgente.
La stessa ansia di liquidazione finirà per stritolare le strutture partitiche nate nei primi decenni del secolo. Berlinguer, insomma, nel 1981, era (come Craxi, Andreotti, Spadolini, La Malfa) il segretario d'un partito su cui già pendeva inderogabile la condanna dei tempi a venire.
Quando il mondo globalizzato presenterà il conto all'Italia (nel 1992, appena tre anni dopo il crollo del blocco sovietico) Berlinguer sarà già morto; le sue controparti, tuttavia, abdicheranno in brevissimo tempo.
Un nuovo ordine avanzava irresistibile sulle macerie del vecchio, ormai inservibile ai signori del mondo.
Enrico Berlinguer/Eugenio Scalfari
“I partiti non fanno più politica”, mi
dice Enrico Berlinguer, ed ha una piega amara nella bocca e, nella voce, come
un velo di rimpianto. Mi fa una curiosa sensazione sentirgli dire questa frase.
Siamo immersi nella politica fino al collo: le pagine dei giornali e della TV grondano di titoli politici, di personaggi politici, di battaglie politiche, di
slogans politici, di formule politiche, al punto che gli italiani sono stufi,
hanno ormai il rigetto della politica e un vento di qualunquismo soffia robustamente
dall’Alpi al Lilibeo…”.
“No, no, non è così”, dice lui scuotendo
la testa sconsolato. “Politica si faceva nel ’45, nel ’48 e ancora negli anni
Cinquanta e sin verso la fine degli anni Sessanta. Grandi dibattiti, grandi
scontri di idee e, certo, anche di interessi corposi, ma illuminati da
prospettive chiare, anche se diverse, e dal proposito di assicurare il bene
comune. Che passione c’era allora, quanto entusiasmo, quante rabbie sacrosante!
Soprattutto c’era lo sforzo di capire la realtà del paese e di interpretarla. E
tra avversari ci si stimava. De Gasperi stimava Togliatti e Nenni e, al di là
delle asprezze polemiche, n’era ricambiato”.
Oggi non è più così?
“Direi proprio di no, i partiti hanno
degenerato e questa è l’origine dei malanni d’Italia”.
La passione è finita? La stima reciproca
è caduta?
“Per noi comunisti la passione non è
finita. Ma per gli altri? Non voglio dar giudizi e mettere il piede in casa
altrui, ma i fatti ci sono e sono sotto gli occhi di tutti. I partiti di oggi
sono soprattutto macchina di potere e di clientela: scarsa o mistificata
conoscenza della vita e dei problemi della società e della gente, idee, ideali,
programmi pochi o vaghi, sentimenti e passione civile, zero. Gestiscono
interessi, i più disparati, i più contraddittori, talvolta anche loschi, comunque
senza alcun rapporto con le esigenze e i bisogni umani emergenti, oppure
distorcendoli, senza perseguire il bene comune. La loro stessa struttura
organizzativa si è ormai conformata su questo modello, non sono più
organizzatori del popolo, formazioni che ne promuovono la maturazione civile e
l’iniziativa: sono piuttosto federazioni di correnti, di camarille, ciascuna
con un “boss” e dei “sotto-boss”. La carta geopolitica dei partiti è fatta di
nomi e di luoghi. Per la Dc: Bisaglia in Veneto, Gava in Campania, Lattanzio in
Puglia, Andreotti nel Lazio, De Mita ad Avellino, Gasparri in Abruzzo, Forlani
nelle Marche e così via. Ma per i socialisti, più o meno, è lo stesso e per i
socialdemocratici peggio ancora…”.
Lei mi ha detto poco fa che la degenerazione
dei partiti è il punto essenziale della crisi italiana.
“È quello che io penso”.
Per quale motivo?
“I partiti hanno occupato lo Stato e
tutte le sue istituzioni, a partire dal Governo. Hanno occupato gli enti
locali, gli enti di previdenza, le banche, le aziende pubbliche, gli istituti
culturali, gli ospedali, le università, la Rai TV, alcuni grandi giornali. Per
esempio, oggi c’è il pericolo che il maggior quotidiano italiano, Il Corriere
della Sera, cada in mano di questo o quel partito o di una sua corrente: ma noi
impediremo che un grande organo di stampa come il Corriere faccia una così
brutta fine. Insomma, tutto è già lottizzato e spartito o si vorrebbe
lottizzare e spartire. E il risultato è drammatico. Tutte le “operazioni” che
le diverse istituzioni e i loro attuali dirigenti sono chiamati a compiere
vengono viste prevalentemente in funzione dell’interesse del partito o della
corrente o del clan cui si deve la carica. Un credito bancario viene concesso
se è utile a questo fine, se procura vantaggi e rapporti di clientela;
un’autorizzazione amministrativa viene data, un appalto viene aggiudicato, una
cattedra viene assegnata, un’attrezzatura di laboratorio viene finanziata, se i
beneficiari fanno atto di fedeltà al partito che procura quei vantaggi, anche
quando si tratta soltanto di riconoscimenti dovuti”.
Lei fa un quadro della realtà italiana
da far accapponare la pelle.
“E secondo lei non corrisponde alla
situazione?”.
Debbo riconoscere, signor segretario,
che in gran parte è un quadro realistico. Ma vorrei chiederle: se gli italiani
sopportano questo stato di cose è segno che lo accettano o che non se ne
accorgono. Altrimenti voi avreste conquistato la guida del paese da un pezzo.
Allora delle due l’una: o gli italiani hanno, come si suol dire, la classe
dirigente che si meritano, oppure preferiscono questo stato di cose degradato
all’ipotesi di vedere il partito comunista insediato al governo e ai vertici di
potere. Che cosa è dunque che vi rende così estranei o temibili agli occhi
della maggioranza degli italiani?
La domanda è complessa. Mi consentirà di
risponderle ordinatamente. Anzitutt molti italiani, secondo me, si accorgono
benissimo del mercimonio che si fa dello Stato, delle sopraffazioni, dei
favoritismi, delle discriminazioni. Ma gran parte di loro è sotto ricatto.
Hanno ricevuto vantaggi (magari dovuti, ma ottenuti solo attraverso i canali
dei partiti e delle loro correnti) o sperano di riceverne, o temono di non
riceverne più. Vuole una conferma di quanto dico? Confronti il voto che gli
italiani danno in occasione dei referendum e quello delle normali elezioni
politiche e amministrative. Il voto ai referendum non comporta favori, non
coinvolge rapporti clientelari, non mette in gioco e non mobilita candidati e
interessi privati o di un gruppo o di parte. È un voto assolutamente libero da
questo genere di condizionamenti. Ebbene, sia nel ’74 per il divorzio, sia,
ancor di più, nell’81 per l’aborto, gli italiani hanno fornito l’immagine di un
paese liberissimo e moderno, hanno dato un voto di progresso. Al Nord come al
Sud, nelle città come nelle campagne, nei quartieri borghesi come in quelli
operai e proletari. Nelle elezioni politiche e amministrative il quadro cambia,
anche a distanza di poche settimane. Non nego che, alla lunga, gli effetti del
voto referendario sulla legge 194 si potranno avvertire anche alle elezioni
politiche. Ma è un processo assai più lento, proprio per le ragioni strutturali
che ho indicato prima”.
C’è dunque una specie di schizofrenia
nell’elettore.
“Se vuole la chiami così. In Sicilia,
per l’aborto, quasi il 70 per cento ha votato “NO”: ma, poche settimane dopo,
il 42 per cento ha votato Dc. Del resto, prendiamo il caso della legge
sull’abort in quell’occasione, a parte le dichiarazioni ufficiali dei vari
partiti, chi si è veramente impegnato nella battaglia e chi ha più lavorato per
il “NO”, sono state le donne, tutte le donne, e i comunisti. Dall’altra parte
della barricata, il “movimento per la vita” e certe parti della gerarchia
ecclesiastica. Gli altri partiti hanno dato, sì, le loro indicazioni di voto,
ma durante la campagna referendaria non li abbiamo neppure visti, a cominciare
dalla Dc. È la spiegazione sta in quello che dicevo prima: sono macchine di
potere che si muovono soltanto quando è in gioco il potere: seggi in Comune,
seggi in Parlamento. Governo centrale e governi locali, ministeri,
sottosegretariati, assessorati, banche, enti. Se no, non si muovono. E
quand’anche lo volessero, così come i partiti sono diventati oggi, non ne
avrebbero più la capacità”.
Veniamo all’altra mia domanda, se
permette, signor segretari dovreste aver vinto da un pezzo, se le cose stanno
come lei descrive.
“In un certo senso, al contrario, può
apparire persino straordinario che un partito come il nostro, che va così
decisamente contro l’andazzo corrente, conservi tanti consensi e persino li
accresca. Ma io credo di sapere a che cosa lei pensa: poiché noi dichiariamo di
essere un partito “diverso” dagli altri lei pensa che gli italiani abbiano
timore di questa diversità”.
Sì, è così, penso proprio a questa
vostra conclamata diversità. A volte ne parlate come se foste dei marziani,
oppure dei missionari in terra d’infedeli: e la gente diffida. Vuole spiegarmi
con chiarezza in che consiste la vostra diversità? C’è da averne paura?
“Qualcuno, sì, ha ragione di temerne, e
lei capisce subito chi intendo. Per una risposta chiara alla sua domanda,
elencherò per punti molto semplici in che consiste il nostro essere diversi,
così spero non ci sarà più margine all’equivoco. Dunque: primo, noi vogliamo
che i partiti cessino di occupare lo Stato. I partiti debbono, come dice la
nostra Costituzione, concorrere alla formazione della volontà politica della
nazione: e ciò possono farlo non occupando pezzi sempre più larghi di Stato, sempre
più numerosi centri di potere in ogni campo, ma interpretando le grandi
correnti di opinione, organizzando le aspirazioni del popolo, controllando
democraticamente l’operato delle istituzioni. Ho detto che i partiti hanno
degenerato, quale più quale meno, da questa funzione costituzionale loro
propria, recando così danni gravissimi allo Stato e a se stessi. Ebbene, il
Partito comunista italiano non li ha seguiti in questa degenerazione. Ecco la
prima ragione della nostra diversità. Le sembra che debba incutere tanta paura
agli italiani?
Mi pare che incuta paura a chi ha
degenerato. Ma vi si può obiettare: voi non avete avuto l’occasione di provare
la vostra onestà politica, perché al potere non ci siete arrivati. Chi ci dice
che, in condizioni analoghe a quelle degli altri, non vi comportereste allo
stesso modo?
“Lei vuol dirmi che l’occasione fa
l’uomo ladro. Ma c’è un fatto sul quale l’invito a riflettere: a noi hanno
fatto ponti d’oro, la Dc e gli altri partiti, perché abbandonassimo questa
posizione d’intransigenza e di coerenza morale e politica. Ai tempi della
maggioranza di solidarietà nazionale ci hanno scongiurato in tutti i modi di
fornire i nostri uomini per banche, enti, poltrone di sottogoverno, per
partecipare anche noi al banchetto. Abbiamo sempre risposto di no. Se l’occasione
fa l’uomo ladro, debbo dirle che le nostre occasioni le abbiamo avute anche
noi, ma ladri non siamo diventati. Se avessimo voluto venderci, se avessimo
voluto integrarci nel sistema di potere imperniato sulla Dc e al quale
partecipano gli altri partiti della pregiudiziale anticomunista, avremmo potuto
farlo; ma la nostra risposta è stata no. E ad un certo punto ce me siamo andati
sbattendo la porta, quando abbiamo capito che rimanere, anche senza
compromissioni nostre, poteva significare tener bordone alle malefatte altrui,
e concorrere anche noi a far danno al paese”.
Veniamo alla seconda diversità.
“Noi pensiamo che il privilegio vada
combattuto e distrutto ovunque si annidi, che i poveri e gli emarginati, gli
svantaggiati, vadano difesi, e gli vada data voce e possibilità concreta di
contare nelle decisioni e di cambiare le proprie condizioni; che certi bisogni
sociali e umani oggi ignorati vadano soddisfatti con priorità rispetto ad
altri, che la professionalità e il merito vadano premiati, che la partecipazione
di ogni cittadino e di ogni cittadina alla cosa pubblica debba essere
assicurata”.
Onorevole Berlinguer, queste cose le
dicono tutti.
“Già, ma nessuno dei partiti governativi
le fa. Noi comunisti abbiamo sessant’anni di storia alle spalle e abbiamo
dimostrato di perseguirle e di farle sul serio. In galera con gli operai ci
siamo stati noi; sui monti con i partigiani ci siamo stati noi; nelle borgate
con i disoccupati ci siamo stati noi; con le donne, con il proletariato
emarginato, con i giovani ci siamo stati noi; alla direzione di certi comuni,
di certe regioni, amministrate con onestà, ci siamo stati noi”.
Non voi soltanto.
“È vero, ma noi soprattutto. E passiamo
al terzo punto di diversità. Noi pensiamo che il tipo di sviluppo economico e sociale
capitalistico sia causa di gravi distorsioni, di immensi costi e disparità
sociali, di enormi sprechi di ricchezza. Non vogliamo seguire i modelli di
socialismo che si sono finora realizzati, rifiutiamo una rigida e centralizzata
pianificazione dell’economia, pensiamo che il mercato possa mantenere una
funzione essenziale, che l’iniziativa individuale sia insostituibile, che
l’impresa privata abbia un suo spazio e conservi un suo ruolo importante. Ma
siamo convinti che tutte queste realtà, dentro le forme capitalistiche – e
soprattutto, oggi, sotto la cappa di piombo del sistema imperniato sulla Dc –
non funzionano più, e che quindi si possa e si debba discutere in qual modo
superare il capitalismo inteso come meccanismo, come sistema, giacché esso, oggi,
sta creando masse crescenti di disoccupati, di emarginati, di sfruttati. Sta
qui, al fondo, la causa non solo dell’attuale crisi economica, ma di fenomeni
di barbarie, del diffondersi della droga, del rifiuto del lavoro, della
sfiducia, della noia, della disperazione. È un delitto avere queste idee?”.
Non trovo grandi differenze rispetto a
quanto può pensare un convinto socialdemocratico europeo. Però a lei sembra
un’offesa essere paragonato ad un socialdemocratico.
“Beh, una differenza sostanziale esiste.
La socialdemocrazia (parlo di quella seria, s’intende) si è sempre molto
preoccupata degli operai, dei lavoratori sindacalmente organizzati e poco o
nulla degli emarginati, dei sottoproletari, delle donne. Infatti, ora che si
sono esauriti gli antichi margini di uno sviluppo capitalistico che
consentivano una politica socialdemocratica, ora che i problemi che io prima
ricordavo sono scoppiati in tutto l’Occidente capitalistico, vi sono segni di
crisi anche nella socialdemocrazia tedesca e nel laburismo inglese, proprio
perché i partiti socialdemocratici si trovano di fronte a realtà per essi
finora ignote o da essi ignorate.
“Noi abbiamo messo al centro della
nostra politica non solo gli interessi della classe operaia propriamente detta
e delle masse lavoratrici in generale, ma anche quelli degli strati emarginati
della società, a cominciare dalle donne, dai giovani, dagli anziani. Per
risolvere tali problemi non bastano più il riformismo e l’assistenzialismo; ci
vuole un profondo rinnovamento di indirizzi e di assetto del sistema. Questa è
la linea oggettiva di tendenza e questa è la nostra politica, è il nostro
impegno. Del resto, la socialdemocrazia svedese si muove anch’essa su questa
linea; e quasi metà della socialdemocrazia tedesca (soprattutto le donne e i
giovani) è anch’essa ormai dello stesso avviso. Mitterand ha vinto su un
programma per certi aspetti analogo”.
Vede che non ha ragione di alterarsi se
dico che tra voi e un serio partito socialista non ci sono grandi differenze.
“Non mi altero affatto. Basta intendersi
sull’aggettivo serio, che per noi significa comprendere e approfondire le
ragioni storiche, ideali e politiche per le quali siamo giunti a elaborare e a
perseguire la strategia dell’eurocomunismo (o terza via, come la chiamano anche
i socialisti francesi), che è il terreno sul quale può aversi un avvicinamento
e una collaborazione tra le posizioni dei socialisti e dei comunisti”
Dunque, siete un partito socialista
serio…
“…nel senso che vogliamo costruire sul
serio il socialismo…”.
Però, alle elezioni del 21 giugno, i
socialisti di Craxi sono andati parecchio meglio di voi. Come se lo spiega?
“I socialisti hanno certamente colto
alcune esigenze nuove che affiorano nel paese. In modi non sempre chiari, ma
comunque percettibili, stanno mandando segnali a strati della borghesia e anche
di alta borghesia. La crisi profonda che ha investito la Dc non è senza
riflessi sull’incremento del Psi, nonché dei socialdemocratici, dei liberali,
dei repubblicani. C’è stanchezza verso la Dc e desiderio diffuso di
cambiamento. Il 21 giugno, il grosso dei voti che sono defluiti dalla Dc si è
trasferito nell’area laica e socialista. Per ora è stato così”.
Lo giudica un fenomeno positivo?
“Complessivamente, sì, dato che si
accompagna ad un calo dei fascisti del Msi e a una conferma della nostra
ripresa rispetto al ’79”.
Le dispiace, la preoccupa che il Psi
lanci, come lei dice, segnali verso strati borghesi della società?
“No, non mi preoccupa. Ceti medi,
borghesia produttiva sono strati importanti del paese e i loro interessi
politici ed economici, quando sono legittimi, devono essere adeguatamente
difesi e rappresentati. Anche noi lo facciamo. Se questi gruppi sociali trasferiscono
una parte dei loro voti verso i partiti laici e verso il Psi, abbandonando la
tradizionale tutela democristiana, non c’è che da esserne soddisfatti: ma a una
condizione. La condizione è che, con questi nuovi voti, il Psi e i partiti
laici dimostrino di saper fare una politica e di attuare un programma che
davvero siano di effettivo e profondo mutamento rispetto al passato e rispetto
al presente. Se invece si trattasse di un semplice trasferimento di clientele
per consolidare, sotto nuove etichette, i vecchi e attuali rapporti tra partiti
e Stato, partiti e Governo, partiti e società, con i deleteri modi di governare
e di amministrare che ne conseguono, allora non vedo di che cosa dovremmo dirci
soddisfatti noi e il paese”.
Secondo lei, quel mutamento di metodi e
di politica c’è o no?
“Francamente, no. Lei forse lo vede? La
gente se ne accorge? Vada in giro per la Sicilia, ad esempi vedrà che in gran
parte c’è stato un trasferimento di clientele. Non voglio affermare che sempre
e dovunque sia così. Ma affermo che socialisti e socialdemocratici non hanno
finora dato alcun segno di voler iniziare quella riforma del rapporto tra
partiti e istituzioni – che poi non è altro che un corretto ripristino del
dettato costituzionale – senza la quale non può cominciare alcun rinnovamento e
senza la quale la questione morale resterà del tutto insoluta”.
Lei ha detto varie volte che la
questione morale oggi è al centro della questione italiana. Perché?
“La questione morale non si esaurisce
nel fatto che, essendoci dei ladri, dei corrotti, dei concussori in alte sfere
della politica e dell’amministrazione, bisogna scovarli, bisogna denunciarli e
bisogna metterli in galera. La questione morale, nell’Italia d’oggi, fa
tutt’uno con l’occupazione dello stato da parte dei partiti governativi e delle
loro correnti, fa tutt’uno con la guerra per bande, fa tutt’uno con la
concezione della politica e con i metodi di governo di costoro, che vanno
semplicemente abbandonati e superati. Ecco perché dico che la questione morale
è il centro del problema italiano. Ecco perché gli altri partiti possono
provare d’essere forze di serio rinnovamento soltanto se aggrediscono in pieno
la questione morale andando alle sue cause politiche”
Le cause politiche che hanno provocato
questo sfascio morale: me ne dica una.
“Gli dico quella che, secondo me, è la
causa prima e decisiva: la discriminazione contro di noi”.
Non le sembra eccessivo, signor
segretario? Tutto nasce dal fatto che voi non siete stati ammessi nel governo
del Paese?
“Vorrei essere capito bene. Non dico che
tutto nasca dal fatto che noi non siamo stati ammessi nel governo, quasi che,
col nostro ingresso, di colpo si entrerebbe nell’Età dell’Oro (del resto noi
non abbiamo mai chiesto l’elemosina d’esser “ammessi”). Dico che col nostro
ingresso si pone fine a una stortura, a una amputazione della nostra democrazia
e della dialettica democratica, della vita dello Stato; dico che verrebbe a
cessare il fatto che per trentacinque anni un terzo degli italiani è stato
discriminato per ragioni politiche, che non è mai stato rappresentato nel
governo, che il sistema politico è stato bloccato, che non c’è stato alcun
ricambio della classe dirigente, alcuna alternativa di metodi e di programmi.
Il gioco è stato artificialmente ristretto al 60 per cento degli eletti in
Parlamento. Oggi si parla della forza dei socialisti: ma è chiaro che, con un
gioco limitato al 60 per cento della rappresentanza parlamentare, i socialisti
si vengano a trovare in una posizione chiave”.
Questo le dispiace?
“Mi sembra un gioco truccato, oltre al
fatto che bisogna vedere come il Psi sta usando questa posizione chiave di cui
gode anche grazie alla nostra esclusione. Per esempio, potrebbe usarla proprio
per rimuovere la pregiudiziale contro di noi. A quel punto le possibilità di
ricambio, cioè di una reale alternativa – e, nel suo ambito, anche di
un’alternanza – sarebbero possibili, sarebbero a vantaggio generale e, a me
sembra, a vantaggio dello stesso Psi, in quanto partito che ha anch’esso una
sua insostituibile funzione nel rinnovamento del paese. Oppure, i socialisti
possono seguitare a usare la loro posizione per accrescere il potere del loro
partito nella spartizione e nella lottizzazione dello Stato. E allora la
situazione italiana non può che degradare sempre più”.
Dica la verità, signor segretario lei
ritiene che i socialisti stiano seguendo piuttosto questa seconda via, non la
prima.
“Ebbene, non sono io che lo penso, sono
i fatti a dircelo. Nel ’77 i socialisti si impegnarono a rimuovere la
pregiudiziale democristiana contro di noi. Nel ’78 ripeterono l’impegno, ma al
primo veto della Dc, l’accettarono come un dato immutabile. Badi bene: non dico
che dovevano farlo per i nostri begli occhi. Ma se il problema di fondo della
democrazia italiana è, come anch’essi riconoscono, la mancanza di un ricambio
di classe dirigente, capace di avviare un rinnovamento reale e profondo,
dovevano farlo per se stessi e per il paese. Nell’80, poi, hanno addirittura
capovolto la loro linea e, da una timida richiesta di far cadere le
pregiudiziali anticomuniste, sono passati all’alleanza con la destra
democristiana, quella del “preambolo”, cioè della più ottusa discriminazione
contro di noi e della divisione del movimento operaio. I socialisti pensano di
crescere più in fretta al riparo di una linea come quella del “preambolo”. Io
non credo che sarà così.
“Ma poi, quel che deve interessare
veramente è la sorte del paese. Se si continua in questo modo, in Italia, la
democrazia rischia di restringersi, non di allargarsi e svilupparsi; rischia di
soffocare in una palude”.
Craxi sostiene che il problema, prima
ancora del ricambio della classe dirigente e di governo, è quello di un
mutamento dei rapporti di forza a sinistra, tra socialisti e comunisti. Craxi
dice: datemi forza, più forza; fate arrivare il Psi al 18, al 20 per cento.
Allora insieme ai socialdemocratici, l’area socialista e quella comunista
saranno più o meno equivalenti, e allora sarà possibile anche allearsi con il
Pci, perché, allora saremmo noi socialisti a condurre il gioco e a garantirne
le regole. Craxi si richiama all’esempio di Mitterand, che ha vinto perché è
diventato più forte dei comunisti. Credo che sia questo il suo obiettivo. A
quel punto sarà pronto ad allearsi con voi, ma non prima.
“Sì, lo so che nel partito socialista
c’è chi pensa in questo modo. Ma, poiché è stato tirato in ballo Mitterand,
voglio farle osservare che Mitterand entrò nella Sfio, il vecchio partito
socialdemocratico francese, quando la Sfio era ridotta al 6 per cento di voti,
mentre il partito comunista francese stava sopra il 20. Ebbene, Mitterand
trasformò la Sfio, spazzò via la vecchia burocrazia d’apparato, aprì ai clubs,
al sindacato, ai cattolici; ma soprattutto, cercò subito una linea unitaria a
sinistra con il partito comunista francese, sebbene il Pcf fosse un partito –
diciamolo – alquanto diverso dal nostro.
“Mitterand non ha aspettato d’essere più
forte del Pcf per ricercarne l’alleanza. In queste ultime elezioni
presidenziali, durante il dibattito televisivo con Giscard, Mitterand disse: io
non escluderò mai dal governo la classe operaia francese e un partito, come il
Pcf, che ne rappresenta una parte. L’ha detto e l’ha anche fatto. E ha risposto
agli americani con la dignità che conosciamo. Io dico che forse proprio per questo
la forza socialista francese è cresciuta fino a diventare maggioritaria nella
sinistra”.
La posizione di Mitterand è stata anche
una posizione obbligata. Obbligata dal sistema costituzionale ed elettorale
francese.
“Ma no, non è affatto vero. C’è stato
Rocard che ancora poco tempo fa proponeva una linea del tutto diversa:
proponeva una specie di centro-sinistra, l’alleanza con una parte dei
centristi-giscardiani. Il partito socialista francese ha vinto sulla linea di
Mitterand, non su quella di Rocard”.
Però, signor segretario, Mitterand,
appena eletto, s’è affrettato a fare una dichiarazione di pieno atlantismo. In
particolare, a proposito della questione degli euromissili, ha detto d’essere
favorevole alla loro installazione. Lei non ha mai detto nulla di simile. Tra
le caratteristiche del vostro essere diversi non ci sarà per caso anche una
tendenza al neutralismo europeo, che invece i socialdemocratici europei
respingono in blocco?
“Lei adesso sposta il confronto fra la
politica dei socialisti francesi, dei socialisti italiani e lo nostra su un
altro tavolo, sulle questioni di politica internazionale. Ma la seguo
volentieri. E le dirò, allora, che non mi persuadono le ultime dichiarazioni di
Mitterand, ma che noi comunisti italiani possiamo condividere la dichiarazione
sugli euromissili che figura nel programma del nuovo governo francese e che è
stata sottoscritta sia dal partito socialista che da quello comunista. Essa, in
sostanza, non chiede che l’America cessi di costruire i suoi Pershing 2 e i
Cruiser, cioè gli euromissili più moderni che vuole installare in Europa a
partire dal 1983. Ma intanto si dia inizio immediato al negoziato per diminuire
i missili in Europa, anzi per toglierli completamente, e l’Urss cessi
l‘installazione dei suoi SS20 fin dal momento in cui il negoziato ha inizio. E
io aggiungo che bisogna far presto, perché se continuerà la gara a chi
costruisce più missili, a chi li fabbrica più sofisticati e a chi ne mette di
più; il pericolo di una guerra di sterminio in Europa diventerebbe
incontrollabile.
“Questa è la posizione che risulta
dall’accordo tra i socialisti e i comunisti francesi, e analoga mi sembra la
posizione del partito socialdemocratico tedesco; ed è la nostra posizione. Mi
piacerebbe sapere se è anche la posizione del Governo italiano e dei compagni
socialisti italiani. Del resto l’adesione dell’Italia al programma approvato
dalla Nato nel dicembre 1979 (quando si decise sugli euromissili) era subordinata
appunto alla ripresa immediata del negoziato. Quale decisione fu votata anche
dai socialisti. Oggi la possibilità di un negoziato – e di un negoziato senza
condizioni – è aperta. Che cosa dicono e che cosa fanno il Governo e i partiti
che lo sostengono di fronte alla testarda repulsa di Reagan a dare inizio alle
trattative con l’Urss?”
Onorevole Berlinguer, vorrei che adesso
lei mi parlasse dello stato del suo partito. C’è una perdita di velocità? Una
perdita di influenza?
“Direi che abbiamo girato la boa e siamo
di nuovo in ripresa. Sinceramente. Dopo le politiche del ’79 rischiammo una
sconfitta che poteva metterci in ginocchio. Non tanto per la perdita di voti,
che pure fu grave, quanto per un altro fatt durante i governi di unità
nazionale noi avevamo perso il rapporto diretto e continuo con le masse. Quei
governi fecero anche cose pregevoli, che non rinneghiamo. Contennero
l’inflazione, in politica estera presero qualche buona iniziativa, la lotta
contro il terrorismo fu condotta con fermezza e dette anche risultati. Poi ci
fu un’inversione di tendenza e gli accordi con noi furono violati. Ma sta di
fatto che noi, anche per nostri errori di verticismo, di burocratismo e di
opportunismo, vedemmo indebolirsi il nostro rapporto con le masse nel corso dell’esperienza
delle larghe maggioranze di solidarietà. Ce ne siamo resi conto in tempo. Posso
assicurarle che un’esperienza del genere noi non la ripeteremmo mai più”.
La rottura della maggioranza d’unità
nazionale provocò contrasti nel gruppo dirigente del partito?
“Ci furono diverse opinioni e il
dibattito durò a lungo”.
Più tardi, pochi mesi fa, avete lanciato
la linea dell’alternativa democratica. Posso ricordarle, signor segretario, che
lei e il gruppo dirigente del suo partito eravate stati tenacemente contrari ad
ogni discorso di alternativa, fino a quando vi siete improvvisamente “convertiti”.
Come mai?
“C’è stato forse un certo ritardo. Ma
ricordo che già da tempo noi definivamo l’obiettivo dell’alternativa come
alternativa democratica per distinguerla da quella di una secca alternativa di
sinistra, per la quale non esistono tuttora le condizioni. Posso aggiungerle
che avevamo anche puntato sulla possibilità che la Dc potesse davvero
rinnovarsi e modificarsi, cambiare metodi e politica, decidersi a porsi
all’altezza dei problemi veri del paese. Non ho difficoltà a dire che su questo
punto abbiamo sbagliato, o meglio che i mezzi usati non conseguivano lo scopo.
Quando ce ne siamo resi conto, abbiamo messo la Dc con le spalle al muro, cioè
abbiamo detto che una simile Dc era incapace di dirigere l’opera di risanamento
e di rinnovamento necessaria, e che si facesse da parte. L’alternativa
democratica è per noi uno strumento che può servire anche a rinnovare i
partiti, compresa la Dc”.
Lei dice che, come forza e influenza, il
Pci ha girato la boa. Da dove lo deduce?
“Dai risultati elettorali dell’80 e
soprattutto dall’81. In generale abbiamo recuperato una buona parte dei voti
operai, giovanili e popolari che non ci erano stati confermati nel ’79. E abbiamo
certamente esteso i consensi fra le masse femminili. E anche il voto a noi dei
ceti medi non è diminuito, mediamente. Il nostro rapporto con le masse, anche
se non è ancora soddisfacente, è in netto miglioramento. Avanziamo nelle grandi
città”.
Non nel Mezzogiorno.
“È vero, qui è il punto debole e non si
tratta di cosa di poco conto. Nel Sud la situazione è più difficile, anche
perché i condizionamenti clientelari sono più forti e noi non riusciamo a
contrastarli con efficacia. Ma nell’80 abbiamo migliorato le posizioni a Napoli
e a Taranto. Nell’81 abbiamo avanzato a Ragusa. Certo, in Puglia la sconfitta è
stata grave e anche in diverse altre realtà del Sud siamo andati indietro o
siamo rimasti fermi. Ma, complessivamente, la risalita è cominciata. E questa
volta parta da una base consolidata che sta sopra il 30 per cento e che avviene
in presenza di una crisi della Dc e del suo sistema di potere come mai si era
vista”.
Quali caratteristiche ha questa crisi
secondo lei?
“Intanto vorrei ricordare le tre diverse
sconfitte subite dalla Dc, negli ultimi tre mesi. C’è stata la sconfitta nel
referendum sulla legge per l’aborto, la sconfitta elettorale del 21 giugno, la
perdita della presidenza del consiglio, e cioè: una sconfitta ideale e
culturale, una sconfitta politica, una sconfitta di leadership. Il 17 maggio si
è visto che nel 68 per cento dei “No” nel referendum ci sono democristiani e
cattolici che hanno voltato le spalle alla Dc. Il 21 giugno s’è visto che in
tutte le grandi città la Dc è in declino, in molte è sotto al 30 per cento, in
alcune è poco al di sopra del 20: un partito, cioè, di media forza. La Dc non è
più il partito di maggioranza relativa in quasi tutti i comuni al di sopra dei
5000 abitanti. Sono novità quanto mai significative, se non traumatiche. La
verità è che ormai questa Dc è un partito senza strategia, senza idee, senza
progetto, senza leaders. I suoi rapporti con lo stesso mondo delle
organizzazioni cattoliche e persino con il complesso della gerarchia
ecclesiastica è fortemente in crisi. Ne vuole un esempio? L’Episcopato, fino ai
sommi gradi, si impegnò a fondo nel referendum per l’aborto, ma poco o niente
nelle elezioni comunali di Roma”.
Vuole indicare secondo lei le cause di
questa decadenza?
“È la questione morale che oggi divora
la Dc, come divora le istituzioni. E, andando più al fondo, è la insuperata
discriminazione contro di noi, sulla quale ha finora retto il sistema politico
e di potere della Dc, che oggi si sgretola. L’ultima edizione della politica di
preclusione contro il PCI – il “preambolo” – ha consegnato la Dc alla sua
destra interna e alle alleanze che questa preferisce, ma che la consumano, che
la rendono più arrogante, ma più debole. Le conseguenze si vedono. Nelle città
fasce di strati sociali hanno abbandonato la Dc: strati di lavoratori, di
giovani, di donne, di medio ceto, di borghesia, di imprenditori, di
professionisti. Questi non credo siano voti “in libera uscita”: sono voti che
difficilmente rientreranno in “caserma”“.
Il governo Spadolini è una novità…
“Ho detto che è una delle sconfitte più
brucianti per la Dc…”.
Ma voi sembrate assai tiepidi verso
questo esperimento. Perché?
“Siamo stati I primi e, all’inizio, i
soli a chiedere che alla presidenza del Consiglio andasse una personalità non
democristiana. Ed è significativo che questa personalità sia proprio Spadolini,
perché è stato lui e il suo partito che, insieme a noi, hanno sollevato con
maggiore energia la questione morale e lo scandalo della P2. Anche sul problema
dell’indipendenza della magistratura Spadolini è stato assai fermo e gliene va
dato atto. Del resto, sono bastati questi limitati segnali per creare
nervosismo all’interno della maggioranza, nella quale si sente già parlare di
nuova crisi e di fine prematura della legislatura. Anche la nomina dei vertici
militari e dei servizi di sicurezza è avvenuta per iniziativa prevalente del
presidente del Consiglio e ciò ha accentuato il malessere nella Dc”.
Dunque, un giudizio positivo al cento
per cento?
“Purtroppo no. Spadolini ci ha deluso
molto quanto ai criteri seguiti nella formazione del governo, che sono stati
quelli della lottizzazione fra i partiti e le loro correnti interne,
esattamente come sempre. Non c’è stato si questo punto il benché minimo segnale
di mutamento, una distinzione, un’autonomia del presidente del Consiglio dalle
segreterie dei partiti, e tra governo e partiti…”
Lei sperava che Spadolini adottasse in
qualche modo la proposta Visentini di un governo sganciato dai condizionamenti dei
partiti?
“Speravo che almeno ci fosse qualche
passo in quella direzione. E invece, alla fine, tutto si è svolto secondo le
regole dl famigerato manuale Cencelli, il cui autore del resto – e non a caso –
è nelle liste della P2”.
Signor Segretario, in tutto il mondo
occidentale si è d’accordo sul fatto che il nemico principale da battere in
questo momento sia l’inflazione, e difatti le politiche economiche di tutti i
paesi industrializzati puntano a realizzare quell’obiettivo. È anche lei del
medesimo parere?
“Risponderò nello stesso modo di
Mitterand: il principale malanno delle società occidentali è la disoccupazione.
I due mali non vanno visti separatamente. L’inflazione è – se vogliamo –
l’altro rovescio della medaglia. Bisogna impegnarsi a fondo contro l’una e
contro l’altra. Guai a dissociare questa battaglia, guai a pensare, per
esempio, che pur di domare l’inflazione si debba pagare il prezzo d’una
recessione massiccia e d’una disoccupazione, come già in larga misura sta
avvenendo. Ci ritroveremmo tutti in mezzo ad una catastrofe sociale di
proporzioni impensabili.
Il PCI, agli inizi del 1977, lanciò la
linea dell’ “austerità”. Non mi pare che il suo appello sia stato accolto con
favore dalla classe operaia, dai lavoratori, dagli stessi militanti del
partito. Forse, quando lei ha ricordato che il vostro rapporto con le masse si
era indebolito, pensava al fallimento della vostra campagna per l’austerità e a
certi provvedimenti impopolari da voi sostenuti?
“Noi sostenemmo che il consumismo
individuale esasperato produce non solo dissipazione di ricchezza e storture
produttive, ma anche insoddisfazione, smarrimento, infelicità e che, comunque,
la situazione economica dei paesi industrializzati – di fronte all’aggravamento
del divario, al loro interno, tra zone sviluppate e zone arretrate, e di fronte
al risveglio e all’avanzata dei popoli dei paesi ex-coloniali e della loro
indipendenza – non consentiva più di assicurare uno sviluppo economico e
sociale conservando la “civiltà dei consumi”, con tutti i guasti, anche morali,
che sono intrinseci ad essa. La diffusione della droga, per esempio, tra i
giovani è uno dei segni più gravi di tutto ciò e nessuno se ne dà realmente
carico. Voglio cogliere l’occasione di questa intervista per annunciare che il
nostro partito ha deciso di fare della questione della lotta contro la droga
uno dei punti essenziali del suo impegno politico e organizzativo.
“Ma dicevamo dell’austerità. Fummo i
soli a sottolineare la necessità di combattere gli sprechi, accrescere il
risparmio, contenere i consumi privati superflui, rallentare la dinamica
perversa della spesa pubblica, formare nuove risorse e nuove fonti di lavoro.
Dicemmo che anche i lavoratori avrebbero dovuto contribuire per la loro parte a
questo sforzo di raddrizzamento dell’economia, ma che l’insieme dei sacrifici
doveva essere fatto applicando un principio di rigorosa equità e che avrebbe
dovuto avere come obiettivo quello di dare l’avvio ad un diverso tipo di
sviluppo e a diversi modi di vita (più parsimoniosi, ma anche più umani).
Questo fu il nostro modo di porre il problema dell’austerità e della
contemporanea lotta all’inflazione e alla recessione, cioè alla disoccupazione.
Precisammo e sviluppammo queste posizioni al nostro XV Congresso del marzo
1979: non fummo ascoltati. Né il Pci, né il movimento sindacale trovarono
l’interlocutore politico che raccogliesse e utilizzasse quel messaggio…”.
Che oggi, comunque, voi avete
abbandonato addirittura in contrasto con una parte del movimento sindacale e
dello stesso Lama.
“Favole. Oggi noi respingiamo – in pieno
accordo con il movimento sindacale – l’idea che l’inflazione sia dovuta
unicamente al costo del lavoro e che il costo del lavoro sia principalmente
dovuto alla scala mobile. È diventata una vera ossessione questa della scala
mobile, dietro la quale la classe dirigente tradizionale nasconde la sua
impotenza a dominare la crisi”.
L’inflazione avrà pure delle cause, non
cade dal cielo …
“Certo che ce l’ha. E la prima viene dal
dollaro. Un dollaro a 1.200 lire, mentre appena pochi mesi fa non raggiungeva
le 800 lire, quanti punti di inflazione introduce nel sistema? Di quanto
aumenta il costo di tutte le importazioni e in particolare del petrolio? È in
aumento di quasi il 50 per cento, un fenomeno di dimensioni enormi. Il vertice
di Ottawa anche da questo punto di vista è stato un falliment ma direi che è
stato un fallimento da tutti punti di vista. E poi: abbiamo in Italia una
bilancia agricolo-alimentare terribilmente deficitaria, ma non si è fatto e non
si fa quasi nulla per trasformare e sviluppare l’agricoltura. Infine, la spesa
pubblica: un cancro che divora le risorse del paese in mille modi, con mille
sprechi, a favore di mille clientele”.
Lei è favorevole ad un taglio radicale
della spesa?
“Sì, ma credo sia indispensabile farlo
in modo progressivo e selezionato”.
In quali settori andrebbe realizzato il
taglio?
“In buona parte va fatto anche nelle
spese previdenziali e per la sanità. Allo stato attuale, è insensato che
l’assistenza medica sia stata resa di colpo gratuita per tutti gli italiani
(dopo di che si ritorna a un ticket applicato indiscriminatamente!). Sia
gratuita, e con servizi efficienti per le fasce di reddito inferiori e
medio-inferiori. Gli altri contribuiscano in ragione del loro reddito. Ma devono
anche essere combattute e liquidate le baronie e le clientele dei “pirati della
salute”, che portano a sprechi enormi e alimentano insopportabili
discriminazioni. Lo stesso criterio dovrebbe valere per tutta la politica
previdenziale, per le tariffe, per la politica fiscale”.
E il costo del lavoro? Le sembra un tema
da dimenticare?
“Il costo del lavoro va anch’esso
affrontato e, nel complesso, contenuto, operando soprattutto sul fronte
dell’aumento della produttività. Voglio dirle però con tutta franchezza che
quando si chiedono sacrifici al paese e si comincia con il chiederli – come al
solito – ai lavoratori, mentre si ha alle spalle una questione come la P2, è
assai difficile ricevere ascolto ed essere credibili. Quando si chiedono
sacrifici alla gente che lavora ci vuole un grande consenso, una grande
credibilità politica e la capacità di colpire esosi e intollerabili privilegi.
Se questi elementi non ci sono, l’operazione non può riuscire”.
Signor segretario, a che punto siamo con
il terrorismo?
“A un bruttissimo punto. Vede dove ci
hanno portato i cedimenti ai terroristi? Con l’obiettivo – che voglio sperare
in buona fede – di salvare una vita, si è ceduto ai ricatti delle Br, e così è
st5ata alimentata la catena dei sequestri e di altri ricatti. Se quando fu
rapito il giudice D’Urso le forze politiche avessero resistito, non avessero
ceduto in nulla, le Br non sarebbe state incoraggiate a proseguire. Ora siamo
arrivati al punto che l’”Avanti!” pubblica integralmente il testo dei loro
messaggi e che per ottenere il rilascio di un ostaggio, viene addirittura
pagato ai terroristi un riscatto, con il quale le Br miglioreranno il loro
armamento e la loro azione eversiva. Tutto questo è intollerabile. È
intollerabile che fra i partiti che fanno parte del Governo della Repubblica vi
siano atteggiamenti contraddittori e oscillanti su un problema così vitale”.
Si è detto da parte di autorevoli
dirigenti sindacali che i terroristi si sono infiltrati persino nei quadri del
sindacato.
“È molto probabile. Ma attenzione: ho
l’impressione che queste denunce si pongano non tanto l’obiettivo di combattere
il terrorismo quanto di dividere il sindacato e di infangare il nostro partito.
Voglio essere assolutamente chiaro su questo punto. Che infiltrazioni
terroristiche ci siano in alcune fabbriche siamo stati noi i primi e, per lungo
tempo, i soli a dirlo. Il nostro compagno Guido Rossa fu ucciso proprio perché
aveva rivelato ciò. Da qui a stabilire un collegamento politico-ideologico tra
la lotta di classe, la lotta sindacale e il terrorismo ci corre un abisso. Che
cosa si vuole? Criminalizzare i sindacati e i sindacalisti che organizzano le
lotte? Questa è un’operazione infame e chi la tentasse va smascherato di fronte
a tutto il movimento dei lavoratori”.
Onorevole Berlinguer, qual è il suo
giudizio sul congresso del partito comunista polacco?
“Assai positivo. I compagni polacchi
hanno dimostrato di saper accogliere la spinta al rinnovamento che proviene da
tutta la società polacca, in particolare della classe operaia e dalle sue
rinnovate organizzazioni sindacali, e hanno condotto questa delicatissima
operazione con coraggio e, insieme, con saggezza e prudenza. La situazione,
tuttavia, rimane ancora difficile e complessa, e credo che lo sarà ancora a
lungo”.
Per l’elezione del comitato centrale del
partito, il Congresso di Varsavia ha votato a scrutinio segreto e in piena
libertà di scelta. Non c’erano liste prefabbricate…
“Vede? Non sempre i grandi fatti di
rinnovamento democratico vengono dall’Occidente. In questo caso vengono
dall’Est indicazioni importanti per lo sviluppo dei partiti operai di tutto il
mondo”.
Forse perché all’Est c’è quasi tutto da
fare quanto a rinnovamento democratico. La domanda è questa, signor segretari
il metodo di votazione adottato a Varsavia è assai più libero non soltanto
rispetto a tutti gli altri partiti comunisti dell’Est, ma perfino rispetto al
Pci. Non pensa lei che sia venuto il momento di muoversi nello stesso senso?
“Noi abbiamo una procedura complessa, ma
quanto mai democratica per eleggere il comitato centrale, e in essa è previsto
anche il voto segreto. Il nostro statuto stabilisce che la votazione segreta si
effettui obbligatoriamente quando ne faccia richiesta appena un quinto dei
delegati. Ma non poche volte, per eleggere gli organi dirigenti delle nostre
organizzazioni, viene adottato il voto segreto”.
E lei non crede che questo debba
diventare norma generale?
“Non lo escludo affatto, e penso che se
ne possa discutere. Ma perché lei pone a me questa domanda? Lo sa che gli altri
partiti italiani, nei loro congressi, votano di norma, su liste di corrente
bloccate?”.
Lo so, ma non mi pare un buon motivo per
imitarli. Siate diversi anche in questo, e sarà un’ottima cosa.
“Accetto l’invito. Voglio concludere con
un’osservazione. Della Polonia si è parlato molto e giustamente in Italia,
quando si temeva un intervento sovietico. Ora che il processo di rinnovamento
socialista in Polonia è avviato, pur in mezzo a tante difficoltà, e
l’intervento non c’è stato, sembra che l’argomento Polonia abbia perso
interesse per molta stampa e per tanti politici e politologi. Come mai? Il “caso
polacco” non serve più per alimentare la polemica contro di noi? Quanti
pregiudizi ci sono ancora, quanti errori, quanti tabù! Un giornalista invitò
una volta a turarsi il naso e a votare Dc. Ma non è venuto il momento di
cambiare e di costruire una società che non sia un immondezzaio?”
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